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La comunicazione in oncologia: un iceberg sommerso Francesca Rossi

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scarica l'articoloPerché il termine iceberg? I pazienti oncologici spesso utilizzano un linguaggio metaforico per far comprendere agli altri la grandezza e l’impatto che il tumore ha avuto nella loro vita. È facile sentire un paziente che parla di cancro utilizzando termini come “terremoto” “uragano” “tempesta” “iceberg”. L’iceberg richiama l’idea di un qualcosa che è visibile solo in parte: la ferita psichica sommersa dietro la punta di un malessere fisico noto, visibile a tutti.

Il presente articolo si propone di esplorare la comunicazione in seguito ad una diagnosi di cancro. In oncologia, in modo particolare, l’interesse per la comunicazione nasce dalla necessità di gestire la trasmissione di cattive notizie e i contenuti intensi di sofferenza e morte, esplicitamente o implicitamente presenti nell’interazione con pazienti e familiari. La complessa comunicazione con il paziente, è necessaria, da un lato, per comprendere le difficoltà che molto spesso si verificano e, dall’altro, per giustificare il possibile uso della comunicazione come strumento terapeutico.

Analizzando gli strumenti comunicativi e i modelli d’intervento in oncologia, viene approfondita l’importanza dell’“esserci” dello psicologo.

L’obiettivo è quello di promuovere la necessità di un approccio multidisciplinare in cui, accanto alle risorse della chirurgia, della chemioterapia, della radioterapia e dei trattamenti di supporto, il sostegno psicologico dei pazienti abbia lo spazio sufficiente ad affrontare non solo la malattia e il suo trattamento, ma anche il rientro nella vita normale una volta conseguita la guarigione.

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Nonostante i numerosi e significativi progressi scientifici in ambito oncologico, che hanno determinato un netto miglioramento degli approcci terapeutici e un aumento della sopravvivenza dei pazienti, il cancro continua ad associarsi, nell’immaginario individuale e collettivo, a significati di sofferenza fisica e psichica, di morte ineluttabile, di stigma e diversità, di colpa e vergogna.

Di fondamentale importanza appare così la psiconcologia, una disciplina che si pone come interfaccia tra l’oncologia da un lato e la psicologia e la psichiatria dall’altro. Viene preso in considerazione il vissuto del malato, i cambiamenti che la realtà individuale e relazionale subiscono a causa della malattia e le conseguenze psichiche che ne derivano. L’approccio al paziente, quindi, è di tipo integrato: viene considerata la persona in toto con le sue molteplici necessità e non solo la malattia e i sintomi che presenta. Promuovere una prospettiva multidisciplinare implica perciò che si tenga in considerazione, oltre agli aspetti strettamente medici e ai dati biologici, anche l’analisi e l’interpretazione delle componenti cognitive (credenze e conoscenze sulla malattia) psicologiche (livello di stress, ansia, depressione) e comportamentali (stili di vita) di ogni paziente, al fine di promuovere un processo di cura basato sulla compliance. In questo scenario la comunicazione, come processo complesso d’influenzamento reciproco, a cui l’individuo partecipa con le sue emozioni, aspettative, motivazioni, assume un importanza prioritaria.

Il cancro oggi e il contributo della psiconcologia

Oggi parlare di cancro non sorprende. È una parola che è sempre più familiare e vicina di casa. Entra nelle nostre vite per vie traverse, in modo più o meno subdolo e si insidia tra le fessure delle nostre angosce e paure. La paura della morte da sempre accompagna la parola cancro, sinonimo nel gergo comune di immane catastrofe e cambiamenti irreversibili. “Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato” (Murakami H., 2008)

La malattia cambia completamente le lenti attraverso cui guardiamo il mondo, è luce e allo stesso tempo buio, speranza e allo stesso tempo disperazione.

Nonostante la ricerca scientifica in campo oncologico sia sempre più all’avanguardia e sia una delle protagoniste nella lotta quotidiana di medici e ricercatori, non appare sufficientemente sottolineato che di cancro non sempre si muore. Nessuna malattia come il cancro è oggetto di miti e credenze, superstizioni e informazioni falsate. Per molti anni su questo tema l’informazione per il grande pubblico è stata sorvolata, dato che l’argomento suscitava timore e ancora oggi, gli stessi professionisti della salute arrancano nel buio di fronte ad una diagnosi di tumore.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di serie B. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia un fulmine a ciel sereno, una prova esistenziale sconvolgente. Il rischio è di venire completamente travolti da un evento traumatico che fa vacillare le certezze della persona, nonostante la sua resilienza e le sue strategie di coping. Il coping rappresenta una modalità cognitivo-comportamentale con il quale un individuo affronta un evento stressante e le sue conseguenze emozionali. La capacità di far fronte ad una crisi esistenziale dipende da diversi fattori: dal tipo di patologia, dal livello di adattamento precedente alle situazioni di malattia, da fattori culturali e religiosi, dall’assetto psicologico, dalla personalità e da eventuali disturbi psichiatrici presenti (Putton et al, 2011).

Per quanto le risorse possano essere molte, queste non sono infinite e i fattori di rischio a cui si è esposti hanno un effetto cumulativo. Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica e l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia. L’atteggiamento e lo stile di coping impiegato andranno ad influenzare non solo la qualità di vita dopo la diagnosi, ma anche la compliance ai trattamenti medici e lo stesso decorso biologico della malattia (Putton et al., 2011).

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

I nuclei della sofferenza nel paziente oncologico

Il cancro non ha un impatto positivo sulla salute mentale. I pensieri intrusivi e le emozioni riguardo la malattia neoplastica sono molto comuni così come sono comuni i tentativi di evitarli (Wiley, Stanton, 2016). Una diagnosi di tumore rappresenta certamente un trauma e i livelli di impatto su cui la malattia entra, sfondando tutte le porte, sono diversi e non c’è un ordine di importanza.L’importanza è data da dove la persona colloca il nucleo della sofferenza che spesso erroneamente si pensa sia legato al timore della morte ma quanto invece le conseguenze della stessa nel suo mondo interno ed esterno; questo accade anche se l’ipotesi mortifera è solo immaginaria” (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Il primo livello in cui la malattia colpisce è quello fisico. È sicuramente uno degli indici più visibili di malattia, la quale può essere incontrata a livello fisico attraverso la terapia, i sintomi e l’immagine corporea.

Accade spesso che il tumore in maniera subdola e silenziosa si insinui senza dare, perlomeno all’inizio, alcuna avvisaglia del suo arrivo. Così, indisturbato e tranquillo fa il suo percorso e quando il paziente inizia la cura per la prima volta incontra i suoi sintomi. Questo aspetto, molto spesso tralasciato, porta la persona ad un approccio totalmente nuovo: più ci si cura e più si sta male. Quindi, la persona si immagina in un determinato modo (non ci riferiamo esclusivamente al cambiamento esteriore) e al momento della malattia non si percepisce più in quella maniera.

Il secondo livello di impatto è quello esistenziale, il quale riguarda i ruoli, il futuro e le aspettative della persona dinanzi alla malattia. Goffman (1922-1982) parla del ruolo come di un’attività che un “attore” svolge di fronte a specifiche richieste normative legate al suo status e alla posizione occupata dentro la società. Al momento della malattia accade spesso che i ruoli vengano ribaltati e che la persona vada incontro ad un senso di inutilità e frustrazione per la sua condizione di “essere accudito” piuttosto che di “accudire”. Le aspettative e il futuro di fronte ad una diagnosi e prognosi infausta vacillano e le emozioni che la persona prova di fronte a questo, non hanno nulla a che vedere con altre situazioni in cui ha già sperimentato rabbia, angoscia, frustrazione, delusione e disperazione.

Un altro livello di impatto è quello relazionale, in cui vengono a mutare i rapporti di coppia, di amicizia e all’interno di tutto il nucleo familiare. Non è difficile sentire malati di cancro che oltre alla beffa della malattia, sentono di essere stati traditi e abbandonati dalle persone che fino a quel momento erano per loro importanti o quantomeno presenti. È necessario così far comprendere come il cancro sia altamente contagioso a livello emotivo e che non tutti sono in grado di restare nella relazione una volta che questo è diventato così “vicino di casa”. La via di fuga è la scelta che chi siede vicino ad un malato percorre più facilmente, anche nei rapporti sociali obbligati come quello paziente-medico.

L’ultimo livello di impatto, non meno importante, è quello economico. La situazione imprevista genera spese difficili, soprattutto quando ci sono situazioni che evocano una forte urgenza e portano il malato a recarsi in strutture private piuttosto che pubbliche. Queste mettono a repentaglio l’intero assetto economico della famiglia che può venire ulteriormente aggravato quando la malattia costringe ad un’aspettativa dal lavoro, che, a sua volta, porterà alla perdita di un’entrata mensile importante per la famiglia.

La malattia oncologica in età adulta

L’evento malattia interrompe il fluire delle giornate che prima sembravano essere tutte uguali e di cui spesso ci si era sentiti prigionieri; obbliga l’individuo ad arrestare la sua corsa e a fermarsi a pensare all’ineluttabilità degli eventi e della sua morte.

Anche le abitudini più basilari vengono a mutare, dal cornetto al bar che non ha più lo stesso gusto perché le terapie hanno agito sulle papille gustative, agli investimenti libidici e sessuali e “un sé corporeo percepito come assente e poco reattivo alle volontà personali” (Tromellini, 2002,67).

Basti pensare come normalmente una semplice influenza può interrompere bruscamente il lavoro, la possibilità di uscire, di andare al cinema, di prendersi cura di qualcuno. A maggior ragione la malattia sollecita un corpo non più a totale servizio delle esigenze del soggetto, un corpo che non segue più i suoi soliti ritmi di vita e che trova l’individuo impreparato ai condizionamenti della malattia.

Gli stereotipi presenti nella nostra società ci trasmettono l’idea che un soggetto giovane provi maggiore angoscia di fronte la diagnosi di tumore; mentre dai soggetti adulti o comunque più anziani ci si aspetta più serenità legata alla saggezza e alla vita comunque vissuta a pieno fino a quel momento. Questo non è necessariamente vero. Molto spesso i giovani usano come appiglio le loro capacità e i loro sogni ancora da realizzare; mentre per chi è più avanti con l’età la diagnosi arriva con il suo carico di stigmatizzazione e paura ledendo magari già situazioni difficili economicamente, socialmente o emotivamente.

Infatti, molto spesso, l’esperienza di malattia costringe il paziente adulto a ripensare agli accadimenti della propria vita passata alla luce di quella presente, dove nuclei problematici e zone d’ombra mai elaborate riemergono e chiedono di essere prese in considerazione per dare loro un significato del tutto nuovo, alla luce di un presente difficile (Tromellini, 2002).

Le difese del paziente oncologico secondo Kubler-Ross

Pensiamo che la nostra considerevole emancipazione, le nostre conoscenze della scienza e dell’uomo ci abbiano fornito modi e mezzi migliori per preparare noi e le nostre famiglie a questo inevitabile avvenimento. Invece sono passati i tempi in cui un uomo poteva morire in pace e con dignità nella propria casa. Più avanziamo nella scienza, più sembriamo temere e rifiutare la realtà della morte. Com’è possibile?” (Kubler-Ross, 2016,22).

La psichiatra Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004) rappresenta un pilastro essenziale per chi s’interessa, a qualunque livello, del processo del morire. I suoi pluridecennali contatti con persone al termine della vita, l’hanno portata ad elaborare uno studio che ha permesso di individuare cinque fasi o meccanismi di difesa che l’essere umano mette in atto quando entra in contatto con la possibilità di morte imminente.

La prima fase è quella del Rifiuto e Isolamento. Inizialmente la prima reazione è comunemente di shock e poco dopo, svanito il senso di torpore, di incredulità.

I meccanismi più utilizzati sono quelli di negazione e rimozione di quelli aspetti che emotivamente non si riescono a sostenere. Il rifiuto dopo una improvvisa notizia ha la funzione di paracolpi, consente al malato di ritrovare il coraggio e, con il tempo, mobilizza altre difese, meno radicali.

La seconda fase è quella della Rabbia. Questa è proiettata in maniera indistinta su di sé e sull’ambiente. Tutte le attività della vita sembrano bruscamente e prematuramente interrotte e perciò dovunque il malato guardi in questa fase, troverà un qualche motivo per lamentarsi, accusare e rimproverare. Rappresenta, perciò, un momento critico che può essere sia il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche il momento del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.

La terza fase è quella del Patteggiamento. La persona inizia a verificare cosa è in grado di fare e in quali progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato che può far emergere il perché è necessario andare avanti per quella persona.

Così come un figlio che dopo aver “sbattuto i piedi a terra”, cerca un compromesso con il genitore per ottenere ciò che vuole, allo stesso modo il malato, senza speranza, si serve di simili manovre. Il suo desiderio è quasi sempre il prolungamento della vita, o quello di essere assolto per alcuni giorni dal dolore e dal disagio fisico. Il venire a patti diviene così un tentativo di procrastinare: include un premio offerto “per buona condotta”, pone anche un determinato limite di tempo che gli consente di fare una cosa che gli sta particolarmente a cuore e include una promessa implicita che non chiederà più se gli sarà concessa questa dilazione. Promessa che poi, inevitabilmente, non viene mai mantenuta. I patti sono generalmente fatti con Dio e per lo più tenuti segreti, menzionati tra le righe o confidati ad un sacerdote (Kubler-Ross,2016).

La quarta fase è quella della Depressione. Rappresenta il momento in cui il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e solitamente si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta.

Questa fase viene distinta in due tipi di depressione: una reattiva ed una preparatoria. La depressione reattiva è conseguente alla presa di coscienza di quanti aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali, sono andati persi. Al contrario, la depressione preparatoria ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire.

La quinta e ultima fase è quella dell’Accettazione. Quando il paziente ha avuto il tempo e il modo di elaborare ciò che gli è accaduto, giunge ad una fase in cui se pur la rabbia e la depressione possono essere presenti, queste sono di moderato rilievo. In questo momento, più che per il paziente, è importante il sostegno alla famiglia. Questa potrebbe interpretare la “serenità” del familiare come una rassegnazione codarda e pertanto rifiutarla. “L’accettazione non deve essere scambiata con una fase felice. È quasi un vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per «il riposo finale prima del lungo viaggio», come l’ha definito un malato” (Kubler-Ross,2016, 208).

Un elemento che generalmente permane, come un leitmotiv, attraversando queste cinque fasi è: la speranza. Tutti i malati, anche quelli più realistici e meglio disposti ad accettare, lasciano aperta la porta a qualche possibilità di cura che sia lì per loro, per redimerli dal destino infausto. La speranza quando viene offerta, nonostante le cattive notizie, è di notevole aiuto al paziente e alla relazione con l’equipe medica perché mantiene la luce accesa per giorni, settimane o mesi.

Ospedale: luogo di cura, di vissuti e di relazioni. Il day hospital (DH) oncologico.

Nel corso degli ultimi decenni, l’affermarsi di nuovi protocolli di cura hanno portato ad una nuova concezione strutturale e funzionale dei presidi ospedalieri. In tutti i sistemi sanitari dei Paesi ad economia avanzata “sono state sviluppate politiche orientate a determinare un progressivo trasferimento di prestazioni dall’assistenza ospedaliera a quella extra ospedaliera territoriale e domiciliare. Tale fenomeno è stato possibile grazie a straordinari progressi ottenuti in campo medico, chirurgico ed anestesiologico, che hanno consentito di trasferire molte prestazioni, tradizionalmente erogate in regime di ricovero ospedaliero continuativo, in modelli assistenziali a minore intensività quali il day surgery, il day hospital e l’assistenza ambulatoriale, a parità di efficacia e sicurezza” (Ministero della Salute, Progetto Mattoni SSN, 2007).

Il modello di assistenza sanitaria del Day Hospital può essere distinto in quattro aree, a seconda del tipo di intervento:

  1. Diagnostico: rivolto ai pazienti che necessitano di indagini diagnostiche polispecialistiche o che richiedono particolare assistenza. Rende possibile la centralizzazione della prestazione sanitaria, perché nel giro di un giorno il paziente può sottoporsi a diversi tipi di esami.

  2. Terapeutico: rivolto ai pazienti affetti da malattie croniche, curati con farmaci o strumenti che richiedono il monitoraggio dello stato del malato per diverse ore.

  3. Chirurgico: destinato a quei pazienti che necessitano di interventi chirurgici o di esami particolarmente approfonditi che richiedono l’utilizzo della sala operatoria.

  4. Riabilitativo: è indicato per tutti i pazienti che sono sottoposti a terapie di recupero e rieducazione delle funzioni corporee.

In particolare si tratta di un ricovero o di cicli di ricovero programmati, circoscritti ad una sola parte della giornata che non arriva mai a ricoprire l’intero arco delle 24 ore dal momento dell’ospedalizzazione. Inoltre fornisce prestazioni multi professionali e plurispecializzate che non possono essere trovate nei servizi a prestazione ambulatoriale. Queste, infatti, si discostano dal lavoro in day hospital in primis per il tempo necessario all’esecuzione della prestazione, per la loro complessità, il possibile rischio connesso con il trattamento e per l’impiego dei farmaci la cui somministrazione richiede tempi, modalità e controlli di particolare durata.

Un’ équipe multidisciplinare di un servizio di oncologia è formata da tutte le figure professionali a vario titolo implicate nel percorso diagnostico e terapeutico: il primario, i medici specialisti in oncologia, la caposala, gli infermieri, l’ausiliare, i volontari e lo psicologo. Ogni membro dell’équipe ha punti di osservazione, oltre che responsabilità e tipologie di rapporto, diversi con il paziente e la famiglia, perciò può giovarsi della presenza e della conoscenza degli altri colleghi e reciprocamente può aiutare gli altri.

L’équipe in oncologia, generalmente è così articolata (Pantaleo, 2011):

Primario

Il primario coordina le attività del reparto, organizza le attività di aggiornamento medico-scientifico e segue come “supervisore” lo stato di salute di tutti i pazienti ricoverati nel reparto.

Oncologo

Al medico oncologo è richiesto di bilanciare il tecnicismo con una profonda umanità: si tratta di una figura che dovrebbe avere una solida preparazione di medicina internistica, ma al contempo una formazione personale relativa all’aspetto emotivo, per il contatto costante con la morte e con il rischio del fallimento terapeutico (Sbanotto, 2002). L’oncologo è il medico specializzato nella diagnosi e nel trattamento delle neoplasie che possono colpire l’essere umano. Le tre principali specializzazioni che può avere riguardano tre branche dell’oncologia:

  • L’oncologia medica. Gli oncologi con competenze in questo campo si occupano della cura dei tumori tramite chemioterapia.

  • L’oncologia chirurgica. Gli oncologi appartenenti a questo settore sono esperti nella rimozione chirurgica delle neoplasie e nella realizzazione di biopsie.

  • L’oncologia radioterapica. Gli oncologi con una particolare preparazione in questo ambito sono esperti nella radioterapia tumorale.

Caposala

Il ruolo del coordinatore infermieristico è di fondamentale importanza, collante tra quelle che sono le esigenze aziendali e i bisogni di salute dei pazienti. Il lavoro del coordinatore infermieristico si articola su più livelli organizzativi e ad esso è affidata la gestione degli infermieri e di tutte le figure di supporto. In tutte le sue attività deve intraprendere delle scelte che portano alla pianificazione, all’orientamento e all’organizzazione del personale sanitario.

Nella realizzazione delle sue funzioni dovrà favorire in primis un’assistenza infermieristica completa e personalizzata per ogni paziente, una gestione ottimale delle risorse e favorire la partecipazione del personale sanitario alla frequenza di corsi di formazione e aggiornamento.

Infermieri

L’infermiere di oncologia deve, più di tutti, possedere all’interno dell’equipe il carattere olistico dell’assistenza. Nei reparti di oncologia, così come nel DH oncologico, il personale infermieristico deve essere altamente specializzato e motivato perché il suo ruolo è cruciale in ogni fase della malattia del paziente. L’infermiere in ogni periodo del percorso di assistenza al malato oncologico può svolgere il ruolo attivo di facilitatore e incentivatore delle abilità residue per la famiglia e i caregivers. Il suo ruolo è decisivo sia nella somministrazione dei farmaci che nell’educazione del paziente e dei familiari (ad esempio nella cura del PICC e del PORT).

Ausiliare

Il personale ausiliario, oltre a mantenere in ordine il reparto, provvede ad accompagnare i pazienti presso altri servizi o ambulatori, per consulenze o indagini strumentali.

Volontari

Il ruolo del volontario si è andato via via sempre più delineando come un ruolo che integra senza sostituirlo quello di altri professionisti. Gli spazi di attività si sono sempre più allargati e diversificati, in continua collaborazione con altri volontari od operatori.

La comunicazione come relazione di cura.

La Comunicazione, come relazione di cura, è uno strumento importante per tutte le professioni sanitarie, un mezzo che a dispetto di quelli clinici classici appartenenti alle varie figure di aiuto, non decade mai, neanche nei momenti estremi della cura.

In oncologia, e in generale in ambito sanitario, capita spesso di confondere la comunicazione con l’informazione. L’informazione è notizia, passaggio di dati. L’obiettivo è trasformare le conoscenze di chi la riceve. Il trasferimento di notizie non è garanzia di comunicazione: l’informazione è lo strumento indispensabile, ma non sufficiente, della comunicazione (Annunziata, 1997, 400).

L’informazione è un processo “a una via” (linearità), in quanto l’effetto si realizza su uno solo degli interlocutori; si basa essenzialmente sulla comunicazione verbale e, quindi, agisce sulla comprensione, sul pensiero, sulla razionalità. La comunicazione, invece, è un processo “a due vie” (circolarità): prevede modificazioni dei comportamenti in entrambi gli interlocutori, in quanto non si basa solo sulla conoscenza, ma anche sulle emozioni (Vella, De Lorenzo, 2011).

In particolare, la differenza tra comunicazione e informazione è messa in luce quando si considera il silenzio. Dal punto di vista della trasmissione dei dati per la conoscenza, il silenzio equivale a “nessuna notizia”; dal punto di vista delle modificazioni del comportamento, invece, il silenzio dice molto.

La comunicazione è un dato tangibile all’interno del quale gli individui si orientano decidendo chi sono e cosa vogliono essere. È Bateson (1972) che ha approfondito il punto di vista psicologico della comunicazione, come gioco di relazioni, e ha osservato come in ogni messaggio siano presenti almeno due livelli: uno relazionale, legato a ciò che si dice e uno relativo a ciò che si vuole che l’interlocutore comprenda della comunicazione (Gambini, 2006). Secondo questa visione esiste infatti il piano della comunicazione, delineato da ciò che si dice attraverso il linguaggio verbale, e il piano della metacomunicazione, “una comunicazione sulla comunicazione in corso, ovvero una riflessione che si opera sul discorso affinché la comunicazione avvenga correttamente” (Quadrio, Venini, 2002, 45).

La risposta del soggetto, davanti ad una diagnosi di tumore, dipende da variabili psicologiche soggettive, da fattori medico-clinici e interpersonali, tra i quali spicca maggiormente la relazione con il personale sanitario. L’équipe, attenta a comprendere i bisogni del paziente, espressi tramite il linguaggio verbale e soprattutto non verbale, ha l’obbligo di promuovere un ascolto attivo e una partecipazione empatica al vissuto del paziente.

Affinché l’ascolto si concretizzi in un reale aiuto al paziente è necessario tener conto che, il carico emotivo del malato oncologico lungo tutto il percorso di cura, dalla diagnosi alla eventuale e auspicata guarigione, è davvero enorme. Nell’approccio comunicativo-relazionale verso questa tipologia di pazienti, l’operatore sanitario non può esimersi dal prenderne atto, se vuole ottenere una corretta elaborazione della realtà e una acquisizione di tutti quegli elementi che consentano alla persona, di adottare un comportamento di compliance terapeutica.

L’adattamento alla malattia e la risposta ai trattamenti terapeutici infatti, dipende in larga misura dalla qualità dell’approccio relazionale dell’équipe curante e richiede un intervento di grande impegno emotivo, umano, psico-sociale, comunicativo-relazionale, ed etico. I dati di numerose ricerche condotte in ambito oncologico infatti, hanno dimostrato l’incidenza di tali aspetti sul trattamento delle neoplasie.

In ambito sanitario quindi, la comunicazione è un importante strumento per costruire e mantenere nel tempo una relazione globalmente terapeutica ed esige, perciò, la formazione continua degli operatori sanitari.

La Comunicazione con gli operatori sanitari.

Negli ultimi anni, soprattutto nei paesi occidentali, l’attenzione alla comunicazione tra medico e paziente, si è via via ampliata: lo documentano le pubblicazioni, le ricerche, i corsi di formazione e i seminari dedicati a questo tema.

La particolare asimmetria della relazione, il collegamento tra comunicazione e aderenza ai trattamenti, tra comunicazione e gradimento dei pazienti, gli stili comunicativi del medico, sono alcuni dei temi che sono stati al centro dell’interesse degli studi condotti in quest’ambito poiché è sempre più evidentemente provato che i mutamenti nei processi di comunicazione influenzano in modo rilevante proprio gli atteggiamenti e i comportamenti del paziente (Ghinelli, 2009).

Analizzando la letteratura emerge che, in questi studi, le variabili principalmente prese in considerazione sono (Ong et al., 1995):

  1. Le variabili di risultato: tutte le caratteristiche attraverso cui può essere valutata l’efficacia della comunicazione tra medico e paziente (soddisfazione, compliance ecc.);

  2. Le variabili di background: tutte le caratteristiche, ad esempio legate alla cultura, che vanno ad influire sul tipo di comunicazione che il medico può dare e il paziente può chiedere;

  3. Le variabili di processo: tutte le caratteristiche, vere e proprie, che si rifanno al contenuto della comunicazione tra medico e paziente.

Uno dei limiti evidenziabili, dagli studi finora condotti, è quello di parlare di comunicazione riferendosi solamente a due soggetti: medico e paziente. Spesso gli incontri, coinvolgono più attori, come i familiari e gli infermieri, in una “polifonia di voci” (Seikkula e Olson, 2003) tutte presenti e tutte influenti.

Alcuni studi inoltre, hanno osservato come ci sia una tendenza diffusa dei medici a “ipercontrollare” il setting, a dirigere il paziente e a interromperlo bruscamente quando parla. Gli interventi poi, sembrerebbero soprattutto costruiti su domande chiuse, volte ad indagare esclusivamente l’aspetto organico e non quello psicologico o psicosociale in cui il paziente è il vero “esperto”. Lo studio di Kaplan et al. (1989) ha mostrato ad esempio che alcuni comportamenti comunicativi, quali ad esempio lasciare più potere e controllo al paziente e meno all’operatore sanitario, dare al paziente l’opportunità di fare domande e di interrompere, concedere comportamenti emotivi come la manifestazione di emozioni spiacevoli, fornire più informazioni, da parte del medico, in risposta alle richieste espresse dal paziente, sono correlati ad un migliore stato di salute del paziente.

Dallo studio di Heisler et al. (2002) con alcuni pazienti cronici è risultato che l’atteggiamento dei medici, attraverso un rinforzo della fiducia, della motivazione e di una visione positiva dello stato di salute, questo gioiva indirettamente, attraverso l’aderenza, sulla salute dei pazienti. Difatti, una funzione di solito attribuita alla comunicazione tra medico e paziente, è quella di facilitare l’aderenza ai trattamenti terapeutici. La comunicazione, in questi studi, è stata progettata come strumento per costruire un’alleanza terapeutica.

È pur vero però che medico e paziente hanno ruoli differenti (curare e ricercare le cure), parlano un linguaggio diverso (linguaggio tecnico e linguaggio comune) e hanno aspettative e prospettive diverse. Inoltre differiscono nel modo in cui percepiscono i problemi e le emozioni che li accompagnano, sia per quanto riguarda gli aspetti bio-medici che per quelli psicosociali (Rao et al., 2007).

Dagli studi emerge, in pratica, che medici e pazienti assegnano importanza in modo quasi opposto ad aspetti diversi della malattia o della cura e questo porta immancabilmente, in assenza di opportunità di chiarimento, a frequenti fraintendimenti, anche quando si tratta di importanti decisioni terapeutiche e di aderenza ad un trattamento medico (Feldman et al., 2002).

L’operatore che si relaziona con il paziente, in primis, dovrebbe quindi tenere in considerazione che la malattia non agisce solo a livello fisico ma anche sul piano esistenziale, relazionale, sessuale, economico ecc. Per una comunicazione efficace e un ascolto attivo da parte degli operatori sanitari, è opportuno pertanto tenere conto (Corso di Alta Formazione in “Psicologia Oncologia e delle Patologie Organiche Gravi”, 2016):

  • Della storia della malattia: i primi sintomi, come si è attivato, quali trattamenti ha effettuato e qual è stato il suo impatto;

  • La situazione attuale: la situazione nel qui ed ora, supporti a disposizione, aspettative future;

  • Aree di sofferenza: quali sono quelle maggiormente colpite e quali invece resistono all’urto.

Comunicazione al malato della diagnosi e della prognosi. Il modello Spikes.

Il comunicare una diagnosi di tumore, o una prognosi infausta, o il dover ammettere la progressione della malattia e l’inefficacia dei trattamenti, possono rappresentare per qualsiasi medico un compito difficile, articolato e ricco di coinvolgimenti emotivi, di cui spesso si farebbe volentieri a meno e che, qualche volta, appare del tutto rifiutato, anche se è da ognuno teorizzato il diritto del malato all’informazione e alla scelta consapevole (Corso di formazione specifica in Medicina Generale, 2012).

È fondamentale sapere che, prima della comunicazione della diagnosi, c’è un vissuto pre diagnostico che il paziente ha già affrontato o sta affrontando. La perdita dell’equilibrio psichico non avviene durante la diagnosi ma molto prima, “da quando ho sentito quel dolore, e ho fatto quelle analisi” (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Nel vissuto prima della diagnosi, il paziente inizia ad interrogarsi su ciò che sta accadendo all’interno del suo corpo. In questa fase, una figura di centrale importanza è il medico di base oltre che i familiari, i quali possono aiutare il paziente in questo primo periodo di dubbi e vacillamenti. Infatti questo vissuto, spesso e volentieri, va ad incidere sulla prognosi del paziente stesso, dato che rimanda nel tempo il momento di accertamenti più specifici per incontrare la diagnosi vera e propria.

Quindi, all’interno di un percorso di malattia, la comunicazione della diagnosi non occupa un momento ben preciso ma è un processo. Un processo implica una continua comunicazione e per questo, è molto importante riuscire a trasmettere al personale sanitario che la comunicazione della diagnosi necessita di tutto un contesto, che non si tratta di un momento dato, preciso all’interno della terapia, ma uno sviluppo a tappe (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Il modello Spikes indica i passi da seguire per una corretta comunicazione di cattive notizie (De Santi, Simeoni, 2009):

S SETTING UP: preparare il contesto e disporsi all’ascolto; spesso alcune comunicazioni, avvengono nei corridoi o in una stanza in contemporanea con altre persone. È necessario preparare un contesto, assumere sin da subito un atteggiamento di ascolto e di attenzione; evitare le interruzioni, preparare un setting che abbia il tempo per dire ed ascoltare, che abbia un clima privato o valutare insieme al paziente l’opportunità della partecipazione di altre persone;

P PERCEPTION: valutare le percezioni del paziente, quanto sa già e l’idea che si è fatto dei suoi disturbi; prima di comunicare qualcosa è importante accertarsi di quali idee e fantasie il paziente si è fatto sulla sua malattia, quali informazioni ha già avuto di questa. Spesso, laddove la comunicazione è carente e non efficace, il paziente va alla ricerca di informazioni nei posti più disparati, arrivando così a dati nettamente deformati sulla sua condizione.

I INVITATION: invitare il paziente ad esprimere il desiderio di essere informato o no sulla diagnosi e i dettagli; è importante chiedere quanto il paziente desidera conoscere la sua situazione, se desidera una comunicazione completa della diagnosi. Rispettare il tempo in cui il paziente si trova, offrire la disponibilità a dare informazioni successivamente, e rispettare la sua negazione, come meccanismo di difesa, è fondamentale in oncologia.

KKNOWLEDGE: fornire le informazioni necessarie a comprendere la situazione clinica; è necessario anzitutto usare un linguaggio non tecnico ed evitare il gergo medico, dare le informazioni a piccole dosi e verificare sempre il grado di comprensione di quanto è stato detto.

EEMOTION: facilitare la persona ad esprimere le emozioni rispondendo in modo empatico; aspetto molto delicato ed importante che mette timore agli operatori che rischiano di sentirsi troppo coinvolti, ed entrare in relazione con le emozioni. È fondamentale invece riconoscerle, prestando attenzione alle reazioni verbali e non verbali, e dare spazio all’espressione delle emozioni del paziente.

Le emozioni, possono essere distinte in due categorie:

  • Adattive: Negazione, rabbia, pianto, paura, speranza realistica

  • Disadattive: Angoscia, colpa, rabbia prolungata, diniego patologico, speranza non realistica, disperazione

S STRATEGY SUMMARY: discutere, pianificare, concordare con il paziente una strategia di azione, i possibili interventi, i risultati attesi. Valutare quanto il paziente ha compreso, riassumere quanto detto, creare una strategia di intervento, fare una lista delle priorità del paziente, dei suoi problemi e di come risolverli; stabilire le modalità di contatto futuro, vedere cosa ha compreso il paziente di tutto questo aspetto.

La comunicazione di una diagnosi o di una prognosi, va pensata come un processo che richiede tempo: nell’informare il paziente, il medico non deve modificare o tradire la realtà, ma deve avere presente quali sono gli aspetti più utili e quali quelli più traumatizzanti per il paziente.

La relazione come fattore di cura: l’“esserci” dello psicologo.

L’ospedale, in generale, si descrive come luogo di attenzione e cura alla malattia organica. Il ruolo della psicologia è legato invece, in prima istanza, a restituire al paziente la sua dimensione biografica, affettiva e soggettiva.

Scrive Edward Shorter (1986) in La tormentata storia del rapporto medico paziente: “Non me la prendo coi medici se non tentano di praticare la psicoterapia a livello formale. Li accuso di ignorare il potere terapeutico della visita medica in sé. La forza guaritrice della consultazione sta nella purificazione che il paziente ricava dal raccontare le proprie vicende a qualcuno di cui si fida come guaritore”.

Ormai sappiamo che pazienti con tumore che ricevono un sostegno psicologico o effettuano una psicoterapia, ricevono un incremento di “relazione terapeutica” e sopravvivono per un periodo doppio rispetto ai pazienti che non ricevono alcun sostegno (Spiegel, 1989).

L’assistenza e la cura in oncologia implicano l’individuazione di tutti i bisogni del paziente, che non sono esclusivamente medici, ma anche psicologici, relazionali, sociali e spirituali.

In oncologia, dunque, più che in tutte le altre aree della medicina, è forte la consapevolezza che curare il corpo non basta.

Per questo, lo psicologo, dopo una formazione specifica in questo ambito, ha l’importante e delicato compito di intervenire per aiutare il malato di cancro e i suoi familiari, ad alleviare il peso della malattia sul piano psicologico.

Più specificatamente, lo psiconcologo affianca il paziente in tutti i momenti delicati dell’iter medico: dalla diagnosi di tumore alla prognosi, dalla comunicazione di un intervento chirurgico collegato alla patologia oncologica alla comunicazione di una possibile recidiva, dalla fase terminale a quella off-therapy. Difatti la necessità di un sostegno psicologico può affacciarsi in diverse fasi del percorso di malattia o può non essere necessario alcun intervento da parte di uno psicologo.

Per aiutare realmente il paziente occorre sapere perciò cos’è il cancro per quella singola persona, quale è il suo significato, come viene vissuto e quale crisi personale deve essere affrontata. Il nucleo centrale e motore di tutto è l’ascolto, supporto essenziale per poter comprendere e soddisfare le richieste e, a volte, unico sostegno realmente necessario al paziente. L’esserci dello psicologo diventa così essenziale.

Non di rado il malato non ha necessità materiali oggettive, ma sperimenta ansie e timori che non riesce, non può, o non vuole, condividere nemmeno con i familiari, per non aumentare il loro dolore o perché sospetta di non essere capito. Lo psicologo, quale figura estranea e preparata, rappresenta un punto di riferimento prezioso, capace non soltanto di accogliere e disporre nella giusta prospettiva angosce e preoccupazioni, ma anche di aiutare a riformularle e renderle meno intralcianti.

La psicologia non si limita solo a specificare quanto la componente fisica e psichica sia connessa (sebbene già questo evidenzi la necessità di interazione tra chi scientificamente si occupa della psiche, lo psicologo e del fisico, il medico), individua anche degli ambiti dove l’intervento psicologico mira a facilitare il processo di accettazione, adattamento e reazione alla patologia, incoraggiando la necessaria aderence con l’équipe curante, sostenendo il paziente sul piano emotivo. I principali ambiti sono (Vito, 2014):

  • L’ambito della risposta psicologica alla comunicazione della diagnosi e alla condizione di malattia, soprattutto in termini di percezione personale. Possono emergere vissuti fantasmatici, legati a credenze e miti familiari, non corrispondenti alle conoscenze della medicina.

  • L’ambito concernente il disagio personale che segue ogni esperienza di malattia. Oggi viene riconosciuto quanto vissuti di solitudine, abbandono, dolore, angoscia incidano sull’andamento della situazione clinica.

  • L’ambito riguardante l’esperienza della malattia per l’intero sistema familiare che ruota attorno al paziente. Infatti anche i familiari, oltre che il paziente, sono portatori di un disagio e un carico emotivo che non può essere sottovalutato soprattutto perché gli affetti più cari sono una delle risorse principali in qualsiasi processo di cura.

  • L’ambito relativo all’educazione, alla prevenzione e alla promozione della salute in cui la presenza dello psicologo aiuta il paziente nella ricerca di una motivazione che consenta di attuare comportamenti adeguati.

E anche:

  • L’ambito dell’umanizzazione delle strutture sanitarie, proponendo, qualora siano necessarie, modifiche operative al fine di dare maggiore attenzione ai bisogni emotivi, psicologici, sociali e relazionali dei pazienti.

L’ambito della formazione dell’équipe curante. La malattia tumorale è oggi una delle più difficili da affrontare, sia per i pazienti che per il personale curante a causa del suo immediato significato di morte, di dolore totale. Accettare la crisi del proprio ruolo e anche l’impotenza delle proprie armi, significa avvicinarsi all’ammalato non con lo sguardo oggettivo della scienza medica ma con lo sguardo di chi deve saper cogliere la soggettività della malattia. Il momento della riunione d’équipe può costituire una importante risorsa di sostegno e di confronto anche a livello emotivo.

Conclusioni.

La comunicazione della malattia, con il conseguente ingresso in ospedale, rappresenta per il paziente una fase molto critica, non solo perché si trova a dover affrontare qualcosa che non conosce, e di cui non sempre viene messo a conoscenza, ma anche perché improvvisamente la sua quotidianità viene sconvolta.

La malattia diventa così luogo di incontro tra le persone: incontro che dipende in larga misura dalle abilità comunicativo-relazionale degli operatori coinvolti. La capacità di comunicare in modo efficace e di stabilire una relazione positiva ed armonica con il paziente e con i famigliari è indispensabile perciò in tutti i processi assistenziali e per il loro esito. La relazione assume così il ruolo di “fattore di cura”.

Che cosa è questa parola ambivalente, «comunicazione», questa parola-valigia che entra in gioco in ogni forma di discorso e in ogni forma di vita? Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. Nella convinzione che «comunicazione» sia sinonimo di cura” (Borgna, 2015). Solo chi è disposto a tutto – ammonisce Rilke citato da Borgna -, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza. Ecco perché comunicare non è parlare, ma parlarsi.

La qualità della relazione, può consentire al paziente di sentirsi una persona in uno scambio autentico fondato sulla sincerità e sulla fiducia con l’équipe curante o, al contrario, può facilitare il sentimento di essere ingannato, di essere considerato solo una “malattia da curare” e non un individuo nella sua interezza.

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La Risposta Rilassante di Benson per la promozione della resilienza Federico Diano

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La Risposta Rilassante di Benson

Lo stress prolungato può produrre significativi danni alla salute psicofisica, i quali rappresentano l’esito di una costante attivazione fisiologica del sistema di risposta allo stress.

In queste condizioni l’organismo attiva meccanismi definiti come attacco-fuga, ossia una risposta psicofisiologica dell’organismo che aumenta il battito cardiaco, la pressione sanguigna, e il consumo di ossigeno, entrando in uno stato di iperarousal, ossia uno stato psicofisico di attivazione che innesca i pattern comportamentali di attacco/fuga e freezing, producendo una risposta che può essere caratterizzata da iperdifensività, reattività emotiva, ipervigilanza, immagini ed emozioni intrusive e pensieri ossessivi o accellerati (Pietrantoni, Prati, 2009).

Ciò che avviene dunque in condizioni di stress è una risposta del sistema nervoso simpatico che prepara l’organismo ad affrontare un pericolo o un’attività logorante da un punto di vista energetico. Tale risposta del sistema dello stress nasce dall’attivazione dell’asse ipotalamo-surrene, un sistema di controllo e di regolazione la cui azione è innescata dal sistema limbico che stimola l’ipotalamo a produrre corticotropina, la quale a sua volta stimola l’ipofisi a produrre adrenocorticotropina, il quale raggiunge la corteccia dei reni che liberano cortisolo nella circolazione sanguigna, quest’ultimo, definito non a caso “ormone dello stress”, è responsabile della risposta di stress da parte dell’organismo (Ibidem).

Le conseguenze a lungo termine più comuni dello stress prolungato includono fatica, deperimento muscolare, diabete steroideo, ipertensione, ulcere, decalcificazione delle ossa, interruzione dell’ovulazione, impotenza, perdita del desiderio sessuale, diminuita resistenza alle malattie, apatia e accellerata degenerazione neurale durante l’invecchiamento (Breedlove, Rosenzweig, Watson, 2009).

Nel corso degli studi effettuati a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso sulla risposta del sistema dello stress, e in particolare circa lo stato di salute cardiovascolare di un campione di persone che praticavano la Meditazione Trascendentale, Herbert Benson scoprì un tipo di risposta dell’organismo che rappresentava fondamentalmente l’opposto di quella appena descritta, definendola “Risposta Rilassante”, iniziando a raccogliere significative prove degli effetti positivi del rilassamento sull’espressione genica di quelle sequenze genomiche correlate con la presenza di sintomi da stress o post-traumatici, mostrando come esistesse una risposta fisiologica dell’organismo diametralmente opposta a quella stressante, in grado di produrre effetti benefici sull’organismo arrivando a “silenziare” l’espressione genica di quelle sequenze connesse con l’esposizione allo stress (Stang, 2015, 135).

La Risposta Rilassante è dunque una risposta fisiologica opposta a quella di attacco-fuga o di stress, ed è caratterizzata quindi da “uno stato ipometabolico vigile” (Park et al., 2012) in quanto sono presenti (Benson, Proctor, 2010):

  1. una diminuzione del metabolismo, del battito cardiaco, della pressione sanguigna, della frequenza del respiro;

  2. una diminuzione o effetto calmante dell’attività cerebrale;

  3. un aumento dell’attenzione e delle abilità decisionali del cervello;

  4. cambiamenti nell’espressione genica che sono l’opposto di quelli che avvengono in risposta ad una fonte di stress continua

Le ricerche di Benson hanno quindi messo in luce come fosse possibile indurre delle profonde risposte benefiche da parte dell’organismo attraverso la mente, come essa fosse indissolubilmente legata al corpo, e viceversa, e come fosse possibile elicitare questa risposta rilassante da parte del corpo attraverso differenti tecniche di rilassamento, sfruttando le tecniche di induzione del rilassamento già conosciute come il Rilassamento Progressivo di Jacobson, il Training Autogeno di Schultz, la Meditazione Trascendentale e lo Yoga, tutti approcci accomunati da un’attitudine verso il proprio esercizio di concentrazione passiva, ossia lasciar accadere dentro di sé ciò che viene, senza sforzo o impulsività nel controllarlo (Benson, Klipper, 1976).

Benson sostiene che la Risposta Rilassante sia associata ad un determinato stato di coscienza alterato1, dal momento che essa non avviene spontaneamente, bensì deve essere coscientemente e specificamente evocata attraverso delle tecniche di rilassamento (Ibidem).

Analizzando le componenti fondamentali di diverse tradizioni di meditazione occidentale e orientale, Benson definì quelle che possono essere considerati quattro punti fondamentali per stimolare la Risposta Rilassante, ossia:

  1. Un ambiente calmo, in cui sia presente il minor numero di distrazioni possibile favorendo la concentrazione;

  2. Uno stratagemma mentale2, ossia uno stimolo su cui concentrarsi durante il rilassamento, il quale può essere un suono, una frase ripetuta internamente, il ritmo del proprio respiro, un qualsiasi elemento che permetta alla mente di passare da uno stato focalizzato verso l’esterno ad una disposizione di contatto interiore;

  3. Un atteggiamento passivo, il quale è probabilmente l’elemento fondamentale nello stimolare la Risposta Rilassante, e consiste nel non preoccuparsi della propria prestazione, nel riconoscere eventuali pensieri distraenti, essere consapevoli del loro emergere alla coscienza, e decidere di lasciarli andare concentrandosi nuovamente sullo stratagemma mentale;

  4. Una posizione confortevole, fondamentale per non indurre tensione muscolare, sufficientemente comoda da permettere un completo rilassamento, e allo stesso tempo da impedire di addormentarsi.

Rispetto a questi quattro elementi, dobbiamo ricordare che la Risposta Rilassante non è una tecnica in sé, bensì uno stato psicofisiologico indotto, e che può essere raggiunto da qualsiasi approccio al rilassamento o alla meditazione che consideri i quattro punti descritti come linee guida.

L’utilizzo delle tecniche di stimolazione della Risposta Rilassante sono state applicate negli ultimi decenni in diverse aree, prima fra tutte la prevenzione e la riabilitazione in pazienti con problematiche cardiovascolari, rivelandosi inoltre un ottimo strumento nel gestire l’insonnia, disagi legati alla menopausa, infertilità, dolore cronico e sintomi generalmente riferiti allo stress (Casey, Benson, 2004).

Il Benson-Henry Protocol3 (Benson, Proctor, 2010, 9-10), un protocollo di rilassamento per fasi, si basa sull’unione di una prima fase di “Attivazione della Risposta Rilassante” e una seconda di “Visualizzazione”, nello specifico le fasi del protocollo di rilassamento con questa tecnica sono:

  • Fase 1: Attivazione della Risposta Rilassante

    • Scegli una parola chiave, un’immagine o una breve preghiera. In alternativa, focalizzati solo sul tuo respiro durante l’esercizio;

    • Trova un luogo tranquillo e siediti con calma in una posizione confortevole;

    • Chiudi gli occhi;

    • Rilassa progressivamente tutti i tuoi muscoli;

    • Respira lentamente e con naturalezza. Quando espiri, ripeti o presta silenziosamente attenzione alla parola o alla frase scelta all’inizio, o semplicemente al ritmo del tuo respiro;

    • Assumi una disposizione passiva. Quando altri pensieri emergono, pensa semplicemente, “Oh bene”, e torna al focus;

    • Continua con questo esercizio per circa 12-15 minuti;

    • Pratica questa tecnica almeno una volta al giorno.

  • Fase 2: Visualizzazione

  • Usa l’immaginazione, per esempio visualizza una scena serena nella quale sei libero del tuo problema, della tua condizione medica, sei in grado di recuperare le tue aspettative, convinzioni e ricordi riguardo alla guarigione. Questa seconda fase di solito necessita di circa 8-10 minuti4.

Il costrutto studiato e proposto da Benson è divenuto centrale in diversi protocolli di intervento multicomponenziali in cui le tecniche di induzione della Risposta Rilassante sono state associate a tecniche cognitive, mostrando l’efficacia di tali interventi nel ridurre sintomi ansiosi, depressivi e da stress, aumentare comportamenti salutari e nel miglioramento dei sintomi legati a insonnia, ipertensione, cefalee (Nakao et al., 2001; Jacobs, 2001; Dusek et al., 2004; Samuelson et al., 2010).

In un mondo in cui le aspettative di vita si allungano e aumentano invece disturbi e patologie croniche, l’utilizzo della Risposta Rilassante sembra rappresentare un’ottima via da percorrere per poter intervenire sulla salute in maniera significativa, sfruttando uno strumento naturale che se stimolato e allenato può bilanciare e ridurre l’impatto che lo stress, in tutte le sue forme, produce nello sviluppo di disturbi fisici e mentali come espressione di una unità mente-corpo.

Resilienza: i principali modelli psicosociali

Prima di passare a descrivere più nel dettaglio l’applicazione della Risposta Rilassante nella promozione della resilienza, andiamo in questo paragrafo a sintetizzare gli elementi fondamentali da considerare per descrivere efficacemente questo costrutto.

Il concetto di resilienza ha assunto in psicologia il significato di abilità che mostrano gli individui che riescono a fronteggiare con successo le avversità presenti in un ambiente (Laudadio, Mancuso, 2015).

Nel suo significato più ampio il termine resilienza si riferisce quindi alla capacità, alla cui base sono identificabili tre tratti definiti hardiness (robustezza psicologica), ego-resiliency e forza dell’io, di adattarsi nonostante la presenza di fattori di rischio, stressor o traumi (Pietrantoni, Prati, 2009).

Esistono diversi modelli di resilienza di cui sono qui descritti alcuni dei principali.

Bonanno (2004) distingue tra recupero e resilienza, dal momento che il primo implica una traiettoria di sviluppo in cui a partire da un evento stressante si assiste ad un periodo iniziale di sintomi sottosoglia e difficoltà interpersonali, e successivamente si osserva un graduale recupero del livello di funzionamento precedente all’evento stressante; la resilienza implica, secondo Bonanno, la capacità di mantenere durante tutto il percorso evolutivo un livello stabile di funzionamento psichico senza subire grossi sconvolgimenti nell’equilibrio psichico, con l’eccezione di solo momentanee cadute. Una risposta resiliente in presenza di fattori di rischio rappresenterebbe circa il 35-55% delle persone, nelle quali a seguito di una disfunzione transitoria, si osserva un adattamento al contesto mutato in tempi estremamente rapidi.

Zimmerman e Fergus (2005) distinguono fra tre modelli di resilienza partendo dal presupposto che la resilienza non si presenti come un tratto stabile di personalità, bensì come un processo dinamico in cui si alternano fattori protettivi e fattori di rischio.

Il primo modello di resilienza proposto dagli autori è definito modello compensativo, e presuppone che i fattori protettivi contrastino in modo diretto i fattori di rischio. Il secondo modello è quello protettivo, nel quale l’effetto dei fattori protettivi modula l’azione dei fattori di rischio in modo indiretto. Il terzo modello è definito di sfida, nel quale il rapporto tra fattori di rischio e protettivi segue un andamento curvilineare, ossia presentano la stessa variabilità, evidenziando come sia invece determinante il livello di esposizione ad un fattore per renderlo determinante o meno.

Il modello di Richardson (2002) descrive invece da un punto di vista umanistico la resilienza come l’energia necessaria per realizzare la propria tendenza attualizzante, che permette di superare quelle rotture della continuità della propria cornice esistenziale, riprendere la propria crescita personale in maniera integrata e coerente con il proprio Sé.

Secondo questo Autore è fondamentale considerare lo stress e il trauma in un’ottica soggettiva, determinata dal processo di valutazione personale che l’individuo porta avanti rispetto ad un evento ed al suo impatto sul Sé, sulle possibili trasformazioni personali che possono prendere il via da una disorganizzazione e sulla ridefinizione dei propri obiettivi, riportando l’individuo ad uno stato di omeostasi tra mente e corpo definito biopsicospirituale.

Il modello di Richardson presuppone inoltre quattro diversi itinerari a fronte di esperienze traumatiche o stressanti, ossia: (1) reintegrazione con ritorno all’omeostasi, quindi un ritorno alle condizioni precedenti alla difficoltà senza una crescita specifica; (2) reintegrazione resiliente con crescita, ossia un recupero e una crescita in termini di competenze, conoscenze e consapevolezza di sé che segue ad un evento avverso; (3) reintegrazione con perdita, nella quale avviene un parziale recupero del funzionamento psichico precedente, tuttavia la perdita è troppo grande per far sì che le capacità dell’individuo possano riequilibrarne l’integrazione spontanea; (4) reintegrazione disfunzionale, un percorso di sviluppo segnato dall’utilizzo di comportamenti distruttivi per la persona che non riesce a rielaborare la propria esperienza in un nuovo orizzonte esistenziale (Laudadio, Mancuso, 2015).

L’individuo resiliente presenta quindi tre categorie di risorse psicosociali che permettono di definirne gli elementi alla base di un adattamento sano alle sfide (Pietrantoni, Prati, 2009).

Le risorse personali dell’individuo resiliente riguardano la presenza di quei tratti disposizionali, come l’hardiness, il quale rappresenta a sua volta l’aggregato di tre dimensioni quali impegno, ossia la tendenza a portare a termine qualcosa piuttosto che rinunciare, controllo, sentirsi capaci di controllare la situazione, e senso di sfida, quindi la prospettiva degli eventi non come minacce, ma come opportunità di crescita. Appare importante il ruolo del sense of coherence, ossia la tendenza a valutare gli eventi come comprensibili, dotati di senso, strutturati e inquadrabili nella complessità di un quadro generale della realtà e della continuità del Sé.

Le persone più resilienti sono inoltre quelle che presentano uno stile esplicativo ottimista, il quale rappresenta un fattore determinante per innescare il meccanismo che viene definito come “spirale verso l’alto” (Fredrickson, Joiner, 2002), ossia un flusso di pensieri positivi che rappresenta un fattore protettivo nei confronti di potenziali pensieri depressivi.

Le risorse processuali includono soprattutto quelle credenze circa la propria autoefficacia nel poter fronteggiare gli eventi, in particolare le strategie di coping attive, tra le quali possiamo elencare la ricerca di supporto sociale, l’assunzione di una prospettiva di sfida, la ridefinizione dello stressor in chiave positiva e l’impegno nella ricerca di soluzioni al problema (Laudadio, Mancuso, 2015).

Le risorse socioambientali includono prevalentemente il fondamentale apporto in termini positivi che garantisce una rete di supporto sociale, grazie alla quale è possibile condividere esperienze e significati, mettere in atto strategie comuni di fronteggiamento, rielaborare la cornice esistenziale di un evento, validare la propria esperienza soggettiva e sviluppare un senso di appartenenza ad una storia comune (Pietrantoni, Prati, 2009).

Un fattore che infine non possiamo sottovalutare in relazione alla resilienza è il costrutto di carico allostatico proposto da McEwen e Stellar (2000), ossia il “prezzo” che l’organismo paga per sforzarsi nell’adattarsi a condizioni psicosociali o fisiche avverse, potendo rappresentare l’esito sia di un eccessivo carico di stress, sia di un cattivo funzionamento del sistema ormonale di risposta allo stress, il quale potrebbe presentare gli effetti di una difficoltà di attivazione/disattivazione.

Pur nella pluralità di definizioni, di cui sono qui riportate solamente alcune, il costrutto della resilienza è evidentemente fondamentale da considerare in un’ottica preventiva e promozionale, dal momento che dal potenziamento delle risorse coinvolte nel suo sviluppo passa la possibilità di educare individui che sappiano fronteggiare in modo efficace lo stress acuto e cronico, che riescano a trasmettere a loro volta abilità e competenze essenziali per preservare gli individui nella loro salute intesa come funzionamento ottimale complessivo di un organismo che tiene il conto dello stress sia in termini psicologici che somatici.

Il Relaxation Response Resiliency Program (3RP)

A conclusione di questo breve elaborato, andiamo a sintetizzare il contributo della Risposta Rilassante di Benson all’interno di un programma multimodale in 8 sessioni messo a punto da Park e colleghi per la promozione della resilienza e la gestione dello stress cronico (Park, 2013).

Il 3RP si basa sull’estesa ricerca che mostra come la Risposta Rilassante di Benson sia associata con la promozione di fattori che numerosi studi mostrano come correlati con la promozione della resilienza, rappresentando un costrutto estremamente valido per promuovere interventi che insegnino abilità necessarie ad una corretta gestione delle emozioni, dell’arousal, e più in generale di tutte quelle risposte del sistema nervoso parasimpatico. Questo programma si basa dunque sui principi della gestione dello stress, della terapia cognitivo-comportamentale e della psicologia positiva, concentrandosi su tre aree bersaglio, ossia:

  • la stimolazione della Risposta Rilassante;

  • la valutazione dello stress;

  • il coping e il potenziamento della crescita personale (Ibidem)

Il percorso del Relaxation Response Resiliency Program ha come obiettivo fondamentale dunque la promozione di risposte adattive allo stress cronico attraverso l’incremento della consapevolezza e, allo stesso tempo, la riduzione degli effetti fisiologici, emotivi, cognitivi e comportamentali risultanti dall’azione del sistema di risposta allo stress.

Il costrutto di resilienza su cui poggia il 3RP corrisponde ad una definizione multicomponenziale costituita da cinque punti fondamentali che sono: (1) la capacità di circoscrivere le risposte di paura, in modo da poter mettere in atto strategie efficaci attraverso forme attive di coping; (2) la capacità di utilizzare comportamenti pro-sociali per costruire dei legami e una rete di supporto fondati sull’altruismo; (3) l’abilità di utilizzare abilità cognitive per ridefinire il significato di stimoli negativi in maniera più positiva; (4) la capacità di sperimentare soddisfazione e ricompensa attraverso l’ottimismo disposizionale e una disposizione emotiva positiva; (5) l’integrazione di una prospettiva di senso e di scopo nella vita attraverso la connessione della propria dimensione morale, esistenziale e spirituale (Ibidem).

Il programma si svolge attraverso incontri di un’ora e mezza a settimana per 8 settimane e può essere suddiviso nei seguenti capitoli e relativi obiettivi:

  1. Il Relaxation Response Resiliency Program5:

    1. Introdurre il Relaxation Resiliency Program e le sue tre componenti;

    2. Trattare le modalità di stimolazione della Risposta Rilassante;

    3. Introdurre un metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: la meditazione focalizzata su un singolo punto;

    4. Introdurre il concetto di apprezzamento;

    5. Definire il programma e gli obiettivi settimanali;

    6. Identificare le proprie fonti di stress e le risorse di coping;

  2. La Risposta Rilassante:

    1. Introdurre un metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: la consapevolezza del respiro;

    2. Descrivere la relazione tra Risposta Rilassante, salute e benessere;

    3. Introdurre Minis6 come metodo per ridurre la tensione e l’ansia nell’arco della giornata;

    4. Valutare il sonno ristoratore;

  3. Le quattro componenti dello stress: emotive e comportamentali:

    1. Introdurre un metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: il Training Autogeno;

    2. Apprendere il modello a quattro componenti dello stress;

    3. Identificare le componenti emotive e comportamentali del proprio stress;

  4. Le quattro componenti dello stress: fisiche e cognitive:

    1. Introdurre un nuovo metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: il Chair Yoga;

    2. Descrivere le componenti fisiche e cognitive dello stress;

    3. Descrivere i pensieri automatici e auto-svalutanti;

    4. Definire i diversi tipi di distorsioni cognitive, e apprendere come individuarle;

  5. Costruire una prospettiva positiva:

    1. Introdurre un nuovo metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: la visualizzazione di un luogo felice;

    2. Utilizzo della rivalutazione cognitiva come modalità adattiva;

    3. Chiarire come un’attitudine positiva possa aumentare la resilienza sul lungo periodo;

    4. Apprendere concetti e strategie per promuovere l’attitudine positiva;

  6. Attenzione consapevole e Accettazione:

    1. Introdurre un nuovo metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: l’attenzione consapevole;

    2. Uso delle strategie di applicazione dell’attenzione consapevole nell’arco della giornata;

    3. Conoscere i diversi stili di coping: coping centrato sul problem-solving e sull’accettazione;

    4. Esplorare lo sviluppo dell’accettazione, una qualità fondamentale del coping basato sull’accettazione;

  7. Stati della mente curativi:

    1. Introdurre un nuovo metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: la meditazione focalizzata sull’amore e la gentilezza;

    2. Introdurre e definire le tipologie di supporto sociale;

    3. Apprendere come selezionare le strategie di coping: problem –solving e accettazione;

    4. Praticare l’umorismo per promuovere i processi di valutazione e di accettazione;

    5. Introdurre un nuovo metodo di stimolazione della Risposta Rilassante: il Sé ideale;

  8. Rimanere resilienti:

    1. Chiarire come l’empatia possa promuovere la resilienza sul lungo periodo;

    2. Revisione delle strategie apprese per la stimolazione della Risposta Rilassante;

    3. Sviluppo di un piano per continuare ad utilizzare le strategie del programma;

    4. Stabilire degli obiettivi per il futuro;

Come è possibile notare dalle 8 unità, ogni incontro inizia con la pratica di un esercizio specifico mirato alla produzione della Risposta Rilassante attraverso differenti tecniche; la presenza della Risposta Rilassante all’inizio di ogni incontro serve a calmare la mente e preparare i destinatari dell’intervento allo stato di concentrazione necessario ad assorbire nuove abilità e competenze, potendo sfruttare gli effetti di una disposizione serena, consapevole e positiva che, oltre a favorire l’acquisizione di informazioni, rappresenta già di per sé un’efficace strategia di risposta allo stress.

Un’ulteriore riflessione che possiamo brevemente accennare riguarda gli effetti positivi sull’elaborazione delle informazioni grazie alla Risposta Rilassante. Se consideriamo come in uno stato di rilassamento le informazioni vengano elaborate in un contesto di integrazione tra le diverse aree del cervello, la Risposta Rilassante permette di accedere a quelle funzioni superiori della neocorteccia che permettono di utilizzare abilità metacognitive fondamentali per la riflessione su di sé, per l’elaborazione delle esperienze stressanti, oltre che a sua volta per una corretta regolazione dell’arousal che permetta di acquisire nuove informazioni accedendo a tutte le risorse di entrambi gli emisferi che possono funzionare in modo integrato.

La Risposta Rilassante inoltre permette di ristabilire un equilibrio di attivazione emotiva di base funzionale a stabilire interazioni sociali fondate su di uno scambio empatico, permettendo di promuovere la dimensione della socializzazione e di tutti i suoi effetti benefici in termini di efficacia nella risposta allo stress che sono stati descritti in precedenza.

Infine, uno stato di rilassamento permette di raggiungere delle risorse in termini di creatività che sono alla base delle attività artistiche, che sono esse stesse un fattore protettivo e l’espressione di modalità di coping che permettono di gestire lo stress cronico e acuto, oltre a fornire un’incredibile opportunità di crescita personale (Liotti, Farina, 2011).

Ulteriore ricerca è sicuramente necessaria per definire chiaramente l’efficacia di questo tipo di protocollo con studi randomizzati, con il preciso obiettivo di definire i meccanismi e i risultati in termini psicologici, fisiologici, biologici e genetici che sono coinvolti nell’utilizzo della Risposta Rilassante in questa tipologia di interventi.

1Con “stato di coscienza alterato” facciamo riferimento ad una modalità di esperienza della realtà differente dalla sua percezione e interazione ordinaria (Randolph-Seng, 2014)

2Traduzione personale di “mental device”

3Traduzione personale dal protocollo originale in inglese

4Il tempo totale necessario per le due fasi è di circa 20-25 minuti per sessione.

5Traduzione personale dal protocollo originale in inglese

6Meditazioni di durata inferiore ai 10 minuti

 

Riferimenti bibliografici

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Bonanno, G. A. (2004). Loss, trauma, and human resilience: have we underestimated the human capacity to thrive after extremely aversive events?. American psychologist, 59(1), 20.

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Dusek JA, Hibberd PL, Buczynski B, Chang BH, Dusek KC, Johnston JM, et al: Stress management versus lifestyle modification on systolic hypertension and medication elimination: a randomized trial. J Altern Complement Med 2008; 14:129–138

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Jacobs GD: Clinical applications of the relaxation response and mind-body interventions. J Altern Complement Med 2001; 7(Suppl 1): 93–S101

Laudadio, A., & Mancuso, S. (2015). Manuale di psicologia positiva. Milano: FrancoAngeli.

Liotti, G., Farina, B. (2011), Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Milano: Raffaello Cortina.

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Park, E. R., Traeger, L., Vranceanu, A. M., Scult, M., Lerner, J. A., Benson, H., … & Fricchione, G. L. (2013). The development of a patient-centered program based on the relaxation response: the Relaxation Response Resiliency Program (3RP). Psychosomatics54(2), 165-174.

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Samuelson M, Foret M, Baim M, Lerner J, Fricchione G, Benson H, et al: Exploring the effectiveness of a comprehensive mind-body intervention for medical symptom relief. J Altern Complement Med 2010; 16:187–192

Stahl, J. E., Dossett, M. L., LaJoie, A. S., Denninger, J. W., Mehta, D. H., Goldman, R., … & Benson, H. (2015). Relaxation response and resiliency training and its effect on healthcare resource utilization. PloS one10(10).

Stang, H. (2015). The Relaxation Response. Techniques of Grief Therapy: Assessment and Intervention, 135. New York: Routledge.


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Il paradosso dell’esistenza: madri che uccidono Ilaria Nuzzo

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Il presente lavoro si propone di analizzare il feno­meno del figlicidio. Si vuole fare una distinzione tra infanticidio, figlicidio e neonaticidio, ricorren­do a quanto affermato dagli articoli del Codice Penale.

Per comprendere il fenomeno si farà riferimento agli studi di Philip Resnick (1969), uno tra i prin­cipali studiosi in merito all’argomento. Il suo pun­to di vista sarà integrato con i contributi di altri studiosi, come Bramante (2005) e Craig (2006).

La riflessione si sviluppa a partire dal periodo del­la maternità. Tale periodo è spesso idealizzato e considerato idilliaco. “Comunque avvenga il con­cepimento e quale che sia il destino del neonato, la gravidanza è un’esperienza squisitamente fem­minile” (Leff, 1993, 10). A tal proposito, questa esperienza rappresenta, sicuramente, una fase di sviluppo per la donna ma, allo stesso tempo, un momento di crisi, capace di rendere traballante il senso della propria identità. Bibring (1959) parla di crisi maturativa, un punto di svolta irreversibile nel ciclo vitale di una donna. Tale crisi, però, ha una doppia valenza, da una parte può comportare l’acquisizione di un livello più maturo di integra­zione, dall’altra può portare ad un’estrema vulne­rabilità, con impliciti rischi di distorsioni psicopa­tologiche (Ammaniti, 1995).

Lo studio si basa su una serie di interrogativi: Cosa spinge una madre ad uccidere il proprio fi­glio?” “Esistono dei fattori di rischio che si posso­no anticipare e un profilo tipo di queste donne? “È possibile attuare degli interventi preventivi?” “Quali sono le terapie e i programmi di rein­serimento sociale per queste madri?”

In riferimento a tali interrogativi l’obiettivo che si intende perseguire è quello di fornire una panora­mica degli studi che hanno preso in esame tale fe­nomeno, delineandone le caratteristiche salienti e ricorsive. Inoltre, iscrivendo tale fenomeno all’interno dell’esperienza della gravidanza e della maternità, un ulteriore scopo è quello di mettere in luce alcune linee guida alla base di interventi preventivi che possano accompagnare costruttiva­mente l’esperienza della maternità, nonché di in­terventi di reinserimento di chi ha già fatto espe­rienza di un tale crimine.

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L’opinione comune vede la gravidanza come un periodo scontatamente felice. In realtà, una visio­ne realistica dei fatti presuppone di guardare alla gravidanza come un momento di crisi e, come ogni crisi che posa definirsi tale, impone la riorganizzazione di una nuova identità, quella ma­terna.

Stern (1995) fa notare che “l’assetto materno” emerge gradualmente durante la gestazione e nei mesi successivi al parto. In diverse ricerche, Stern ha chiesto ad alcune donne quando hanno comin­ciato a sentire di essere diventate mamme, presup­ponendo che la risposta più frequente sarebbe sta­ta quella relativa al momento del parto. In realtà, lo studioso arrivò alla conclusione che la maggior parte delle donne “diventa mamma” nell’arco di diversi momenti: la nuova identità può sbocciare in un qualunque momento durante la gravidanza, per stabilirsi con maggiore precisione dopo la na­scita del bambino e continuando a svilupparsi an­che dopo diversi mesi dalla gravidanza, “quando la mamma si rende conto di essere diventata tale ai suoi occhi” (Stern, 1995, cit. in Consoli, 2016, 4).

Il diventare madri necessita di uno specifico “la­voro della maternità” (Benvenuti, Rossi Monti, Pazzagli, 1981) che comporta per la donna una serie di compiti psicologici, relazionali e pratici. La donna deve confrontarsi con l’immagine della propria madre, con il rapporto con il padre, con il partner, con il suo corpo, con la sessualità e con la procreazione. Tutto ciò genera uno stato di crisi che può portare a nuovi e più maturi equilibri, op­pure a gravi fratture del precedente equilibrio.

Il cammino della gravidanza non è uguale per tut­te le donne ma è un percorso fortemente indivi­dualizzato che dipende dalle caratteristiche sog­gettive, dall’ambiente familiare e sociale che cir­conda la donna, oltre che dal suo sistema di cre­denze.

Lo stato psichico della maternità, spesso, rischia di restare nascosto o soffocato dal monitoraggio sanitario-preventivo che accompagna tutta la gra­vidanza, periodo durante il quale si costruiscono i fondamenti della futura relazione madre-bambi­no” (Pazzagli et al, 2011, 5).

Therese Benedek (1956) definisce la gravidanza come un evento psicosomatico che genera modifi­cazioni sia fisiologiche che psicologiche. In termini psicodinamici, le neo-mamme, in questa fase di vita, rivivono il processo di separazione-individuazione dalla madre e sperimentano una duplice identificazione con la madre e con il feto: sono, allo stesso tempo, figlie delle loro madri e madri dei loro figli.

Leff (1983) ci parla di gravidanza come “vicenda interna”, dando voce al punto di vista soggettivo della futura madre e individuando tre stili materni che influenzano la relazione madre-bambino:

  • Stile della facilitazione: la gravidanza vie­ne considerata il momento culminante dell’identi­tà materna. Per questo motivo la donna è disposta a sacrificare la propria realizzazione personale e professionale per il nascituro;

  • Stile della regolazione: la gravidanza è un fastidio necessario per avere un bambino. La don­na riduce al minimo i cambiamenti nel proprio sti­le di vita e vuole affermare ad ogni costo la pro­pria indipendenza;

  • Stile della reciprocità: la donna è consape­vole dell’ambivalenza e delle contraddizioni inte­riori tipiche della gravidanza. Questo stile si col­loca in una posizione intermedia tra i primi due. La donna sarà felice dell’attesa ma proverà anche dei rimpianti e delle paure per i cambiamenti ine­vitabili che l’attendono.

È importante precisare che i tre stili non sono ca­ratteristiche fisse della personalità ma si basano sullo stato attuale della realtà psichica della futura madre (Leff, 1983).

Ammaniti et al. (1995) definiscono tre categorie delle rappresentazioni materne:

  • Rappresentazioni materne integrate/equi­librate: la futura mamma possiede un quadro ric­co e coerente della propria esperienza della gravi­danza, riesce a mantenere un senso di sé stabile e definito e mostra una buona capacità di adattarsi al cambiamento;

  • Rappresentazioni materne ristrette/disin­vestite: la futura madre mantiene un forte control­lo di sé, affrontando la gravidanza con una certa piattezza emotiva;

  • Rappresentazioni materne non integrate/ambivalenti: la futura madre non riesce ad organizzare la propria esperienza in un quadro comprensibile e comunicabile. Presenta un forte coinvolgimento emotivo ma con emozioni contra­stanti di gioia oppure di rabbia e depressione.

Anche i cambiamenti fisici e ormonali contribui­scono allo sviluppo del nuovo “assetto materno”: molte donne sono soggette a brusche cadute di progesterone che le rende vulnerabili ad un umore mutevole. I mutamenti che coinvolgono l’imma­gine corporea possono rappresentare un fattore di rischio per l’acquisizione dell’identità materna: tanto più sono rapidi i cambiamenti fisici e tanto più inibiscono una corretta elaborazione dell’immagine corporea.

Soprattutto nella fase post-parto, la donna prende consapevolezza della sua mutata forma fisica e teme che il cambiamento sia irreversibile (Mian, 2015).

Gli “altri significativi” per la futura mamma sono di vitale importanza: al partner spetta il compito di sostenere il percorso della gravidanza, favorire la relazione madre-bambino, attraverso il soste­gno alla propria compagna, l’accudimento e la collaborazione.

Al ruolo che svolge il padre nel contribuire alla creazione di un clima tranquillo e confortevole, si affianca quello degli altri familiari, che con la loro presenza, le loro parole e i loro comportamenti, possono fornire disponibilità e supporto alla cop­pia.

Fondamentale è il compito delle donne della fami­glia: madre, suocera, zie, cugine più anziane che devono accompagnare la futura madre nelle emozioni totalmente nuove e, a volte, destabiliz­zanti che sta vivendo.

L’interazione di tutti questi elementi può portare allo sviluppo dinamico della nuova identità mater­na o a brusche rotture psicopatologiche.

La letteratura classifica tre forme psicopatologi­che relative alla gravidanza e alla maternità.

Il maternity blues è considerato uno stato di reatti­vità emozionale, relativamente lieve e a risoluzio­ne spontanea. Insorge 2/3 giorni dopo il parto, si risolve spontaneamente entro le prime due setti­mane successive al parto e si manifesta con un’incidenza del 50-80%.

La madre può sentirsi affaticata, in ansia, inade­guata rispetto al proprio ruolo.

Sebbene la sintomatologia possa essere dolorosa non si riflette sulle capacità della mamma di pren­dersi cura di sé e del proprio bambino (Di Paolo, 2016). Tuttavia, “nelle donne affette da maternity blues rispetto a quelle non affette è stato riscon­trato un rischio di sviluppare depressione postpar­tum di 3.8 volte maggiore” (Reck et al., 2009 cit. in Anniverno et al., 2010, 7).

La depressione post-natale (DPN) è considerata dal DSM-5 (2014) come un episodio depressivo maggiore che si verifica entro le prime quattro settimane successive al parto. Si può manifestare a diversi livelli di gravità: lieve, moderata o gra­ve.

Tra i sintomi tipici di questa manifestazione psi­copatologica troviamo: marcata perdita di interes­se per quasi tutte le attività quotidiane, faticabili­tà, mancanza di energia, sentimenti di autosvalu­tazione, sensi di colpa, ricorrenti pensieri di mor­te, incapacità di pensare e concentrarsi.

La depressione post-partum colpisce il 10-15% delle donne durante il primo anno di vita del bam­bino, con maggiore frequenza 4-6 mesi dopo il parto” (Anniverno et al. 2010, 19).

La psicosi puerperale è la più grave delle forme psicopatologiche del post-parto ed è considerata un insieme di psicosi funzionali innescate dalla maternità (Caroti et al. 2007). Insorge tra il primo giorno e la sesta settimana di post-partum, verifi­candosi nello 0,1-0,2% delle donne in gravidanza.

La psicosi puerperale rappresenta a tutti gli effetti un’emergenza psichiatrica (Anniverno et al. 2011). “Un elevato rischio di suicidio e figlicidio persiste quando il focus dei deliri e delle allucina­zioni è sul bambino, percepito dalla mamma come un’entità malevola e minacciosa” (Stone et al. cit. in Anniverno et al. 2011, 20).

Lo scarso contatto con la realtà, inoltre, fa sì che la donna non riconosca di avere una patologia grave e, non di rado, rifiuta il trattamento.

Figlicidio, infanticidio, neonaticidio: definizio­ne e aspetti giuridici

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre lascia così inermi. Come può l’atto d’amore per eccellenza e, cioè quello di dare vita, essere infranto da un atto dia­metralmente opposto ed innaturale che, invece, la vita la toglie? In sostanza come si può annientare ciò che si è generato, ciò che è sangue del proprio sangue?

Infanticidio! Sogno o son desto? È davvero pos­sibile un tale atto? Accade veramente? Accade questo crimine inaudito […] Nessun essere uma­no in senno uccide la carne della propria carne”. È così che Johan Heinrich Pestalozzi (1779) apre la sua opera Sull’infanticidio (edizione italiana, 1999, 5).

Lo stesso autore motiva il gesto con la mancanza di senno. Ci troviamo, però, di fronte ad un feno­meno complesso e variegato: limitarsi a parlare di malattia mentale è riduttivo, aggrava il rischio di stigmatizzazione ed etichettamento e fornisce una letture dei fatti superficiale (Pestalozzi, 1999).

Molto spesso, si tende a dimenticare che si tratta di donne lasciate sole con le proprie paure e, an­che se circondate da familiari e amici, questi sono assenti dal punto di vista affettivo, ignorando e minimizzando i vissuti della mamma.

Come punto di partenza, occorre, quindi, fare una distinzione tra i vari termini che nel gergo comu­ne, spesso, sono usati in modo intercambiabile.

Neonaticidio, infanticidio e figlicidio sono tre categorie di delitti molto diverse sotto il profilo giuridico, sotto l’eventuale psicopatologia dell’autore e sotto il profilo della relazione tra au­tore e vittima” (Consoli, 2016, 5).

Il termine infanticidio dal latino Infantis e cidim o caedium, significa l’uccisione di chi non ha an­cora l’uso della parola, indicando, quindi, l’ucci­sione del feto durante la gravidanza o subito dopo il parto” (Di Blasio, 2016, 14).

L’articolo 578 del Codice Penale parla di “infanti­cidio in condizioni di abbandono materiale e mo­rale” e afferma: “la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il par­to, o del feto durante il parto, quando il fatto è de­terminato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusio­ne da quattro a dodici anni”. L’articolo 578 del Codice Penale, quindi, considera la colpevolezza della madre in misura attenuata rispetto all’omici­dio (Di Blasio, 2016), per il quale sono previste pene non inferiori ai 21 anni, e attribuisce alla condotta infanticida il limite temporale relativo a quello stato di turbamento emotivo che segue il parto. Il figlicidio, tradizionalmente, nella cultura giuridica, indica l’uccisione del figlio da parte di un genitore, sia esso padre o madre (Mergazora Betos, 1999).

Il figlicidio è considerato un aggravante dell’omicidio semplice (Articolo 575 del Codice Penale): esso viene contemplato come fattispecie penale di omicidio aggravato dal legame di paren­tela” (Consoli, 2016, 3).

Infine, in criminologia si applica un’ulteriore di­stinzione con il neonaticidio che ricorre nell’immediatezza della nascita (Di Blasio, 2016). Esiste, inoltre una variante dell’infanticidio, defi­nita feticidio quando l’uccisione avviene durante il parto (Consoli, 2016).

L’infanticidio, deve essere letto in un’ottica del tutto slegata rispetto agli sfondi politici, sociale e culturali della società che guardano a queste don­ne con disprezzo.

L’associazione generale dell’infanticidio con il crimine, la malattia dopo il parto, la popolazione e la selezione del sesso parla di ingiusta discrimina­zione nei confronti delle donne e dei bambini. Noi, come società globale, siamo in grado di fare di gran lunga un lavoro migliore per proteggere la maternità” (Spinelli, 2005, 24).

Oltre l’istinto materno, le cause scatenanti

Le motivazioni che portano una donna e una ma­dre a commettere il più orribile tra i crimini vanno dalle più banali e inquietanti (madri che uccidono i figli perché colpevoli di aver rovinato il proprio corpo) a quelle più complesse (donne che ripro­pongono sui loro piccoli le violenze che esse stes­se hanno subito).

Tra le cause principali troviamo:

  • Relazioni primarie: una “madre buona” ha avuto essa stessa una buona madre che ha saputo trasmetterle il sentimento della maternità. Nei casi di madri che hanno compiuto un figlicidio questo non avviene ma, al contrario, queste donne speri­mentano sentimenti di diffidenza, perdita della sti­ma di sé, immaturità cronica che interferiranno nella relazione con il proprio figlio (Consoli, 2016). Nei casi più tristi si tratta di madri vittime loro stesse di violenze e abusi durante l’infanzia che ripetono sul proprio figlio ciò che esse stesse hanno subito. Queste donne non riescono a perce­pire il figlio per come realmente è, proiettano su di lui sentimenti di odio e rancore, nutriti, in real­tà nei confronti del “genitore cattivo”;

  • Psicopatologia: depressione con progetto di suicidio allargato, disturbo paranoide, disturbo schizo-paranoide, disturbo borderline sono tra le psicopatologie più acute di cui può soffrire la donna al momento dell’atto. Difficilmente l’infan­ticidio appartiene alla sfera della depressione post-partum;

  • Abuso di sostanze: l’assunzione o l’asti­nenza da sostanze può provocare irritabilità, ecci­tazione, stati depressivi e/o disforici. Nei casi in cui viene fatta una doppia diagnosi di malattia mentale e di tossicodipendenza si possono scate­nare scompensi psicotici, come eccitazione ma­niacale, deliri, allucinazioni che possono culmina­re nell’atto infanticida;

  • Eventi di vita stressanti: la mamma può trovarsi ad affrontare episodi di perdita, separa­zione, allontanamenti di persone significative, de­cessi in famiglia, mutamenti economici, insorgen­za di malattie… Queste situazioni altamente stres­santi si verificano pochi mesi prima del delitto ma non sono in rapporto causale diretto con l’atto in­fanticida.

Analisi psicologica del fenomeno: le motivazio­ni

Nivoli (2002) elenca alcune tra le motivazioni principali:

  • L’atto impulsivo delle madri che sono so­lite maltrattare i propri figli: le Battering Ma­thers possono reagire alle urla e ai pianti dei figli in maniera impulsiva e aggressiva, arrivando an­che a percuoterli mortalmente. Spesso, si tratta di donne con disturbi di personalità, in associazione a scarsa intelligenza e a situazioni familiari alta­mente problematiche;

  • L’agire omissivo delle madri passive e ne­gligenti nel ruolo materno: queste madri vivono le esigenze del bambino come qualcosa che com­plica drammaticamente la loro vita. Sono donne che possono manifestare chiari sintomi psicotici. Il bambino muore per essere trascurato in quelle che sono le sue esigenze fondamentali (es. ali­mentazione insufficiente);

  • Le madri che trasformano i loro figli in capri espiatori di tutte le loro frustrazioni: ci sono donne, affette da malattie mentale, che per­cepiscono il bambino come fonte di frustrazione e come un vero e proprio persecutore;

  • Le madri che prodigano cure affettuose al figlio ma in realtà lo stanno uccidendo solamen­te: ci sono madri che cercano di ottenere a tutti i costi l’attenzione di medici I figli di queste donne vanno incontro alla morte per le gravi lesioni pro­vocategli, ad esempio usando una terapia farma­cologica allargata e somministrando ai bambini farmaci che sono stati prescritti a loro stesse (Ni­voli, 2002, cit. in Cavallone, 2016). Si parla di “Sindrome di Munchhausen per procura” ed è molto difficile individuare donne affette da questa sindrome perché alla presenza di altri si mostrano estremamente affettuose.

La classificazione di Philip Resnick

Philip Resnick nel 1969 ha operato una delle più importanti revisioni della letteratura sul figlicidio. Egli ha raccolto 155 riferimenti pubblicati tra il 1751 e il 1967. Lo studioso fu il primo a coniare il termine “neonaticidio”, per descrivere l’uccisione di un neonato entro le 24 ore di vita (Friedman, Horwitz, 2005). Grazie a questo lavoro ambizio­so, Resnick ha sviluppato una classificazione del figlicidio, basandosi sulle maggiori motivazioni sottostanti all’agito materno, suddividendole in 5 categorie:

Nel figlicidio altruistico la mamma vuole salvare il proprio bambino da sofferenze acute causategli da gravi patologie. In casi del genere si parla di “omicidi compassionevoli” che vanno distinti da quelli “pseudo-compassionevoli” dove la madre uccide un figlio bisognoso di cure particolari per liberarsi da un penoso e grave fardello; Nel figli­cidio psicotico la madre agisce sotto l’influenza di un grave disturbo psicopatologico che compor­ta un distacco dalla realtà. Nella maggior parte dei casi, i figlicidi psicotici vengono commessi senza che ci sia premeditazione: queste mamme manife­stano deliri, solitamente, entro un giorno dal reato (Bourget, Grace, Whitehurst, 2007).

Resnick (1969), inoltre, ci parla di figlicidio del “bambino non voluto”. In questo triste caso, la madre non desidera il bambino e non riesce a sta­bilire un legame con lui. La donna agisce con lu­cidità e collega la gravidanze e la nascita a eventi traumatici della propria vita.

Nel figlicidio accidentale il bambino muore per le lesioni inferte dalla madre. “La madre affetta dalla sindrome del bambino maltrattato (Battered Child Syndrome) è abitualmente avversa alle vio­lenze sul figlio ma ne causa la morte in occasione di un gesto impulsivo” (Mastronardi et al. 2012, 14).

Infine, nei casi di figlicidio vendicativo la madre vuole vendicarsi dei torti, reali o presunti, subiti dal partner. Il bambino viene visto come un “arma vendicativa” con cui far soffrire il padre, soprat­tutto dopo le separazioni conflittuali.

Un identikit”

Bramante (2004) ha condotto uno studio su 80 pe­rizie effettuate dal 1967 al 2003 sull’intero territo­rio italiano. Grazie al suo interessante studio, pos­siamo ricavare un profilo delle donne che uccido­no i propri figli:

  • La fascia di età con la percentuale maggio­ri di casi è quella che va dai 18 ai 32 anni, per poi decrescere;

  • Si tratta di donne con un basso quoziente intellettivo correlato ad un basso livello di istru­zione: il 42% delle donne figlicide ha conseguito solamente il diploma di scuola media inferiore e il 25% di queste donne si è fermata all’istruzione elementare;

  • Il 58% delle donne che commette il crimi­ne sono casalinghe (spesso per imposizione del partner);

  • Nel 52% dei casi la vittima non ha né fra­telli né sorelle;

  • Il 74% di queste donne al momento dell’uccisione è affetta da disturbi depressivi, il 55% da psicosi e l’11% da sindrome dissociativa. Tuttavia una buona percentuale di figlicidi (29%) viene compiuto in assenza di uno specifico distur­bo mentale;

  • Nel 69% dei casi nella storia pregressa di queste donne vi erano stati episodi allarmanti;

  • Il 35% delle madri figlicide nel periodo precedente al delitto ha subito ricoveri per tentato suicido o tentato omicidio del figlio.

Fattori di rischio

  • Condizione socioeconomica bassa: Di­versi studi rivelano una relazione tra il figlicidio materno e lo stress dovuto alla condizione econo­mica (Haaoasalo, Petaja, 1999, cit. in Friedman e Horwitz, 2005). Spesso, si tratta di madri che vi­vono in condizioni di isolamento sociale, sono economicamente svantaggiate, non hanno un la­voro e si occupano esclusivamente dei figli;

  • Scarso sostegno parentale: sono madri single che vivono con genitori o altri parenti ma in un contesto di scarsa o assente comunicazione. Hanno ricevuto un’educazione rigida, improntata sugli ideali religiosi condivisi dalla famiglia (Green, Manohar, 1990, cit. in Craig, 2004). Se­condo Resnick (1969), avere un figlio illegittimo è una delle ragioni principali per cui una donna nubile arriva a commettere un crimine così atroce come il neonaticidio.

  • Vittime di abusi e violenze: spesso, si tratta di madri negligenti e abusanti, che hanno problemi di dipendenza e abusi di sostanze e che in passato sono state esse stesse vittime di abusi e violenze.

L’infanticidio: aspetti statistici in Italia

Secondo uno studio del professor Vincenzo Ma­stronardi (2012), docente di psichiatria presso l’Università La Sapienza di Roma, dal 1970 ad oggi, circa 500 bambini in Italia sono stati vittime della furia dei genitori.

Cavallone (2008) nella sua ricerca osserva che, nelle donne rispetto agli uomini è nettamente pre­valente il reato di figlicidio e infanticidio: Nel caso specifico di figlicidio nel 18% dei casi il de­litto è commesso dal padre mentre nel 54% dei casi sono le madri a commetterlo. Nei casi di in­fanticidio, invece, nel 37% dei casi l’atto è stato commesso dalla madre.

Solo nel 3% dei casi, i figlicidi materni sono com­messi con un’arma di cui si servono più comune­mente i padri.

Un dato rilevante è l’età delle piccole vittime: in più della metà dei casi le madri uccidono i neonati o i figli entro l’anno di vita. Le vittime da 0 a 6 anni sono state uccise dalle madri nel 90% dei casi. Le piccole vittime sono prevalentemente ma­schi, sia nei casi di figlicidio materno, sia in quel­lo paterno.

Nel 4% dei casi la madre che commette l’atto è minorenne.

Per quanto riguarda il comportamento successivo al delitto, nel 13% dei casi si assiste ad un suici­dio da parte della madre e nel 19% dei casi ad un tentativo di suicidio.

Nel 39% dei casi la madre presenta una malattia mentale, in particolar modo, nel 61% dei casi è affetta da depressione e nel 13% dei casi sono ri­portate delle psicosi.

La maggioranza degli infanticidi avviene nel Nord Italia con il 48.9% dei casi, segue il Centro con il 24.3%, Il Sud con il 17.8% e, infine, le Iso­le con il 12% (Cavallone, 2008).

La prevenzione primaria

I risultati delle ricerche più recenti sui programmi di prevenzione hanno messo in luce la necessità di andare al di là di una definizione troppo ristretta di prevenzione, sottolineando l’esigenza di adotta­re e pianificare interventi che includano la preven­zione della salute e il miglioramento delle compe­tenze genitoriali, al fine di ridurre i fattori di ri­schio e di aumentare quelli di protezione (Amma­niti et al. 2007). Nell’evento della nascita sono coinvolte almeno tre dimensioni: medica, relazio­nale e intrapsichica (Basiliotti, 2016 cit. in Bec­ciu, Colasanti). La prima negli ultimi anni ha as­sunto un’importanza crescente riportando ingenti risultati nella lotta alla mortalità. La dimensione medica è estremamente importante, soprattutto se si prendono in considerazione gli studi di Craig (2004), secondo i quali il 95% delle donne che commette infanticidio partorisce in casa e solo il 15% di queste riceve cure prenatali. Alla dimen­sione medica, è importante associarvi anche quel­la relazionale e quella intrapsichica per poter ga­rantire, non solo la sopravvivenza fisica della ma­dre e del neonato, ma anche il benessere psichico che emerge dal soddisfacimento dei loro bisogni di sicurezza, condivisione, comprensione, fiducia e contatto (Basiliotti, 2016 cit. in Becciu, Colasanti).

Una prevenzione che possa dirsi efficace deve es­sere accompagnata da una corretta informazione per aumentare la consapevolezza e l’abilità delle donne a riconoscere gli stati emotivi tipici della maternità. Nell’ambito degli interventi preventivi quelli che sembrano essere maggiormente efficaci sono proprio quelli centrati su strategie di tipo educativo che includono lavori sulla genitorialità, sul supporto e sull’ascolto empatico.

Gli interventi preventivi più efficaci prendono in considerazione il contesto relazionale attuale, ma anche altri aspetti, tra i quali l’impatto delle rela­zioni passate del genitore con i propri genitori, così come studiato dalle ricerche sull’attaccamen­to.

Un intervento precoce basato sulla relazione geni­tore-bambino può ridurre lo stress e il conflitto, rafforzando il processo di interazione. Al contra­rio, un conflitto o un fallimento nella relazione bambino-caregiver può causare stress e generare emozioni negative (Ammaniti et al. 2007), portan­do anche a delle conseguenze gravi.

Il supporto psicologico in gravidanza e nei pri­mi mesi di vita del bambino

Secondo secondo Leff (1993), i vantaggi del so­stegno psicologico in gravidanza sono molteplici. È possibile ricevere in trattamento persone che altrimenti non avrebbero chiesto aiuto e, spinte dall’esigenza di essere delle buone madri, posso­no protrarre il trattamento anche nella fase post-natale. Il sostegno in gravidanza può aiutare a sa­nare alcune ferite derivate dall’infanzia e offrire l’occasione per rompere la trasmissione di model­li transgenerazionali disfunzionali, elaborando problematiche che riemergono riacutizzate in que­sto periodo, invece di riprodurle nella generazione successiva.

Inoltre, nell’ambito della prevenzione primaria, vengono in nostro aiuto l’Educazione Perinatale e la Psicologia Perinatale che accompagnano i sog­getti nel delicato passaggio dalla diade alla triade familiare, aiutando i genitori a comprendere il loro ruolo futuro, incrementando la comunicazio­ne nella rete familiare e migliorando l’ambiente che circonda la famiglia.

I primi mesi di vita del bambino sono un periodo che può presentare difficoltà e problematiche, specie se la diade madre-bambino non riceve un sostegno sufficiente. Nei casi in cui emergono queste difficoltà una strategia che si è rivelata molto utile è quella della Home Visitation, collo­qui psicologici domiciliari che aiutano la neo mamma a sentirsi compresa e accolta empatica­mente, rafforzando così il senso di autocontrollo e l’autostima della mamma che potrà così identifi­care in modo adeguato i bisogni del bambino, i segnali emotivi e i comportamenti che mette in atto (Flore, 2016).

Anche la creazione di reti sociali naturali intorno alla mamma si è rivelata una strategia vincente: la formazione di persone vicine chiamate “facilitato­ri” (familiari, amici, colleghi, puericultrici…) rap­presenta un sostegno fondamentale per le neo­mamme in quanto permette loro di affrontare il loro ruolo materno con serenità, superando falsi miti sulla maternità e le aspettative sterili.

Interventi rieducativi per il reinserimento so­ciale: le attività dell’OGP di Castiglione delle Stiviere

A livello riabilitativo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere è una struttura moderna e unica nel suo genere in Italia, in quanto basa il trattamento su un percorso riabi­litativo del paziente, più che sulla punizione per il crimine commesso (Calogero et al. 2012). L’OGP di Castiglione ospita 7 madri figlicide, le così det­te “madri Medea” che hanno ucciso i propri figli in preda a gravi patologie mentali.  

Per essere ammesse a all’OGP bisogna rispondere a tre requisiti: queste donne devono essere dichia­rate incapaci di intendere e di volere, giudicate so­cialmente pericolose e aver stabilito un nesso cau­sale tra malattia e reato.

La sua peculiare caratteristica esclusivamente sa­nitaria, senza la presenza di agenti di polizia peni­tenziaria, offre una sistemazione dignitosa ai pa­zienti psichiatrici autori di reato. Gli obiettivi principali dell’OGP sono: il recupero della salute mentale mediante miglioramento clinico dei sintomi, l’attenuazione della pericolosità sociale e una “dimissione sicura”, basandosi sui principi di dignità, rispetto, responsabilità” (Calogero et al. 2012, 137).

L’OGP offre alle sue pazienti terapie di compen­sazione come il lavoro, corsi educativi, formazio­ne lavorativa e corsi ricreativi per sviluppare nuo­ve modalità comunicative, come il teatro e la pit­tura.

Tra gli obiettivi principali dell’OGP vi è il recu­pero della salute mentale, l’attenuazione della pe­ricolosità sociale, la riacquisizione di una certa autonomia psicofisica e un passaggio meno trau­matico possibile nel contesto socio-territoria­le.

Nella scuola dell’OGP si insegnano cose “prati­che”, relative alla vita quotidiana: saper andare in banca, pagare le bollette, imparare a gestire le pic­cole somme di denaro che vengono affidate ad ogni singola paziente.

Il reinserimento sociale avviene in modo del tutto graduale, iniziando con piccoli compiti: fare la spesa, praticare tirocini nei ristoranti o nei negozi, fino ad ottenere un lavoro retribuito.

Particolare attenzione, inoltre, è posta nei con­fronti dei familiari: le visite sono permesse tutti i giorni e si possono consumare insieme i pasti, proprio perché mantenere una rete familiare che funga da sostegno è il primo passo per un lungo e difficile reinserimento sociale (Cavallone, 2008).

CONCLUSIONI

Comprendere una madre che uccide è sicura­mente molto difficile e il movimento che porta verso di lei assai laborioso […] Nella situazione di infanticidio, il bambino muore per non essere esistito nella testa di sua madre, per non essere stato aspettato” (Marinopoulos, 2005, 33-35). Molto spesso, la madre prende coscienza della vita di suo figlio solo dopo la sua morte.

Lo sconcerto che causa tanta violenza è tale da non permetterci spesso un esame critico. “Accet­tare di guardare in faccia con lucidità questi para­dossi materni è un processo illuminante, giusto e necessario, che permetterà al nocciolo duro della maternità di rivelarsi e queste rivelazioni fonde­ranno le nostre azioni e le nostre pratiche sociali” (Marinopoulos, 2005, 36).

Un passo importante è quello di sviluppare un senso di responsabilità collettiva con il quale combattere il giudizio riduzionista che vede que­ste donne come mostri da allontanare necessaria­mente dalla società, arrivando ad una comprensio­ne profonda del fenomeno.

Una prevenzione efficace, infatti, presuppone consapevolezza e conoscenza, non in forma astratta ma fondata su dati reali e attendibili. Pre­venire significa andare al di là dell’immagine di­storta che, spesso, propongono i media.

È vero sono atti imperdonabili ma non bisogna dimenticare che è l’atto ad essere disumano e non la madre.

Riconsiderare la concezione della maternità è, al­lora, un buon passo avanti, abbandonando il mito idilliaco della maternità e aprendosi ad una nuova visione di questa esperienza che porta con sé mo­menti di crisi e di crescita, di gioia e di vulnerabi­lità. Il sentimento della maternità non è affatto scontato: per essere madre non basta mettere al mondo un figlio. La madre deve vivere la propria condizione con senso di sicurezza e fiducia, deve avere alle spalle una storia familiare positiva ed essere circondata da un ambiente sano. “Il bambi­no può nascere alla vita solo se è portato dalla vita” (Marinopoulos, 2005, 37).

Lo scopo di questo lavoro è stato quello di fornire un approfondimento su tale fenomeno nel tentati­vo di suggerire una chiave di lettura diversa da quella che solitamente dà la società o l’opinione pubblica che molto spesso emettono sentenze basandosi su stereotipi e pregiudizi. Solitamente, si trascura il fatto che si tratta di donne che vivono situazioni di sofferenza, di abbandono, di violenze psicologiche, di miseria e solitudine.

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Uomo e cane: dal legame affettivo agli apporti referenziali sulla salute della persona Ilaria Catasta

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Il presente articolo pone l’attenzione sulla relazione interspecifica, quel tipo di legame che coinvolge individui di specie differente.

In particolare verrà fatto riferimento al cane al fine di definire il possibile contributo alla salute della persona, attraverso il modello biopsicosociale, approfondendo quindi i benefici nelle aeree: biologica, psicologica e sociale.

Verranno in seguito riportate alcune ricerche con i cani per fronteggiare lo stress.

In ultimo partendo dal presupposto che gli animali d’affezione non siano fautori di miracolose guarigioni, si parlerà di Pet therapy, delle tipologie di intervento e possibili campi di applicazione.

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«[…] Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?” “[…] Vuol dire ‘creare legami’[…]”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo» (De Saint-Exupéry, 2003, 91-92).

Formare legami affettivi e attaccamenti è una particolarità tipica degli esseri umani, sia bambini che adulti, e rappresenta un bisogno profondo che affonda le sue radici nella nostra storia biologica e nell’evoluzione della nostra specie (Hinde, 1982; Ainsworth, 1989; Suomi, 1999).

Come la volpe lascia intendere al piccolo principe: essere in relazione con l’altro sottende un valore unico.

La relazione non è da intendersi unicamente con individui della stessa specie e appartenenti ad un gruppo sociale. Noi esseri umani “Homo sapiens sapiens” condividiamo questo bisogno di stringere legami con molte altre specie animali. I legami affettivi e l’attaccamento si creano tra individui che appartengono alla stessa specie legami intra-specifici ma è possibile, e tutt’altro che infrequente, che questi legami coinvolgano individui appartenenti a specie diverse legami inter-specifici e anche filogeneticamente distanti formando relazioni intense, durevoli e affettivamente significative (Prato Previde, Valsecchi, 2011).

Fino a non molto tempo fa, l’idea di studiare la relazione uomo-animale non veniva considerata per diverse ragioni tra cui il ritenere l’animale come essere irrazionale e come un bene materiale piuttosto che un essere vivente con cui entrare in relazione.

Recentemente la visione è decisamente cambiata ed è nata una nuova disciplina scientifica che propone un nuovo modo di pensare la complementarità di uomo e animale: la zooantropologia.

L’oggetto di studio della zooantropologia riguarda le caratteristiche dell’interazione uomo-animale ed i contributi che l’uomo può ricevere dalla diversità animale (Marchesini, 2005).

Grazie al dialogo con l’animale, l’uomo acquisisce dei contenuti ispirativi referenze capaci di favorire alcuni processi di cambiamento. Parliamo di relazione quando l’interfaccia è dialogica quando tra i due interlocutori si svolge un processo di interscambio (reciprocazione) e una progressione di ruoli, vale a dire quando i due interlocutori si mettono nella condizione di incontrarsi.

La zooantropologia individua un vero e proprio dialogo tra umano e non umano e ritiene che l’uomo abbia costruito gran parte dei propri predicati come la musica, la danza e la tecnica attraverso la referenza eterospecifica.

Sostiene inoltre che la relazione sia multidimensionale e che quindi è importante che vengano analizzati non solo i due termini del rapporto ma anche il tipo di legame che essi instaurano (Marchesini, 2015)

É possibile però che le persone non sempre abbiano piacere di entrare in contatto con l’animale.

A questo proposito la zooantropologia ha studiato e individuato le potenziali disposizioni che il referente umano può avere nei confronti dello stimolo animale. Tra queste troviamo (Marchesini, 2005):

  • La zooapatia, cioè una forma di totale disinteresse verso lo stimolo animale, l’animale è percepito come qualcosa di estremamente irriverente;

  • La zoopoiesi, in cui si assiste ad una tendenza a negligere l’autenticità dell’animale, quindi quest’ultimo non è riconosciuto nella sua diversità e nelle sue caratteristiche specie-specifiche;

  • La zooempatia, propria di quelle persone che nutrono un interesse verso l’altro animale sostenuto dall’accettazione della diversità animale e dalla curiosità di conoscerla nel rispetto delle caratteristiche specifiche;

  • La zoomania, in cui l’interesse verso l’animale è talmente alto che la persona investe tutte le proprie energie affettive e/o relazionali verso il partner non umano;

  • La zoofobia, in cui lo stimolo animale è percepito come un potenziale pericolo;

  • La zoointolleranza in cui la persona percepisce le caratteristiche dell’animale come aberranti e intollerabili provando ribrezzo generale verso tutto il non-umano.

Con lo scopo di evidenziare gli apporti benefici di questa relazione interspecifica, la disposizione della persona nei confronti dello stimolo animale deve essere di carattere zooempatico.

La possibilità di sperimentare nuove disposizioni emozionali e cognitive è data dall’accettazione e la consapevolezza di avere di fronte a sé un essere non-umano. Dal suo canto, riconoscendo l’eterospecifico come un vero e proprio referente, un’interazione corretta ed equilibrata implica anche che l’animale coinvolto accetti, ricerchi e gradisca l’interazione ravvicinata dell’uomo.

La relazione tra uomo e cane è stata studiata non solo con questionari ma anche osservando direttamente il comportamento verbale e non verbale dei proprietari di cani nei confronti dei loro animali (Prato Previde, Valsecchi, 2007). Per fare ciò è stato utilizzato il test della Strange Situation focalizzandosi sul comportamento dei padroni, uomini e donne, e valutando eventuali differenze di genere in condizioni standardizzate e adatte ad attivare comportamenti di attaccamento nel cane e di accudimento nel proprietario.

Il comportamento dei proprietari è stato studiato al momento delle separazioni e negli episodi di riunione col cane, evidenziando diversi comportamenti relativi al gioco, nell’accudimento e conforto e alla comunicazione verbale. Lo studio ha chiaramente dimostrato che i proprietari rispondevano ai comportamenti di attaccamento esibiti dal proprio cane durante le separazioni e le riunioni manifestando accudimento e conforto. Non sono emerse differenze di genere nel fornire conforto fisico (coccolare, accarezzare, tenere vicino ecc.) o nel promuovere il gioco, ma le donne parlavano significativamente di più durante le riunioni e al momento delle separazioni.

Inoltre utilizzavano molto di più il “motherese”, una modalità di comunicazione semplificata e melodica ritenuta tipica degli umani nella comunicazione con i piccoli della propria specie, e che può essere considerata come una forma di comunicazione non verbale che veicola emozioni e affettività piuttosto che specifici significati (Fernald 1994, Monnott 1999, Falk 2004).

Questi risultati hanno avvalorato l’ipotesi che il comportamento dei proprietari sia di tipo parentale e che comportamenti specie specifici (linguaggio compreso) si siano evoluti per proteggere, confortare e calmare i bambini in momenti di stress e paura vengano attivati nell’interazione con altre specie con comportamenti e caratteristiche simili.

Il concetto attuale di salute vede il corpo come un’unità che deriva dalla complessa relazione delle sue parti (fisica, psicologica e sociale) e l’origine della malattia viene definita come una disarmonia della relazione con se stessi, con gli altri e l’ambiente. In un simile contesto, gli animali possono offrire un importante contributo all’uomo, agendo come moderatori tra questa disarmonia e la salute.

Per quanto riguarda i benefici fisici «Diverse ricerche hanno dimostrato che la presenza di un cane interviene favorevolmente sulla pressione arteriosa dell’uomo» (Ballarini, 1995, 149).

Nello specifico Friedmann condusse una ricerca al fine di scoprire le influenze dell’isolamento sociale nel caso di soggetti infartuati. Studiò quindi per un anno, 92 soggetti ricoverati in seguito ad un attacco cardiaco. Analizzando i dati della ricerca notò l’influenza di un fattore: la sopravvivenza all’infarto risultava significativamente correlata alla presenza nell’ambito familiare di un animale domestico. Questa correlazione, inoltre, era indipendente dalla intensità dell’attaccamento e soprattutto dal tipo di animale posseduto.

Nei primi anni ´80 del secolo scorso Katcher, allora ricercatore presso l’Università della Pennsylvania, si preoccupò di studiare l’influenza della presenza di un animale da compagnia sulle variazioni della pressione arteriosa dell’uomo. Attraverso misurazioni in tempo reale provò che accarezzare un cane o un gatto agiva direttamente sul livello di pressione arteriosa dei pazienti. A seguito di una seduta di circa quindici minuti durante la quale il paziente affetto da ipertensione stava seduto ad accarezzare l’animale, si evidenziavano, infatti, abbassamenti significativi della pressione sanguigna.

Friedmann, nel corso di successive ricerche insieme alla sua equipe, scoprì addirittura, che non era affatto necessario il contatto fisico per ottenere gli effetti calmanti, ma bastava che l’animale fosse presente nella stanza e si dimostrasse tranquillo e rilassato, magari intento a sonnecchiare o a lisciarsi il pelo, per innescare nel soggetto umano molteplici reazioni fisiologiche (Friedmann in Ballarini, 1995):

– Diminuzione della pressione sia diastolica che sistolica;

– Regolarizzazione del battito cardiaco;

– Regolarizzazione e distensione della respirazione;

– Rilassamento generale del tono muscolare e nelle espressioni del viso.

La conclusione cui giunsero questi autori fu che, vista l’incidenza dell’ipertensione nei casi dei disturbi coronarici, la presenza di animali domestici o il contatto con essi fosse di grande utilità nel caso di pazienti cardiopatici e potesse essere utilizzata come terapia di supporto a quella farmacologica. Anzi, la presenza di un animale favorirebbe la longevità e diminuirebbe il rischio di patologie cardiovascolari.

Per quanto riguarda invece i benefici psicologici, il cane svolge numerosi funzioni, tra cui:

Rottura delle barriere relazionali e l’insorgere di processi comunicativi soprattutto sul piano non verbale: Vivendo la relazione con il cane abbiamo la possibilità di conoscere meglio noi stessi e di trasferire nelle nostre relazioni interpersonali quanto di buono questa esperienza ci offre. Il rapporto con l’animale diviene lo specchio dei nostri atteggiamenti relazionali per quanto riguarda la capacità di contenerci con la nostra sfera dell’istinto e di individuare emozioni che ritroviamo contestualizzate in tutte le nostre relazioni. «I cani ci ricordano che condividiamo con loro la vita sulla terra, e ci aiutano a riconoscere i nostri limiti, a coltivare l’empatia e la compassione. Il cane esprime le emozioni in maniera autentica e diretta, senza finzioni, e per questo suscita in noi forti e intensi sentimenti» (Bruni, 2009, 91). Il rapporto con il cane ci pone nel presupposto di dover comunicare, nel senso più atavico del termine, sulla relazione, e questo esercizio ci permette di acquisire una maggiore sensibilità emotiva.

Incremento del proprio vissuto di autostima legato al senso di responsabilità e di cura nei confronti di un altro essere vivente; i rituali e le abitudini quotidiane, come passeggiate, cure, alimentazione, accrescono in chi si occupa di un cane un senso personale di responsabilità e di utilità, quindi di autoefficacia. La nostra capacità di offrire cure dipende dalle esperienze vissute nella famiglia d’origine e dal modello di attaccamento acquisito attraverso tali esperienze (Ivi). La relazione con un cane può potenzialmente avere una funzione preventiva circa i problemi di eccessiva timidezza in confronto alle potenziali conseguenze della relazione con un cane: l’individuo timido ha generalmente paura di esprimere le proprie opinioni davanti ad altre persone, non riuscendo così efficacemente a difendere i propri diritti. Di conseguenza il soggetto si trova ad avere pochi amici, in quanto non si apre alle confidenze ed amplia la propria prossemica personale ad un raggio più ampio del consueto (Ibidem). Nel rapporto con il cane questo confine, immaginario e reale allo stesso tempo, svanisce e l’animale viene lasciato accedere alla zona intima (da 0 a 45 cm) in modo totalmente spontaneo e naturale, poiché esso non viene percepito come un intruso, non rappresenta una minaccia alla nostra identità e all’intimità della nostra persona, sia che si avvicini per annusarci, che si strusci sul nostro corpo, chiedendolo di accarezzarlo, o che ci salti a dosso scodinzolando. Il contatto con l’animale è quindi (salvo particolari fobie) un contatto sereno, spontaneo, generalmente ben accetto e corrisposto perchè non può essere frainteso (Ballarini, 1995).

Autenticità del rapporto non mediato da norme sociali o convenzioni; generalmente, le relazioni umane sono caratterizzate da dinamiche guidate da norme che definiscono i comportamenti socialmente attesi e quelli non accettabili. Alcune di queste norme sono abbastanza chiare e sono presentate in modo altamente formalizzato, altre sono più implicite e non sono mai definite in maniera formale. Gran parte del comportamento sociale è caratterizzato da regole precise di gruppo, con il compito di andare a definire quale è il comportamento che la società si aspetta da un individuo e quali sono invece i comportamenti che verrebbero letti come devianti (Pedon, 2011). Il rapporto con il cane si presenta come uno spazio parallelo intimo, in cui la persona può far emergere se stessa, in modo trasparente e autentico e senza la pressione di vincoli ed aspettative da parte del cane. La persona è libera di poter esprimere se stessa e di non sentirsi vincolata dai giudizi e dalle opinioni altrui.

Sostegno emotivo ruolo di ammortizzatori nelle situazioni stressanti, come l’elaborazione di un lutto; tutto ciò avviene principalmente grazie alla potenzialità dell’animale di sintonizzarsi sulle emozioni del padrone. Parliamo, dunque di empatia, cioè, secondo Galanti (2001), della abilità di comprendere il modo di essere nel mondo di un altro dal di dentro, riuscendo ad immedesimarsi nella sua condizione e a penetrare la sua dimensione di interiorità. Come riportato in precedenza, il modo di approcciarsi del cane risulta essere spontaneo e del tutto empatico. Questo modo di approcciarsi del referente animale alla vita, alle persone e all’ambiente circostante rappresenta un importante incentivo che può essere estremamente stimolante nei casi di esperienze emotivamente traumatiche, come il caso di elaborazioni di lutto.

– Sensazione di totale accettazione, manifestazione incondizionata di affetto;

Gli animali vivono sempre nel qui et ora e aderiscono alla loro natura.

Ciò può essere letto come insegnamento alla persona che si trova a condividere del tempo con l’animale in quanto l’atteggiamento di quest’ultimo nei confronti del mondo circostante, può essere di riflesso, funzionale per lo sviluppo e al rinforzamento del senso del sé della persona. I cani possono dunque fungere da facilitatori, per il proprietario della promozione dell’autostima

Il contatto con l’animale ci riconduce ai nostri istinti e ci aiuta ad ascoltare le nostre emozioni, ad avere fiducia nelle nostre reazioni autentiche e a ritrovare una nostra armonia interiore.

Per quanto riguarda i benefici sociali; nel 1975 Mugford e MrComisky, si occuparono di studiare il rapporto uomo-animale, descrivendo la capacità di favorire i contatti tra gli individui posseduta dagli animali da compagnia, definendo questi ultimi «lubrificanti sociali». Qualcun altro li ha definiti «catalizzatori» o «facilitatori» (Ballarini, 1995, 91). Particolarmente rilevanti, gli studi condotti da Messent alla fine della seconda metà del ‘900. La ricerca condotta da questo studioso si divide principalmente in tre fasi distinte, in primo luogo, “Messent ha osservato sette soggetti mentre camminavano lungo un percorso prefissato, nell’Hyde Park di Londra, e nella zona circostante. Queste persone dovevano camminare sullo stesso percorso una volta con i loro cani, una volta senza, mentre il comportamento veniva registrato da osservatori che le seguivano a una distanza di circa dieci metri. Tutte le persone incrociate durante le “passeggiate” erano estranee, poiché i soggetti scelti non frequentavano il parco. Messent ha potuto così constatare l’effetto della presenza del cane sulla reazione dei passanti: solo il 2% delle persone che incrociavano aveva interagito con i soggetti quando questi erano senza cani, mentre quando il cane era presente almeno il 22% delle persone dedicava attenzione al cane e/o al padrone (Ivi).

Dalla ricerca è emerso che la sola variabile che influenzava la durata della conversazione era che le persone incontrate avessero oppure non avessero un cane: Il dialogo con chi possedeva un cane era significativamente più lungo. Viene dunque definita questa caratteristica di facilitazione sociale e si attua quando il cane agisce attraverso diversi meccanismi tra cui troviamo (Ballarini, 1995):

– Novità e Interesse: in un’alta percentuale di casi il cane, il suo movimento e la sua fisionomia solleticano l’interesse, costituiscono un forte stimolo continuo dell’attenzione, perciò un animale attivo può rappresentare un comune punto di interesse.

– Meccanismo Innato: nello stesso modo in cui le caratteristiche del bambino evocano certe risposte universali di attenzione e di premure, piccoli e morbidi animali possono innescare analoghe risposte comportamentali nelle persone

– Azione rompighiaccio: un cane può sollecitare una interazione, per esempio avvicinandosi ad una persona, saltando in braccio a una persona o in generale richiedendo attenzioni, creando così una situazione capace di aprire un varco nella diffidenza della gente.

La parola stress è entrata ormai nel linguaggio quotidiano e rimanda l’idea di una condizione in cui l’individuo è sottoposto per un certo periodo di tempo ad un dispendio di energie, fisiche, psichiche ed emotive superiore al livello considerato da lui accettabile, quindi assume una connotazione negativa. In realtà si differenzia tra eustress e distress: con il primo termine ci si riferisce al grado di stress che non danneggia ma anzi contribuisce a migliorare la salute degli individui mantenendo l’attenzione e la concentrazione, con il secondo invece si fa riferimento ad un accumulo di stimoli stressori che genera una risposta eccessiva sia a livello fisiologico che a livello psichico (Selye, 1974).

Verranno di seguito riportate delle interessanti ricerche che coinvolgono il cane nell’attenuazione dello stress.

In uno studio preliminare pubblicato nella rivista International Journal of Workplace Health Managment (2012), sono state riscontrate delle differenze mettendo a confronto gruppi di dipendenti che portavano i propri i cani in ufficio, dipendenti che non portavano i propri cani e un gruppo che non possedeva cani. Lo studio si è svolto presso la compagnia Replacements, un’azienda dog friendly con sede a Greensboro e 550 dipendenti. Nella sede sono circa venti i cani che sono presenti ogni giorno. Durante la settimana lavorativa, i dipendenti scelti per l’indagine hanno consentito agli scienziati di prelevare loro campioni di saliva. Inoltre, nel corso della giornata compilavano delle schede di indagine. Nella prosecuzione del loro lavoro, i ricercatori hanno confrontato i dati psicofisici relativi a coloro che portano i cani sul luogo di lavoro, con i loro colleghi senza animali, valutandone diversi fattori: stress, soddisfazione, impegno e supporto organizzativo.

I ricercatori, confrontando i livelli di cortisolo presente nei campioni di saliva, hanno notato che si trattava di dati assai diversi. Lo stress, diminuiva considerevolmente nei dipendenti con il cane, ma aumentava per chi non aveva animali, o lasciava a casa il suo amico a quattro zampe. Si è visto che lo stress teneva ascendere se questi decidevano di portarli con se. «Anche se preliminare, spiega Randolph T. Barker, professore di Management e principale responsabile della ricerca, questo studio fornisce la prima misurazione dell’effetto esercitato dai cani dei lavoratori nell’ambiente di lavoro. Questi animali nei luoghi di lavoro possono fare una differenza positiva» (Barker et al, 2012, 17). Inoltre, gli scienziati hanno notato come gli impiegati senza cane cercassero l’animale degli altri, durante la pausa, e cercassero di costruire un rapporto con lui.

Rispetto alle opinioni degli intervistati, i commenti sono stati spesso positivi. Alcuni hanno detto che «gli animali da compagnia nei luoghi di lavoro possono essere un bonus per sollevare il morale dei dipendenti», altri che «è un grande antistress», che «favoriscono e aumentano il lavoro di squadra con i colleghi.

La presenza di un animale si rivela dunque come incentivo al benessere dei dipendenti. Si tratta di un rimedio allo stress immediatamente disponibile, che può «migliorare il livello di soddisfazione organizzativa e la percezione di sostegno» (Barker et al, 2012, 20).

Chi ha detto che passeggiare faccia bene solo al cane?

Lo studio condotto da Campbell e colleghi (2016) dimostra che portare a spasso il cane giova anche alla salute del padrone. Nonostante nella quotidianità sia difficile trovare del tempo per dedicare uno spazio per una passeggiata con il nostro amico a 4 zampe.

In questo studio viene esplorata proprio la percezione della salute e benessere legati alle passeggiate con il cane. Questa indagine è stata condotta in una piccola città universitaria nella Nuova Zelanda con un clima temperato e un numero relativamente elevato di zone per passeggio per i cani. I partecipanti (otto donne e due uomini), di età compresa tra 33 e 55 anni, sono stati inclusi nello studio. Hanno camminato con il proprio cane regolarmente (da zero alle quattordici volte durante la settimana). Sono stati identificati dei temi che corrispondono al “benessere psicologico”: il legame emotivo con il cane, il benessere nella passeggiata con il cane e la riduzione dello stress. Attraverso i seguenti metodi: intervista (19 interviste) e analisi partecipativa.

Il risultato di questo studio è che il legame emotivo tra cane e umano è un importante slancio motivazionale nell’attività fisica e nella riduzione dello stress. Da queste interviste è emerso che trascorre del tempo all’aperto per i partecipanti a questo studio comportava una soddisfazione personale e un senso di motivazione nel rapporto di cura del proprio cane allontanando così pensieri negativi. Mi viene da dire: «Si può fare» spiega una partecipante (Campbell et al, 2016).

Il cane rappresenta fonte di motivazione per gli esseri umani nel camminare con il potenziale beneficio di ridurre la tensione emotiva e lo stress, rafforzando in questo modo il senso di benessere psico-fisico della persona. Una volta fuori per una passeggiata, le interazioni (sia sociali e ambientali) sperimentate hanno contribuito al benessere psicologico e alla riduzione dello stress per la persona.

L’ultimo intervento che ritengo interessante riportare riguarda la valenza della referenza animale nel contesto universitario. Gli effetti dello studio universitario generalmente comportano che lo studente sia assiduamente messo alla prova attraverso esami, prove scritte ed orali, preparazione di tesi, e sappiamo quanto queste situazioni possono arrecare stati di tensione e stress per l’individuo. Lo stress, spesso può arrivare a condizionare negativamente anche i risultati degli esami, poiché l’ansia e la tensione a volte raggiungono livelli tali da inficiare sulla concentrazione e sull’attenzione dello studente. In Scozia è stato promosso un progetto per diminuire lo stress da esami: nella Aberdeen University, per attenuare l’ansia, gli stati emotivi negativi, la tensione, è stata allestita una così detta puppy room, cioè una stanza in cui gli studenti posso passare del tempo accarezzando e giocando con dei cuccioli di cane di svariate razze. L’entusiasmo coinvolgente dei cuccioli funge da potenziale e forte anti-stress, in virtù delle caratteristiche precedentemente esposte, che aiuta i ragazzi a rilassarsi e allentare la tensione accumulata prima degli esami, il tutto nel rispetto anche del benessere dei cuccioli stessi che sono seguiti e salvaguardati da figure professionali. L’affetto incondizionato e travolgente dei cuccioli invade di positività la sfera emotiva degli studenti, i quali possono sentirsi immediatamente sollevati, ritrovare quindi un equilibrio psico-fisico soddisfacente.

(www. thenationalstudent.com, 2013).

Il coinvolgimento dell’animale in ambito clinico è stato spesso considerato quasi del tutto marginale, catalogato come appartenente a un mondo fantastico e di appiglio emotivo che poco aveva a che fare con la scienza ufficiale. Attualmente la psicologia e la medicina ufficiale hanno cominciato ad interessarsi delle dinamiche sottostanti al rapporto uomo-animale e a scoprirne le importanti implicazioni in termini di salute fisica e mentale. (Giusti, La Fata, 2004)

La definizione del termine Pet therapy risale ad un’origine anglosassone. «Pet» è utilizzato sia come sostantivo per indicare l’animale domestico, da affezione, sia come verbo (to pet), con il significato di accarezzare o coccolare. «Therapy», letteralmente terapia, è utilizzato come secondo termine in parole composte tipo physiotherapy, psychoterapy, ecc.

Il primo ad utilizzare questa espressione fu un neuropsichiatra Boris Levinson che stava attraversando una fase di perplessità e incertezza nella sua carriera, in quanto soffriva la mancanza di modelli standard efficaci di cura per i suoi pazienti. In quel periodo, aveva in cura un bambino sofferente di una grave forma di autismo che era stato sottoposto a ogni genere di trattamento, anche quelli più estremi, senza alcun risultato. Accadde che un giorno i genitori accompagnassero il figlio a una seduta con un leggero anticipo rispetto all’orario prefissato. In quel momento, il neuropsichiatra era talmente impegnato nella redazione di uno scritto che fece accomodare la famiglia nello studio dimenticandosi del tutto di Jingles, il suo cocker, che solitamente non faceva uscire durante le visite. Non appena vide quel bambino, il cane, che era disteso tranquillamente ai piedi del medico, si diresse verso di lui e cominciò a leccarlo. Il piccolo non mostrò alcun segno di timori nei riguardi dell’animale e, tra lo stupore generale, si fece annusare e ne fu così conquistato e attratto che cominciò a toccarlo dolcemente. Al termine dell’incontro manifestò quello che probabilmente era il primo desiderio della sua vita: ritornare nello studio di Levinson per poter giocare di nuovo con Jingles. Nelle sedute successive, come Levinson racconta nel su articolo «the dog as co-therapist» (1961), che il bambino continuò a giocare con il cane, permettendo allo psichiatra di inserirsi nel gioco e di instaurare così un buon rapporto con il suo piccolo paziente. La presenza di un animale, osservava Levinson, rendeva più semplice per il bambino, che era spesso intimidito dalla comunicazione diretta con il terapeuta, l’espressione delle proprie difficoltà, che egli riusciva in questo modo a comunicare in maniera indiretta, e cioè attraverso l’animale, proiettando su questo le proprie sensazioni altrimenti non comunicabili, tutto ciò in un continuo scambio di manifestazioni affettive e ludiche che rendevano piacevole l’incontro terapeutico. A seguito di questo avvenimento, il neuropsichiatra cominciò a utilizzare in maniera più sistematica gli animali da compagnia, cane o gatto a seconda del tipo di paziente, e sviluppò la teoria della «pet oriented child psychoterapy», basata sull’idea che il bambino si identifica frequentemente con l’animale, il quale diventa così un oggetto transazionale (Bowlby 1982) e grazie a questo tipo di proiezione riesce a parlare più facilmente della sua vita e delle sue inquietudini.

Ad oggi, esistono tre tipologie di intervento: le AAA (le attività assistite con gli animali), le AAT (le terapie assistite con animali) e le AAE (l’educazione assistita con gli animali).

Gli acronimi utilizzati sono quelli adoperati dalla comunità internazionale per indicare le specificità operative e applicative dei programmi assistiti con gli animali. Di ciascuno di essi, sarà fornita una descrizione specifica.

Le AAA (attività assistite con gli animali) sono interventi di tipo ricreativo e/o educativo che hanno come obiettivo il miglioramento della qualità della vita.

Tali interventi implicano il coinvolgimento di animali in possesso di determinati requisiti psicofisici e attitudinali, e sono condotti da professionisti con una formazione specifica. Gli animali e i loro conduttori devono anche superare una prova attitudinale che ne provi le capacità di interazione con gli esseri umani in contesti diversi, nel rispetto e nella tutela del loro benessere e delle loro doti caratteriali. I programmi possono essere svolti in strutture di vario genere ed essere indirizzati sia a singoli soggetti, sia a gruppi di persone più o meno numerosi.

Per definizione, i programmi AAA non sono necessariamente legati ad una terapia, e non sono dunque presentati subordinatamente alle condizioni mediche dell’utente. Dovrebbero essere dipendenti ad una fase progettuale e organizzativa che tenga conto delle esigenze e del benessere degli utenti e degli animali coinvolti. All’interno di tale fase andranno definiti gli obiettivi di riferimento per lo svolgimento del programma stesso. I programmi di AAA devono essere condotti da personale (educatori, insegnanti, ecc.) opportunatamente formato, in stretta collaborazione con conduttori professionisti. Generalmente, le AAA vengono proposte a piccoli gruppi di utenti, senza l’attivazione di richieste specifiche. Ciò permette di valutare eventuali situazioni individuali particolari, come ad esempio la paura dell’animale e la necessità di un relativo programma di desensibilizzazione. Programmi AAA sono anche particolarmente indicati per setting variabili, dove non è possibile una ripetizione prolungata di pattern di interazione (per il semplice fatto che i fruitori cambiano ogni volta) o stabilire obiettivi individuali a lungo termine (ad esempio, perché il contesto consente solo occasionalmente le visite degli animali). Un esempio potrebbe essere l’attività svolta presso gli ospedali pediatrici all’interno di spazi condivisi (Pergolini, Reginella, 2009).

Le AAT (terapie assistite con gli animali) sono interventi con obiettivi specifici predefiniti, in cui un animale che risponde a determinate caratteristiche è parte integrante del trattamento. L’AAT è diretta da un professionista con esperienza specifica nel campo, nell’ambito dell’esercizio della propria professione. Nello specifico, i programmi di AAT hanno come scopo il raggiungimento di obiettivi di tipo terapeutico attraverso l’interazione fra pazienti e animali selezionati in base a specifiche attitudini psichiche, morfologiche e caratteriali, e che abbiano seguito precisi percorsi di educazione e addestramento affiancati da conduttori professionisti, opportunamente formati. Tali interazioni avvengono il più delle volte all’interno di un setting istituzionale per un lasso temporale e secondo una linea di intervento prestabiliti in fase progettuale.

Le visite previste nei programmi di AAT vanno effettuate sempre e solo in presenza di operatori di riferimento (educatore, psicologo, infermiere), sotto il coordinamento e la supervisione di professionisti della salute e del benessere umano (medico, psicologo, ecc)

Tali programmi, inoltre, richiedono un’accurata fase progettuale personalizzata per ogni singolo paziente e vanno costantemente valutati e documentati.

Alla luce della definizione delle AAT sopra fornite, secondo cui sono programmi terapeutici veri e propri, rivolti a fasce di età che vanno da quella evolutiva fino alla geriatrica, che vedono il coinvolgimento dell’animale domestico come mezzo privilegiato e facilitatore relazionale, risulta evidente che i loro contesti di applicazione sono innumerevoli. (Pergolini, Reginella, 2009):

I programmi di AAE (educazione assistita con gli animali) sono interventi di tipo educativo e/o ludico- ricreativo effettuati con l’ausilio degli animali. Anche in tali programmi l’animale svolge una funzione allo stesso tempo di mediatore fra educatore/insegnante e utente, catalizzatore dell’attenzione e modello comportamentale. Questi programmi hanno obiettivi specifici, che rientrano nell’ambito educativo, e vengono proposti e attuati dagli educatori e/o insegnanti in collaborazione con i conduttori e con professionisti della salute e del benessere animale. Le AAE sono proposti in ambiti scolastici e rivolti a soggetti in età scolare e prescolare. È possibile impostare programmi di AAE anche a prescindere dalla costante presenza fisica dell’animale, sebbene lo stimolo derivante da essa è spesso un fattore determinante per la loro buona riuscita, in quanto la presenza e l’interazione con l’animale favoriscono la focalizzazione dell’attenzione.

A questo punto della trattazione ritengo utile citare alcuni articoli della Carta Modena (2002) uno degli strumenti più conosciuti che tutela i principi della Pet Therapy, stilata con il patrocinio del Ministero della Salute, della Federazione Nazionale Ordine dei Medici Veterinari e tutti quegli enti che lavorano in questo settore.

Art. 1 – Si riconosce il debito ontologico dell’uomo nei confronti dell’alterità animale; in particolare si ribadisce la necessità di preservare tale referenza. Il rapporto con l’animale domestico costituisce un valore fondamentale per l’uomo e il processo di domesticazione da riconoscersi come patrimonio dell’umanità.” così cita il primo articolo del documento, aprendo poi a tutti gli altri articoli, più specifici.

Art. 5 Bioetica animale – Ogni progetto operativo deve riconoscere l’animale come paziente morale nel rispetto di alcuni interessi specifici e imprescindibili riferibili alla senzienza, al benessere, all’espressione delle preferenze, all’integrità genetica. L’animale non va considerato né in modo reificatorio né attraverso proiezione antropomorfica. Agli animali coinvolti nei progetti di Pet therapy dovrà essere assicurata una corretta tutela del benessere a fine carriera.”

Art. 9 Benessere animale – L’animale va mantenuto nelle condizioni compatibili con le sue caratteristiche fisiologiche e comportamentali e salvaguardato da qualunque trauma fisico e psichico. Deve poter usufruire di adeguati periodi di riposo e poter trarre benefici dall’attuazione dell’attività svolta”

Questo è importante per riflettere sul valore non solo del fruitore ma anche dell’animale coinvolto in questi progetti.

Andiamo a definire alcuni dei possibili campi di applicazione.

In particolare nell’infanzia, il cane interviene nella dimensione ludica che favorisce in terapia benefici indirizzati in modo particolare al bambino. Quando il bambino cresce, esiste un gioco dalla valenza simbolica, ovvero giocare portandosi dietro un giocattolo legato ad un filo. Infatti, quando il bambino impara a camminare, diventa consapevole del fatto che è in qualche modo, separato dalla madre, proiettando sul filo la propria separazione e quindi, cercando un compromesso tra la propria indipendenza, mediante il camminare e l’esplorare, e il rimanere legato alla madre, trascinandosi dietro l’oggetto legato. Il cane a differenza del giocattolo inanimato, mettendo alla prova il suo giovane padrone, tenderà a voler raggiungere la propria libertà correndo in avanti e indietro, a volte rallentando e lasciandosi trascinare: questa è la metafora dell’arduo compito della separazione. Nella Pet therapy, dunque, il cane ripresenta questo gioco simbolico, assumendo così un ruolo decisivo nel contributo al bambino. Il bambino così, mediante la relazione con l’animale, soprattutto tramite il gioco, apprende ad esprimere in modo sano le proprie emozioni e a regolare se stesso alle nuove situazioni, conoscendo ciò che lo circonda, sviluppando una propria gestualità, mettendo in atto nuovi meccanismi di relazione, apprendendo le regole sociali e soprattutto comunicando (Ballarini, 1995).

In ambito clinico si è visto come gli animali e in particolare il cane, siano degli ottimi assistenti terapeutici per i bambini con sindromi psicologiche. A tal proposito, gli psicologi Campbell e Katcher nel 1992, in una loro ricerca mostrarono come in un trattamento, condotto dal terapeuta mediante il supporto di un cane, bambini con gravi deficit cognitivi riuscissero ad avere incrementi dell’attenzione e delle interazioni nei confronti del cane e del terapeuta; alcuni di essi aggiunsero addirittura al loro vocabolario alcune parole nuove; ed acquisirono dei segnali comunicativi non verbali per richiamare l’attenzione del terapeuta a quattro zampe (Campbell, Katcher cit. in Ballarini, 1995).

Numerose ricerche hanno avvalorato come il supporto di un animale nel trattamento terapeutico stimoli lo sviluppo e l’arricchimento dei meccanismi di relazione del comportamento sociale, attraverso l’uso della comunicazione non verbale fra l’animale e il piccolo paziente. Infatti ciò che si dà per scontato in una comunicazione fra due esseri umani è proprio l’aspetto non verbale di essa, mentre assume un ruolo rilevante nel rapporto con l’animale, attraverso i gesti, le posture, le mimiche e gli atteggiamenti (Ballarini, 1995).

Un altro possibile intervento con il cane è negli anziani.

I programmi di AAA/AAT, tramite l’interazione e lo svolgimento di compiti elementari con cani selezionati e appositamente addestrati, consentono di mantenere o anche di sviluppare abilità utili a promuovere l’autonomia personale e il recupero dell’autostima attraverso la restituzione di un’immagine si sé come persona competente. I programmi di attività e di terapie assistite con gli animali rivolti ad anziani si svolgono prevalentemente presso case di riposo o centri diurni. Riflettendo sullo stato sociale ed emozionale di un anziano istituzionalizzato, ci si rende conto che depressione, emarginazione, senso di inutilità e impotenza spesso predominano. La debolezza fisica, la diminuzione delle possibilità di socializzazione e di contatto con l’ambiente esterno, i deficit della memoria e la lontananza dagli affetti limitano processi e azioni vitali, provocando nell’anziano una carenza, se non una totale privazione di affetto. Risentono dunque il distacco dai familiari e dalla propria casa in cui hanno vissuto la maggior parte della loro vita e questo comporta un senso di solitudine e abbandono; in aggiunta, si sentono disorientati per la perdita delle consuetudini dei punti di riferimento della vita quotidiana e si trovano costretti a riordinare e modificare le proprie abitudini (Pergolini, Reginella, 2009).

Gli anziani istituzionalizzati presentano quindi difficoltà di dialogo, sia all’interno del gruppo che con il personale di servizio; si chiudono in loro stessi; sono passivi, apatici e privi di motivazioni; sono spesso demotivati e poco collaborativi durante lo svolgersi delle attività di animazione come giochi di gruppo e lettura dei giornali. È in questi casi che la relazione con il cane si rivela particolarmente utile.

Fra i programmi che è possibile impostare all’interno di istituzioni che ospitano persone anziane vengono segnalate da Pergolini e Reginella (2009):

– AAT all’interno di percorsi riabilitativi motori. Accarezzare e coccolare un animale permette un effetto di rilassamento, anche a livello muscolare, ciò permette al fisioterapista di procedere ad una mobilizzazione degli arti meno dolorosa per il paziente. Spazzolare un animale o giocare con esso fornisce una valida motivazione a seguire esercizi e movimenti altrimenti noiosi o fastidiosi.

– AAE/AAT con pazienti affetti da demenza o di Alzheimer. Nel corso dello svolgimento di questi programmi, i pazienti vengono invitati a compiere semplici attività di relazione e cura dell’animale (ad esempio, accarezzarlo, spazzolarlo, offrigli cibo e acqua, portarlo a passeggio). Durante queste fasi è molto importante l’interazione con l’operatore e il conduttore dell’animale, i quali, attraverso il dialogo con il paziente, cercano di fargli verbalizzare le azioni compiute per mantenerlo in contatto con la realtà.

Per quanto riguarda gli interventi con il cane in situazioni di disabilità, la Pet therapy deve affiancarsi come co-terapia senza variare i programmi dei professionisti. Il criterio su cui si basa l’intervento di Pet therapy con disabili è impostato in modo tale che vi siano degli obiettivi specifici che si possono raggiungere in base alle esigenze del paziente che viene trattato. Tenendo conto della sua storia, della sua patologia, dell’età, del sesso, di quelli che sono gli altri interventi riabilitativi e educativi che il paziente svolge. (Del Negro, 2004)

Importante prestare attenzione all’ambiente in cui si intende svolgere un’attività. Non è difficile capire quanto sia importante che l’ambiente sia accogliente. Spesso invece i luoghi di terapia, gli ambulatori medici e i reparti di lungodegenza non lo sono. Il più delle volte sono stanze asettiche privi di colori, suoni e arredate solamente con le attrezzature per la terapia.

Dunque l’integrazione dell’animale può contribuire a rendere accogliente e stimolante il tempo trascorso.

Nel campo della disabilità, emergono anche progetti di Educazione assistita con gli animali in classi scolastiche con la presenza di una o più persone che presentano una qualche forma di disabilità. L’animale viene coinvolto in questo caso come catalizzatore dell’attenzione e mediatore relazionale, allo scopo di favorire l’integrazione nell’ambiente scolastico e nella classe di queste persone, attraverso l’influenza positiva che esso può avere sui processi cognitivi e di crescita di tutti gli alunni coinvolti nel progetto. Nel campo delle attività assistite con gli animali in situazioni di disabilità un nome importante è quello della Lega del Filo D’Oro, nata ad Osimo nel 1964 per merito dell’iniziativa di una persona sordo-cieca e di un gruppo di volontari sensibili alle necessità di persone pluriminorate. Difatti, l’associazione si occupa di assistere, educare, riabilitare e agevolare l’inserimento in società di persone sordo-cieche o con minorazioni plurime delle AAT con bambini con disabilità gravi. L’associazione esplica obiettivi specifici, che individua in: fisici, di salute mentale, educativi, motivazionali. Questi vengono perseguiti grazie alla collaborazione di esperti in diversi campi che entrano a far parte di un’equipe multi professionale e multidisciplinare (Pergolini, Reginella, 2009).

Conclusioni

Rispetto quanto spiegato, si può osservare l’esistenza di un potenziale referenziale insito nell’animale. Il legame affettivo tra l’uomo e il cane non solo può generare uno scambio empatico ma è anche un supporto alla salute della persona nel momento in cui ci sia una consapevolezza di aver di fronte a sé un essere diverso dalla propria specie (disposizione zooempatica) e quando tale incontro è motivato da un reciproco desiderio di conoscenza.

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http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_356_listaFile_itemName_0_file.pdf


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Ruolo, mansioni e competenze psicologiche delle tate Veronica Cicirelli

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La figura della tata è da decenni presente e fondamentale in molte famiglie, nonostante il suo lavoro spesso non venga considerato una vera e propria professione. La tata è una persona che si prende cura di bambini non suoi garantendo ai genitori attenzione verso il benessere generale dei loro piccoli. È un ruolo fondamentale nel panorama attuale, poiché madri e padri sono sempre più impegnati nel mondo del lavoro e non hanno il tempo e le possibilità di occuparsi dei propri figli, perciò devono delegare le loro mansioni di cura ad altre persone.

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Ruolo e mansioni

La figura della tata può avere delle valenze positive perché introduce nel mondo esperienziale del bambino un incontro “ravvicinato” con una persona diversa da quelle appartenenti al mondo “familiare”. In tal senso il “mondo esperienziale” e la sua personalità rappresentano per il bambino un’occasione di esperire una nuova relazione (e pertanto la possibilità di esperire nuovi affetti, nuove emozioni) che in quanto tale può risultare arricchente perché stimola il suo mondo esperienziale. Infatti, la presenza della tata “segna” l’assenza dei genitori ma al tempo stesso “la ripara”.

Breese e Gomer (2000) descrivono la tata di oggi come una persona che garantisce, nella cura dei bambini, che siano nutriti emotivamente, fisicamente e intellettualmente; è descritta come una persona che viene pagata per prendersi cura dei bisogni dei figli del suo datore di lavoro nell’abitazione della famiglia.

La bravura e la capacità della tata non possono certo cancellare il problema del distacco dalla mamma, tuttavia spesso il piccolo si affeziona intensamente a questa figura, specie se la mamma ha saputo presentargliela gradualmente come una persona amica. I vantaggi di avere una tata in famiglia sono diversi: 1) Un sostegno maggiore per i genitori, infatti gli orari degli asili spesso non permettono alle mamme e ai papà di organizzarsi a causa di tempi poco flessibili, mentre una tata può aiutare la famiglia allungando il proprio orario di lavoro su richiesta. 2) Un rapporto privilegiato con il bambino, infatti il piccolo riceve tutte le attenzioni su di se senza dover condividerle con altri bambini, questo crea un legame d’affetto e di fiducia tra i due. 3) Spesso i nonni svolgono la mansione di babysitter, ma il vantaggio di avere una tata è il fatto che non sia legata al piccolo da un vincolo affettivo così intenso quanto i nonni e riesce ad essere più razionale, meno emotiva e più obiettiva nell’accondiscendere o meno alle richieste dl bambino (Ferrari 2012).

Inoltre è stata messa in atto una ricerca da parte di due psicologi, Smith e Noble, che hanno osservato per svariati mesi un folto gruppo di bambini di circa un anno e mezzo e le loro tate. Questi due psicologi hanno dimostrato che sebbene i bambini preferissero la compagnia della madre, la maggior parte di loro, ovvero il 70%, si abituava rapidamente alla babysitter e si affezionavano molto a questa figura che diventava per loro un punto di riferimento. Il 20% dei bambini aveva bisogno di un tempo maggiore per abituarsi al cambiamento e solo il 10% rimaneva inquieto per tutto il periodo di tempo trascorso con la tata (Oliverio, Sarti 2005).

La tata ieri e oggi

Vediamo ora com’è nata questa figura e come si è evoluta nel tempo: fino agli inizi del 900 era abitudine nelle famiglie più agiate, affidare il neonato ad una balia, ovvero un’altra puerpera pagata affinché provvedesse all’allattamento e all’accudimento del bambino. Si trattava quindi di una sorta di madre surrogata a cui le signore di buona famiglia si rivolgevano per diversi motivi, come per evitare che l’allattamento avesse ripercussioni negative sull’aspetto del corpo delle madri oppure per il decesso, malattie o mancanza di latte delle madri. Un’altra figura come la balia che fa da antenata alla tata di oggi è la nutrice, i cui compiti cominciavano propriamente dopo lo svezzamento; le mansioni comprendevano la cura e l’educazione del bambino. Nel 18° secolo è nato il termine tata che strada facendo è diventato sempre più utilizzato andando a sostituire quello di balia e nutrice. Sebbene fosse abituale che le tate vivessero a casa dei datori di lavoro, esse avevano una loro sistemazione nel piano in cui c’erano le camere dei bambini; il piano diventava di proprietà della tata e doveva condividerlo solamente con i piccoli, le tate non pulivano, non cucinavano, non facevano la spesa o aprivano la porta, non dovevano far altro che occuparsi di tutto ciò che riguardasse i bambini. Fare la tata era vista come una vocazione; le tate facevano esperienza con l’andare e venire delle famiglie in cui lavoravano e da cui derivano grandi soddisfazioni dagli sviluppi del loro lavoro nel corso degli anni. (Menghetti, 2014). In Italia abbiamo dei documenti che testimoniano l’importanza di questa figura d’accudimento e le caratteristiche non solo fisiche come nel caso della balia, ma anche morali, con descrizioni minuziose e specifiche; infatti si credeva che la nutrice a stretto contatto con il bambino di cui si prendeva cura, potesse passargli i propri vizi e le proprie virtù, perciò era importante scegliere con grande attenzione la nutrice con le qualità necessarie per crescere ed educare i bambini (Toccoli, 1836).

Arrivando alla figura della tata oggi, esistono dei parallelismi interessanti tra le figure di accudimento del passato e quelle del presente, infatti spesso le dinamiche sociali e le necessità dei genitori sono le stesse a distanza di millenni e di secoli; per esempio come nel caso delle famiglie agiate Romane che sceglievano nutrici greche per insegnare la lingua greca ai loro figli, e richiedevano espressamente a queste ultime di parlare solamente la loro lingua con i piccoli, allo stesso modo oggi le tate madrelingua vengono scelte dalle famiglie per far apprendere ai propri figli un’altra lingua. È da notare come nel corso dei tempi le esigenze siano le stesse e si ripropongano certi processi educativi, come nel caso sociale delle balie che per necessità economiche a causa della povertà, erano costrette ad abbandonare la propria prole e a prendersi cura dei figli degli altri in altre città o addirittura altri Paesi, anche oggi la situazione è la medesima, infatti le donne dei paesi del terzo mondo o in generale quelli colpiti dalla povertà e da situazioni economiche in crisi, sono indotte a lavorare come tate nei paesi più ricchi in famiglie che possono pagare dei buoni stipendi da spedire a casa ai propri figli, i quali però sono destinati a non ricevere le cure materne a causa della lontananza.

Le competenze psicologiche

Le tate per eseguire al meglio il loro lavoro devono incrementare le loro competenze di carattere teorico, che potrebbero essere definite anche complessivamente culturali poiché riguardano le dimensioni culturali, sociali e psicologiche, le competenze tecniche ovvero quelle riferite ai campi di attività pratiche che svolge con i bambini, le competenze pedagogiche, le quali sono definite più correttamente anche interazionali poiché riguardano le capacità di gestire modalità operative riguardanti i processi di comunicazione, e le competenze gestionali.

Lo sviluppo della relazione con il bambino

Come ogni relazione anche quella tra la tata e il bambino ha un inizio e un continuo in cui si intrecciano gli investimenti emotivi dei due poli; a differenza di altri rapporti però, quello tra la tata e il bambino di cui si prende cura, ha sempre una fine, e ciò accade per diversi motivi, possono dipendere dalla famiglia, come per esempio il fatto che il bambino sia cresciuto e non abbia più bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui globalmente, oppure i genitori sono costretti a trovare un’alternativa alla tata come le scuole, i nonni o altre persone a cui affidare il piccolo; ma il distacco può dipendere anche da motivi personali della tata.

Per quanto riguarda il primo approccio quando la tata entra in contatto con il bambino, deve essere consapevole di dover entrare in punta di piedi nella vita del piccolo e di avere un ruolo soggetto a mutamenti rispetto ai suoi diversi bisogni. Durante i primi incontri la tata deve sapersi avvicinare al bambino senza invadere i suoi spazi e attendendo che sia lui stesso a concederglieli e ad accordargli le libertà che preferisce, in modo da permettere al bambino di abituarsi all’idea che una persona “nuova” entri a far parte della sua vita quotidianamente. È importante che inizialmente sia presente una figura di riferimento come un genitore o qualsiasi persona che il bambino riconosca come significativa. Con il tempo la tata stessa costituirà un punto di riferimento importante per il piccolo e per la sua costruzione dell’identità, con una particolare attenzione per l’acquisizione di competenze di tipo affettivo-emotivo e metacognitivo. Nel momento della prima conoscenza è importante che la tata rassicuri il bambino con la sua presenza, in particolar modo nei momenti di transizione quali l’addormentamento/risveglio e l’entrata/uscita in casa. È fondamentale che la tata non insista nel voler stabilire un contatto forzato con il bambino, processo che potrebbe essere comune a causa di inesperienza o ansia eccessiva, è sempre più utile non pretendere di conquistare il bambino nell’immediato, ma dargli del tempo per familiarizzare con la nuova figura di accudimento; questo perché il bambino non abbia l’impressione di essere abbandonato a tradimento dai genitori: in quel caso potrebbe sentirsi ingannato e avrà la tendenza a non fidarsi più quando si ritroverà nella stessa situazione (Catarsi, 2000).

La natura intima della relazione tra bambino e tata richiede una profonda esplorazione, infatti l’intimità del rapporto influisce sulla vita di entrambi; di fatto questa professione comprende una serie di mansioni e una varietà di compiti che concernono la vicinanza fisica ed emotiva, e ciò include anche il conoscere l’ambiente e il mondo del bambino, arrivando ad osservare e ricavare tutte le informazioni private e personali della famiglia. Nascono così i segreti, i riti e la routine tra tata e bambino, qualcosa che riguarda solo loro due, riconoscendo nell’altro i punti deboli e i punti di forza, e identificando la condivisione di memorie e ricordi comuni (Boris, Parrenas, 2010).

C’è un investimento emotivo non indifferente da parte di entrambe le parti, quella della tata e quella dei bambini di cui si prende cura; la tata viene a contatto con l’intimità delle famiglie e spesso queste lavoratrici vivono sotto lo stesso tetto della famiglia in cui lavorano, ma sono pagate per svolgere mansioni perciò non sono propriamente membri della famiglia nonostante vengano trattate come tali. Questa distinzione è difficile da mantenere poiché la posizione assunta dalla tata è complessa dal punto di vista relazionale, infatti i confini emotivi sono molto ambigui da comprendere, soprattutto per un bambino: anche se lavorano all’interno della famiglia, non sono familiari. Il loro lavoro è intrinsecamente personale a causa del contatto e del rapporto che instaurano con i membri della famiglia, ma è un rapporto in ogni caso asimmetrico, è un’intimità modellata dalla gerarchia del contesto sociale in cui spesso si confermano le differenze di razza, genere e classe. (Hondagneu, Sotelo, 2003).

La fine di un rapporto è sempre dolorosa in qualsiasi ambito, a maggior ragione se coinvolge dei bambini. Lo scopo fondamentale durante la fine della relazione tra tata e bambino è far vivere la situazione nel modo più sereno possibile ad entrambi, ma quando ciò non avviene i bambini reagiscono diversamente al distacco anche in base alle fasi di sviluppo. Dai 0 ai 3 anni per esempio i bambini registrano non tanto i contenuti, ma l’intensità emotiva. Le emozioni non elaborate tendono a manifestarsi attraverso il registro psicomotorio, ad esempio sintomi di malessere fisico, incubi, disturbi del sonno o inappetenza. I bambini dai 3 ai 6 anni sono in grado di utilizzare il registro linguistico e tendono a legarsi maggiormente. Tuttavia, non sono in grado di comprendere l’evento separativo. Possono sentirsi responsabili dell’accaduto, diventare molto introversi, oppure manifestare atteggiamenti di aggressività e ribellione. Dai 6 ai 10 anni si sviluppa una maggiore consapevolezza del fatto che la tata non può più seguirli ed accudirli ed è più difficile incorrere in conseguenze negative. Per non incorrere nelle conseguenze negative la comunicazione dell’allontanamento dovrebbe essere fatta dai due genitori insieme con la tata presente, a rimarcare che è salvaguardata la continuità del legame che c’è tra tutti gli attori della dinamica relazionale. Tale comunicazione deve avvenire quando i tempi sono maturi e pertanto quando la decisione è stata presa con certezza. Il sapere che è possibile parlare liberamente è il primo passo che consente al bambino di esprimere le proprie emozioni e all’adulto di riconoscerle e farle riconoscere. Il bambino deve sapere che la sua tata non ha cambiato il sentimento che prova nei suoi confronti, ma che ci sono dei cambiamenti in atto che lui deve accettare (McDonald, 2010).

La relazione con le figure genitoriali

La riorganizzazione delle famiglie odierne ha prodotto una grande richiesta di assistenza all’infanzia, e ciò sottintende la nascita di legami e rapporti che si vanno a creare non solo tra tata e bambino ma anche tra la tata e i genitori del bambino (Ehrenreich, 2004); questa relazione può avere diverse sfumature, positive o negative, e sta ad entrambe le parti scegliere come impostare ed equilibrare il rapporto, in funzione di un bene più grande, ovvero il benessere dei bambini.

I datori di lavoro spesso possono anche sentirsi particolarmente legati alle loro tate. La relazione altamente intima nata dalla condivisione di una routine quotidiana nella sfera privata della casa genera un legame emotivo e personale. Ciò rappresenta un indice positivo nel rapporto tra tate e famiglie nel momento in cui si riescono a mescolare culture diverse e a integrarle e apprezzarle a vicenda, mostrando ai bambini come sia possibile convivere con persone che nonostante non siano membri della famiglia, diventano “persone di famiglia” a tutti gli effetti. L’idea di base è che una madre è sempre una madre, non importa dove, come se il concetto di maternità fosse più legato alla natura che alla pratica culturale. Ciò non significa che madri e tate non notino alcuna differenza tra loro, ma si arrivano a considerare gli aspetti comuni dell’educazione piuttosto che sottolineare le potenziali differenze (Parreñas, 2001). Le madri datrici di lavoro che istituiscono un rapporto paritario con le loro tate, dando loro risorse adeguate e fiducia hanno ottenuto delle tate soddisfatte del loro posto di lavoro che tendono a non abbandonare il posto di lavoro; questo stile di gestione è definito “partnership management”, ovvero “gestione con collaborazione”, poiché il datore di lavoro gestisce la relazione con il lavoratore in modo egualitario e collaborativo. Pertanto il forte attaccamento ai bambini e alla famiglia può anche creare sentimenti di soddisfazione e ricompensa per la tata. Queste emozioni possono influenzare la tata in modi diversi, per esempio, sulla correttezza e la sincerità nella gestione del lavoro nel momento in cui deve lasciare l’incarico, infatti persone insoddisfatte e frustrate tendono a lasciare le famiglie senza preavviso inventando scuse e lasciando in seria difficoltà l’intero nucleo, mentre tate soddisfatte e gratificate dal rapporto con la famiglia tendono ad avvertire con grande preavviso poiché hanno la sicurezza di essere comprese e accolte nella loro decisione, qualsiasi sia il motivo dell’abbandono (Wharton, 2009).

Se quelli appena descritti sono aspetti funzionali della relazione, esistono anche delle dinamiche disfunzionali, infatti ci sono autori che attirano l’attenzione sui rischi della totale delegazione dei ruoli genitoriali a una tata live-in. Friedman (2010) correla questa situazione all’aspetto dei successivi disturbi della personalità del bambino. I ragazzi possono diventare adulti libertini, cercando di ottenere soddisfazioni immediate nei rapporti con le donne, in quanto crescono con l’impressione che ci sia sempre un’altra donna che soddisfi i propri bisogni (la tata live-in incarna questo concetto, suggerendo che la madre, e più tardi la moglie, non bastano). D’altra parte, le ragazze coinvolte e cresciute in questo sistema sentiranno un bisogno non soddisfatto di affetto che possono soddisfare nella vita adulta da alcool, droghe, sesso. Un modo per prevenire tali risultati disfunzionali è quello di garantire una solida valutazione professionale e anche una formazione standard secondo le competenze sia generali che specifiche. Ciò favorirebbe la costruzione di un ambiente educativo favorevole allo sviluppo di una personalità armoniosa del futuro adulto (Friedman, 2010). È utile citare anche il problema disfunzionale della gelosia, uno dei più frequenti nel rapporto tra madre e tata, infatti sostituendo i genitori in tutto e per tutto anche a livello affettivo, i bambini si affezionano molto alla loro tata, che è presente per loro tutto il giorno e tutti i giorni spesso per anni, gli anni dell’infanzia in cui si costruisce l’attaccamento. Spesso questo attaccamento tra bambino e tata genera una forte gelosia da parte dei genitori, soprattutto della madre, che vede il bambino adorare un’altra persona che non sia lei e impulsivamente non analizza realisticamente la situazione, ragionando sul fatto che sia inevitabile che il bambino vedendo continuamente questa figura diventi un riferimento importante nella sua vita, e non possa fare a meno di volerle bene. La gelosia è un sentimento del tutto normale, che la madre proverà, da qui in avanti, di fronte a ogni cambiamento nella vita del suo bambino. Prima sarà disposta a riconoscerlo, prima sarà più facile per lei lasciare che altre persone entrino positivamente nella sfera affettiva del figlio (Piccini, Bavestrello, 1996). Il triangolo madre, bambino e tata è ben più complesso di quanto possa sembrare. Perché la tata si inserisce in quello spazio psicologico, delicato e complesso, che è la relazione della diade madre-bambino. Del resto l’esperienza emotiva, relazionale ed esistenziale che suscitano la nascita e l’accudimento di un figlio, oltre che gioia è anche ansia, disorientamento, stanchezza, spesso solitudine. Un altro errore, quello più facile e a portata di mano, deriva dalla sperimentazione del sollievo che la madre riceve nel momento in cui interviene la tata. Con l’arrivo di quest’ultima, la madre si riprende un po’ di tempo per sé, per la casa e mentalmente si ritrae dall’area di caos emotivo in cui si era venuta a trovare. Il rischio in agguato è quello di “lasciarsi andare” e “fare uso” della tata, anziché come aiuto momentaneo, nell’accudimento del bambino (da effettuare sempre con la compartecipazione attiva della madre e sotto la sua guida e responsabilità), come un trasferimento di ruolo e di problemi. L’aiuto che la tata fornisce, infatti, può essere vissuto e usato dalla madre come una terapia che dà sollievo, alleggerisce dalle angosce e schiarisce il panorama caotico nel quale si trova a vivere. La tata diventa come una medicina, della quale più passa il tempo, più non riesce a farne a meno. Quando questa situazione si installa definitivamente all’interno della relazione, madre e figlio si allontanano fra loro sempre di più: il figlio cresce assieme alla tata e va avanti, distanziando la madre che rimane, invece, indietro. Quando ci si relaziona con un bambino, si ha a che fare con una grande mobilitazione di emotività, si accendono le inclinazioni materne e le affettività più primordiali, che ogni donna ha; tale esperienza, può attivare un meccanismo capace di indurre la tata alla propria destabilizzazione e ad agire acting-out difensivi (autolicenziamento, far nascere un bambino proprio o al contrario cominciare a prendere la pillola anticoncezionale). L’errore, invece più comune nel lavoro della tata consiste nel sostituirsi alla madre, sia perché sollecitata dalle richieste ed esigenze del bambino, sia per l’eventuale delega che la madre, in maniera invisibile, sottoscrive. Questi errori possono deteriorare il rapporto madre-figlio e la sfera affettivo-emotiva della tata (Mendicino, Ceccarelli, 2015).

Le competenze relazionali per la costruzione di una relazione sicura

La tata certamente deve fare i conti con le proprie emozioni durante la sua professione ma quando è con il bambino è necessario mantenere un certo controllo e impegnarsi nella regolazione di certi stati emotivi; infatti quando si prende cura dei bambini la tata deve essere confortante, amorevole e protettiva, nonostante possa capitare di essere irritati o ansiosi per situazioni personali, ciò non deve essere trasmesso al piccolo in nessun caso, poiché è un lavoro di grande responsabilità e i bambini assorbono le emozioni altrui in modo repentino. Esistono inoltre quattro livelli o aree di competenza (Camerini et al. 2011): 

1) il nurturing o nurturant caregiving, che include le risposte alle esigenze primarie fisiche ed alimentari ed è particolarmente importante nei caregiver di neonati e bambini piccoli; 

2) il material caregiving, che comprende il sostegno all’organizzazione e alla strutturazione dell’ambiente e del mondo fisico dei figli, che è rilevante in età precoci ma che resta, in modi diversi, estremamente importante per i genitori sia di adolescenti che di giovani adulti; 

3) il social caregiving, che racchiude i comportamenti messi in atto dai caregiver per stimolare la vita relazionale dei bambini, che supportano lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e richiedono maggiore attivazione in alcuni momenti di vita rispetto ad altri in cui è più utile una presenza non interferente; 

4) il didacting caregiving, che è un’abilità fondata sui comportamenti che incoraggiano la comprensione del proprio ambiente e che supportano lo sviluppo delle abilità di problem solving. 

Una delle prime funzioni delle tate, in quanto caregiver, chiamata in causa nello sviluppo è la funzione protettiva che include tutti quei comportamenti con cui si offrono cure in risposta ai bisogni di un bambino e, in modo particolare, al bisogno di protezione fisica e di sicurezza. Tale funzione si svolge sia attraverso la presenza fisica, visibile e osservabile dal bambino dentro casa, sia mediante la capacità di far sentire la propria esistenza e partecipazione alla vita dei piccoli, facilitando l’interazione di questi ultimi con il loro ambiente.  Di conseguenza, la capacità, da parte dei caregiver , di adempiere sufficientemente alla funzione protettiva genera quell’esperienza relazionale che è stata denominata da Bowlby (1988) “base sicura”, che è in grado di alimentare la capacità di fare affidamento sugli altri quando è necessario. La funzione affettiva della tata in quanto caregiver invece consiste nella capacità di strutturare il cosiddetto “mondo degli affetti” dei bambini conferendo ad esso una qualità emotiva dotata di emozioni prevalentemente positive nell’interazione con il mondo degli adulti con cui si intrecciano legami significativi. Se le tate sono in grado di vivere e condividere emozioni positive insieme ai bambini di cui si prendono cura, ciò contribuisce a costruire un mondo affettivo e relazionale sano intorno a questi ultimi. Inoltre, se manifestano coerenza tra affetti dichiarati e manifestati il risultato sarà lo sviluppo della capacità di “sintonizzazione affettiva”, o sana empatia, cioè di entrare in risonanza affettiva con le altre persone senza venirne contagiati o inglobati. Anche la cosiddetta funzione regolativa è molto importante e si riferisce alla stimolazione, nei bambini e nei ragazzi, di quella capacità di regolare i propri stati emotivi mettendo in atto delle risposte comportamentali adeguate. Tale abilità trova supporto evolutivo nella capacità delle figure di accudimento di fornire iniziali strategie per la cosiddetta “regolazione di stato”(Ammaniti, 2001).

Le competenze comunicative

Il bambino, per il suo sviluppo sano, ha bisogno di vivere quotidianamente situazioni comunicative che siano stimolanti, gratificanti e soprattutto chiare. Infatti, fin dalla nascita il bambino entra in contatto costante con i coetanei ed adulti, tra cui la tata, con la quale trascorre moltissimo tempo e con la quale stabilisce una relazione solida e significativa, comunicando regolarmente, trasferendole informazioni e ricevendole. La comunicazione è fondamentale per gli esseri viventi tanto che Paul Watzlawick, autore del libro “Pragmatica della comunicazione umana”, afferma che è “impossibile non comunicare” (Watzlawick et al., 1971). L’assioma appena descritto, rimanda a pensare ai bambini e a come quando ancora in fasce riescono ad esprimere i propri bisogni o emozioni anche senza conoscere la lingua di origine, ovvero il linguaggio adulto. È importante che la tata offra ai suoi bambini scambi comunicativi adeguati alla loro età, accrescendo in loro curiosità conoscitiva e relazionale.

Il primo passo, per approdare ad un buon intervento comunicativo è sicuramente quello di utilizzare nei confronti del piccolo un “ascolto attivo”, che consiste nel riflettere sul messaggio del bambino solamente recependolo, senza emettere messaggi personali. L’ascolto è fondamentale per divenire individui capaci di apprendere informazioni ed emettere messaggi appropriati alle situazioni. Non vi devono essere accavallamenti di voce o espressioni di dissenso, si ascolta per comprendere, in tal modo il bambino si sentirà accolto e libero di esprimersi. Ovviamente, alla fine si rende necessario un feedback da parte dell’adulto , su ciò che ha compreso e ascoltato. Questo tipo di comunicazione non crea ruoli up o down, si rende necessario quindi insegnare l’ascolto, tacendo ed ascoltando. Il silenzio viene inteso come spazio importante per sostenere l’altro e non come semplice pausa del linguaggio. L’ascolto attivo permette quindi la crescita e un buon sviluppo dell’autostima, favorendo anche una maggiore autonomia, è uno strumento che favorisce l’instaurarsi di un colloquio di comprensione e di chiarezza implementando un agire efficace. Spinge così l’interlocutore a parlare e a esprimere le proprie idee, i propri bisogni e necessità senza difficoltà, gettando così le basi per la costruzione di un rapporto solido e duraturo. I bambini sono spronati a chiarirsi sia cognitivamente che emotivamente su ciò che dicono, riuscendo a gestire situazioni di differente natura. Si può quindi continuare affermando che, l’ascolto attivo non si ferma alla ricezione e alla decodifica del messaggio, ma consta di un altro passaggio fondamentale quello che vede l’incoraggiamento e il supporto dell’adulto (Mastromarino, Colasanti, 1991). Un’ulteriore strategia, prevede l’utilizzo da parte della tata del “messaggio-io”: in questo caso la comunicazione adulto-bambino è basata sull’assenza della valutazione o giudizio, ma pone il bambino di fronte agli effetti e ai sentimenti che il suo atto procura negli altri. Utilizzando il messaggio- io la tata potrà riuscire a gestire una situazione faticosa. Si dovrebbe per tanto sostituire al messaggio-tu, che vede posto al centro dell’attenzione il bambino in modo giudicante, , il messaggio-io dove al centro vi è la tata con i suoi bisogni e le sue emozioni. Quindi il fulcro dell’attenzione non è più il bambino difficile, con il suo comportamento problematico, ma la tata con il suo mondo interiore. Utilizzando il messaggio-io la tata non ammonisce, al contrario si mette in gioco in prima persona, insegnando un nuovo modo di relazionarsi con l’altro. Vi è un’altra tecnica che favorisce lo sviluppo della comunicazione efficace “Il gioco senza perdenti” secondo il quale i conflitti vengono risolti senza che vi siano perdenti. Vengono per tanto rispettati i diritti di tutti senza la presenza di alcuna forma di sopraffazione. In un obiettivo primario si va ad identificare un obiettivo comune, tenendo in considerazione le risorse disponibili tra gli attori coinvolti, tutti partecipano alla risoluzione del conflitto, nessuno escluso. Il conflitto tata-bambino si risolve trovando una soluzione utile per entrambi. Ultimo passo per implementare un intervento comunicativo efficace è l’utilizzo del problem solving, indicato per risolvere controversie tra due o più persone (Boda, 2005).

Le competenze ludico-didattiche

È con il gioco che il bambino esprime realmente il suo “io” e tramite esso si può capire e ricevere importanti informazioni dal mondo infantile. È stata considerata un’attività poco importante o una perdita di tempo per diversi secoli. La svolta si è avuta verso il 1700 quando il bambino non viene più considerato un adulto in miniatura, ma un soggetto con una sua identità. Attraverso il gioco il bambino vive, infatti, l’adulto non dovrebbe mai sminuire questa attività tanto importante per i piccoli. Mai dovrebbe essere considerata una perdita di tempo ( Manz, Bracaliello, 2015).

La tata considerando l’importanza del gioco nella vita del bambino, deve sapere utilizzare e valorizzare al massimo la dimensione ludica, deve saper accogliere lo sviluppo infantile in tutti i suoi aspetti. Il gioco indirizzato dall’adulto o “guided play” può essere efficace nel promuovere l’apprendimento. Questo tipo di approccio prevede un apprendimento centrato sul bambino, che ha un ruolo centrale nella scelta delle attività; il gioco in questo caso è tuttavia introdotto e stimolato anche dall’adulto, che dà il via al processo didattico, stabilisce gli obiettivi e cerca di monitorare il procedimento, mantenendo l’attenzione sugli scopi stabiliti. La tata può fare domande aperte, esplorare i materiali da utilizzare durante il gioco, commentare le riflessioni o giocare assieme al bambino: questo tipo di apprendimento si distingue dal gioco libero (in cui il bambino sceglie scopi e attività autonomamente), ma anche dall’insegnamento diretto dall’adulto (che spiega in modo dominante di fronte al piccolo che ascolta passivamente). In generale, sembra che approcci caratterizzati dalla guida dell’adulto diano strategie di apprendimento più efficaci, ed esiti scolastici più positivi rispetto ad altri metodi, soprattutto in età prescolare. Il bambino infatti ha un ruolo attivo e sente di avere il controllo del processo, è più creativo e flessibile nell’apprendere, è coinvolto ed impegnato (Cera, 2009).

Le competenze educative

Una tata autorevole è consapevole dei propri diritti, ma anche dei propri doveri. Ogni caregiver ha diritto al rispetto e all’ubbidienza da parte dei bambini di cui si prende cura. Ma ha anche diritto ad autonome scelte educative che non possono e non devono essere condizionate dagli interventi esterni, se non in minima parte o quando le scelte educative sono in netto contrasto con quelle dei genitori del piccolo. Per quanto riguarda i doveri, ogni tata ha (Bray, 2010):

  • dovere alla linearità e alla coerenza tra ciò che dice e ciò che fa;

  • dovere di intraprendere insieme al bambino un cammino comune, lento, faticoso;

  • dovere di una posizione che non può essere allo stesso livello del bambino, giacché la necessità di essere ascoltati e ubbiditi gli impone comportamenti e atteggiamenti che non devono confonderlo con il piccolo.

La tata deve avere una grande forza interiore. Quando i caregiver hanno dentro di sé questa forza interiore, possono affrontare serenamente i problemi e soprattutto possono trasmetterla ai piccoli. Quando invece prevalgono la fragilità, la paura, l’inquietudine, l’emotività, l’autosvalutazione, per cui troppo spesso si pensa di commettere degli errori o di aver fallito, allora diventa veramente difficile essere caregiver ma anche trasmettere all’altro qualità che non si possiedono, caratteristiche che non si hanno. Una tata autorevole deve rispettare profondamente il bambino di cui si occupa e dovrebbe dargli un’equilibrata fiducia. Infatti sa rispettare, nel cammino verso la maturità e l’autonomia, la personalità e individualità, la libertà di giudizio del bambino. Non abusa della sua fiducia e credulità. Lo considera importante e ha stima di lui. Ha fiducia nelle sue capacità, possibilità e potenzialità. Al tempo stesso deve farsi rispettare. Il rispetto degli altri, soprattutto verso chi ha una funzione pedagogica e quindi di guida, è essenziale per una buona crescita educativa; quindi è necessario far rispettare il proprio ruolo, non ammettendo che sia canzonato o svilito, poiché ciò stimola il minore ad accettare i propri limiti e i ruoli che sono fondamento d’ogni vivere civile e quindi lo spinge ad impegnarsi e prepararsi ad assumere lui stesso un giorno un ruolo con maggiori onori ma anche con maggiori responsabilità. Un caregiver autorevole sa dare il giusto spazio alla libertà. Uno dei fini basilari dell’educazione è di fare del bambino un futuro uomo libero, cioè un individuo padrone di se stesso, capace di effettuare scelte consapevoli e di assumersi le responsabilità del suo stato, libero da condizionamenti, soprattutto interiori e quindi libero da complessi, traumi, conflitti all’interno della propria coscienza e del proprio Io; libero da un eccessivo orgoglio, dalla superbia, dall’egoismo; libero di realizzare i valori più alti dell’umanità. La tata deve saper dare norme e limiti chiari (Bray, 2010). Fornire un ambiente affidabile che dia regole equilibrate e limiti adeguati consentendo un’espressione emotive, aiuta il bimbo ad esprimere la propria indipendenza e autonomia adeguate all’età e può fornirgli esperienze congrue allo sviluppo e alla crescita (McHale, 2010).

La funzione normativa dei caregiver e perciò anche della tata riguarda la capacità di dare una “struttura di riferimento” e risponde al bisogno fondamentale di bambini e ragazzi di avere dei limiti per dare, attraverso essi, una coerenza e una struttura ai comportamenti e agli eventi con cui ci si confronta. La possibilità dei caregiver di assolvere a tale funzione deriva dal possesso di aspettative realistiche sui bambini sulla base della consapevolezza dei compiti evolutivi di una determinata età, ma si pone anche in rapporto con l’atteggiamento interiore degli adulti di fronte a norme, regole sociali ed istituzioni. 

È importante sapere che i bambini siano sempre affidati a persone competenti e capaci, che nonostante mettano la loro personalità e la loro individualità nel rapporto con i piccoli, possano integrare conoscenze e pratiche universali e necessarie al benessere di questi ultimi.

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La Dittatura del Conformismo

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Nei confronti di alcune tematiche “calde” e attuali è facile osservare che una qualche prospettiva di­viene spesso così diffusa tra la maggioranza da ri­sultare egemone e lasciare poco spazio ad altre in­terpretazioni, che sovente vengono ghettizzate se non addirittura criminalizzate. Tanto la cronaca quanto la storia sono piene di esempi di veri e propri arroccamenti di una parte dell’intellettuali­tà – con il placito di una maggioranza più o meno passiva – nei confronti di specifiche opinioni, che talvolta sono giunti a portare gli “eretici” sul rogo. Oggi per gli eretici (dal greco, αἱρετικός, [colui] che sceglie) la prassi non è più il rogo ma la cen­sura sotto forma di rimozione dai social, e la go­gna non è più fisica ma solo mediatica. Nondime­no la critica contro la dissidenza è spesso feroce. Come mai relativamente ad alcuni argomenti una così ampia maggioranza segue acriticamente il cosiddetto mainstream (letteralmente: flusso prin­cipale)?

La spiegazione abitualmente fornita da chi con­corda con la narrativa dominante è che essa è tale in quanto giusta. Argomentazione piuttosto fragile e autoreferenziale ma soprattutto, la storia ci inse­gna, fallace. Sappiamo dalle testimonianze del periodo che durante il Fascismo il regime godeva di un consenso ampiamente diffuso, spesso since­ro, anche se già alla vigilia della Liberazione era diventato difficile trovare chi si dichiarasse tale. E ben oltre i confini di una nazione era diffusa la convinzione che la razza bianca fosse superiore, nonché tra essa superiori i portatori dei geni “mi­gliori”. L’eugenetica non è stata invenzione tede­sca ed anche se solo i nazisti si sono spinti all’organizzato sterminio di nati deformi e malati di mente (prima di passare agli ebrei) le idee eu­genetiche erano condivise dalla maggior parte de­gli intellettuali europei e statunitensi. No, l’ampia diffusione di un’idea non è né logicamente né fat­tualmente dimostrazione della sua veridicità, e crederlo è in effetti piuttosto ingenuo.

Naturalmente l’obiezione neppure comporta che l’opinione della maggioranza sia tout court sba­gliata. In tutti i casi occorrerebbe un approfondi­mento critico e autonomo, che è esattamente ciò che manca e che viene anzi scoraggiato (“chi sei te per occuparti della tematica, che vuoi mai sa­perne?”). Ciò, unitamente alla potenza mediatica offerta dall’odierna tecnologia, favorisce l’affer­mazione di quello che, chi ne contesta l’intransi­genza nei confronti delle posizioni dissidenti, chiama “Pensiero Unico”. Ma quali sono i mecca­nismi psicologici che ne portano all’accettazione dalla cosiddetta “maggioranza silenziosa”? Riten­go che se ne possano individuare a più livelli ed in questo breve lavoro mi propongo di esporli.

Normopatia

La tendenza a conformarsi alla maggioranza, tra­scurando lo sviluppo di un autonomo pensiero cri­tico, è stata definita normopathy (normopatia) dalla psicanalista Joyce McDougall (1978). Chri­stopher Bollas la definisce “the numbing and eventual erasure of subjectivity” (1987, p.135). Mentre lo psicologo Enrique Guinsberg (2001, 49-50) definisce il normopatico come:

aquel que acepta pasivamente por principio todo lo que su cultura le señala como bueno, justo y correcto no animándose a cuestionar nada y muchas veces ni siquiera a pensar algo diferente, pero eso sí a juzgar críticamente a quienes lo hacen e incluso condenarlos o a aceptar que los condenen.

(colui che accetta passivamente per principio tutto ciò la sua cultura gli in­dica come buono, giusto e corretto, non incoraggiandosi a mettere in discussione nulla e spesso nemmeno a pensare qualcosa di diverso, ma giudicando criticamente coloro che invece lo fanno, giungendo a condannarli o ad accettare che siano condannati.)

Naturalmente gli autori citati ritengono patologico (normopatico) non la semplice concordanza con le opinioni egemoni, bensì l’acritico conformarsi che talvolta potrebbe esserne alla base. Lo psica­nalista Christophe Dejours (2000) paragona il concetto a quello, ben noto, di “banalità del male”, sviluppato dalla Arendt (1963). In Italia un parallelo potrebbe essere visto nelle idee esposte da Don Milani in “L’obbedienza non è più una virtù” (1965).

L’ipotesi, e la conseguente preoccupazione, che il conformismo possa trovare le sue origini in una personalità scarsamente sviluppata è chiaramente pertinente una visione psicologica che in modo al­largato potremmo definire umanistica e che attin­ge le sue origini in ciò che Jung chiamava Proces­so di Individuazione, ma che oggi, sia pure con termini diversi, troviamo trasversale a più orienta­menti. Si tratta di una preoccupazione chiaramen­te non peculiare alla prospettiva psichiatrica, or­ganicista, o a quegli orientamenti che identificano la patologia come uno scostamento dalla media o una mancata capacità adattiva, il cui consegui­mento è visto come principale, se non unico, obiettivo della terapia. Chi scrive tuttavia afferi­sce al primo gruppo e pertanto con coerenza si preoccupa dei rischi collaterali a un eccessivo conformismo.

Sulla normalità

Dobbiamo a Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, sia la nascita dell’Darwinismo sociale e dell’Eugenetica, che della biometria e della psico­metria. Mentre le prime sono almeno ufficialmen­te screditate e conseguentemente estinte, le secon­de godono di ottima salute e sono alla base, tra l’altro, dell’epidemiologia, della farmacologia, della diagnosi medica e di alcune discipline psico­logiche. Galton osservò che la curva di distribu­zione di probabilità individuata da Abraham de Moivre e resa celebre da Carl Friedrich Gauss (conosciuta come gaussiana in onore di quest’ulti­mo) oltre a descrivere la distribuzione di errori ca­suali (come studiato da Gauss) si prestava a de­scrivere la distribuzione dei più svariati fenomeni biologici e comportamentali, a partire dall’altezza di un gruppo di individui. Tanto che da allora tale distribuzione prende anche il nome di “Normale”.

Tali studi daranno ampio sviluppo alla statistica, fino a portarla oggi allla base delle discipline scientifiche, sia fisiche, che mediche, che sociali. Senza addentrarsi nei dettagli (comunque noti a chiunque abbia una laurea scientifica) basterà qui ricordare che si tratta di una distribuzione di pro­babilità (osservata, e pertanto attesa) della variabi­lità di fenomeni misurabili su scala continua, come appunto, a classico esempio, l’altezza di un gruppo di soggetti. Mi limito ad accennare che in virtù dei Teoremi del Limite Centrale la distribu­zione gaussiana può essere considerata la migliore approssimazione anche nello studio di altre distri­buzioni e che ad essa in psicometria vengono ricondotti, attraverso l’approssimazione continua di una scala Likert, anche valori che propriamente sarebbero discreti.

Ritengo che da quanto fin qui esposto si possano trarre alcune considerazioni inerenti il conformi­smo, a quanto mi risulta inedite. Innanzitutto l’adozione così estesa di un tale modello matema­tico ai più vari aspetti biologici e comportamentali implica che sia ritenuto una valida descrizione della realtà. Ovvero che i valori osservabili dei più svariati fenomeni effettivamente si concentra­no in larga maggioranza intorno ad un valore me­dio con differenze nei due estremi (di basso o alto; come pure di ritardo mentale o genialità; di mancata reazione o iper reazione ad un farmaco; e di molti altri esempi) sempre più minime al di­stanziarsi dal valore medio osservato, cioè “nor­male”. Ciò farebbe supporre che, similmente a migliaia di situazioni in cui si osserva così essere, anche la tendenza della maggioranza degli indivi­dui a conformare le opinioni ad una visione “nor­male” abbia in qualche modo della basi naturali.

Ne conseguirebbero due implicazioni. La prima deriva dalla spiegazione scientifica del perché vari fenomeni si distribuiscano in tale modo, che è di tipo evoluzionistico (non dimentichiamo che la biometria nasce da Galton): i valori medi sarebbe­ro i più adattivi alla specifica situazione ambienta­le e/o sociale ed aumenterebbero pertanto la fit­ness (il potenziale di sopravvivenza e riproduzio­ne) dei singoli individui; al contempo però con l’esistenza di soggetti che esprimono valori che si distaccano fortemente dalla media la specie si ga­rantirebbe una continuità nel caso in cui il conte­sto dovesse variare sensibilmente ed i valori più diffusi non rilevarsi pertanto più adattivi. Stando così le cose, in tempi normali la migliore risposta sarebbe il conformismo, ma in tempi eccezionali, o di emergenza, ciò potrebbe risultare deleterio e solo un’eventuale dissidenza potrebbe salvare dalla totale disfatta.

La seconda considerazione concerne invece l’implicito, e spesso inconscio, passaggio da mera constatazione di frequenza di un valore alla sua colorazione qualitativa. Complice ne sono certa­mente le plurime accezioni del termine “norma­le”, che oltre al significato statistico sopraesposto, ha quello di “conforme alla norma”, ma anche quello di “sano, giusto”. Accade quindi nella fatti­specie che da una neutra statistica descrittiva, pas­sando tramite una statistica inferenziale, quasi senza accorgersene si giunga ad identificare il va­lore medio osservato come quello desiderabile. Il paradosso tuttavia consiste nel fatto che se l’osservazione fosse effettuata in una società tutta malata, tale malattia da mera normalità statistica si ergerebbe a valore desiderabile; se una società praticasse abitualmente stupri o atti di pedofilia, tali atti oltre che diffusi rischierebbero di diventa­re normali anche nell’accezione di desiderabili; se una società fosse per lo più analfabeta, o magari analfabeta funzionale, come molti italiani sembra­no essere (Italiaindati, n.d), ciò potrebbe diventare anche segno di essere ben adattati.

Psicologia sociale e conformismo

Che le precedenti tesi offrano una valida chiave di lettura al fenomeno del conformismo, o meno, la psicologia sociale ci dimostra oltre ogni dubbio che il fenomeno del conformismo esiste ed è am­piamente diffuso. Tra i pionieri dello studio del fenomeno, lo psicologo Solomon Asch, condusse una serie di studi (1955) nei quali presentava ad un gruppo di soggetti 3 linee di diversa lunghezza chiedendo quale fosse uguale ad una quarta di ri­ferimento. La differenza tra le linee era sostanzia­le e facilmente riconosciuta dai soggetti nella si­tuazione di controllo. Nel gruppo sperimentale tuttavia alcuni partecipanti complici dello speri­mentatore indicavano come corrispondente una li­nea chiaramente diversa. A causa di questa pres­sione sociale ben il 36,8% dei soggetti dell’esperi­mento se preceduti da alcune affermazioni chiara­mente contrarie alla loro percezione capitolavano e concordavano con gli altri. Da questo ed altri primi studi sono seguiti decenni di esperimenti sul conformismo di cui sono pieni i manuali di psico­logia sociale.

Divertente e spunto di riflessione, per quanto non abbia certo gli standard di un’esperimento scienti­fico, è l’esperimento televisivo presentato da Jo­nah Berger della University of Pennsylvania per la trasmissione “Brain Games” della National Geograpic TV. Una paziente entra nella sala di at­tesa di un oculista, dove nove finti pazienti si al­zano in piedi al suono di una campanella. Già alla terza ripetizione e senza avere alcuna idea del per­ché il soggetto si conforma, alzandosi in piedi, ogni volta, anche quando è arrivato il turno di tutti gli altri finti pazienti ed è rimasta sola. Perfino ognuno dei quattro soggetti entrati successiva­mente, senza alcun contatto con il gruppo origina­rio dei finti pazienti, adottano a turno la stessa norma sociale. Per vedere la registrazione dell’esperimento televisivo è sufficiente digitare online “Conformity Waiting Room”.

Elaborare informazioni in modo approfondito ha un alto costo energetico, per questo talvolta imita­re gli altri senza pensarci a fondo può risultare conveniente. Si tratta di una scorciatoia mentale del tipo che la psicologia chiama “euristica”. Se­condo il modello di probabilità di elaborazione degli psicologi John Cacioppo e Richard Petty (1984) l’informazione ricevuta può essere elabo­rata tramite una via chiamata centrale, che appro­fondisce con cura tutti gli argomenti presentati; o tramite una via periferica che si ferma ad aspetti superficiali di semplice elaborazione (come la no­torietà della fonte, la piacevolezza di una coperti­na o altri aspetti marginali al messaggio). Poiché la prima via richiede grande impegno la seconda sarà preferita dai cosiddetti individui definiti sem­pre da Cacioppo e Petty (1982) con basso bisogno di cognizione (Need for cognition), soprattutto quando in presenza di bassa motivazione.

La cornice dei nostri pensieri

Anche chi si sforza di pensare con la propria testa resistendo ad ogni influenza dell’opinione altrui e si impegna in un’elaborazione approfondita dell’informazione non è tuttavia totalmente im­mune dalla tendenza a confluire verso un’opinio­ne comune. Questo perché ogni informazione as­sume il suo peculiare significato solo se inserita all’interno di quello che viene chiamato frame (cornice) che ne delimita l’ambito e i riferimenti. Occorre innanzitutto precisare che di teorie psico­sociali che utilizzano il termine “frame” ne esistono (almeno) due: quella che è valsa il nobel per l’economia allo psicologo Daniel Kahneman e quella nata dagli studi del sociologo Erving Goff­man.

La Teoria del Prospetto di Kahneman e Tversky (1979) si riferisce all’effetto (Framing Effect) che presentare la scelta tra due opzioni sottolineando­ne la possibilità di guadagno o focalizzandosi sul­la prospettiva di perdita ha sulla scelta effettuata. La Teoria del Frame (o Frame Analysis), svilup­pata a partire da un saggio di Goffman (1959), da successive sue opere e da altri autori, si riferisce ad uno schema di rappresentazione della realtà; ben definibile con le parole di Gitlin (1980): “Fra­mes are principles of selection, emphasis, and presentation composed of little tacit theories about what exists, what happens, and what mat­ters” (ivi, 6).

Potremmo sintetizzare affermando che inevitabil­mente abbiamo degli schemi di riferimento, alme­no in parte inconsapevoli, con cui attribuiamo un senso alla realtà; che una parte di essi è influenza­bile dal modo in cui l’informazione viene presen­tata; e che pertanto siano (gli schemi) e siamo (noi tutti) manipolabili. Lascio alle parole del politolo­go Robert Entman (1993) evidenziare la portata di ciò sulla libera formazione di opinioni:

[Framing] seems to raise radical doubts about democracy itself. If by shaping frames elites can determine the major manifestations of “true” public opinion that are available to government (via polls or voting), what can true public opinion be? How can even sincere democratic representatives respond correctly to public opinion when empirical evidence of it appears to be so malleable, so vulnerable to framing effects? (ivi, 57)

 

I paradigmi di Kuhn

Potremmo considerare come analoghi ai frame in ambito scientifico i paradigmi, ovvero delle visio­ni globali del mondo e della sua struttura condivi­se dalla comunità scientifica di riferimento, di cui scrive Thomas Samuel Kuhn in The Structure of Scientific Revolutions (1962), pietra miliare della moderna epistemologia (da tale lavoro deriva la locuzione “cambio di paradigma” entrata nel lin­guaggio comune). Kuhn evidenzia che durante la fase che lui chiama di “normal science” lo scien­ziato incontra sia molti dati che si confanno al pa­radigma adottato sia alcune “anomalies” che ten­ta di risolvere ed integrare nel paradigma. Si accumulano tuttavia anche alcune anomalie non spiegabili che lo scienziato “normale” tende ad ignorare. Per dare di conto delle anomalie tuttavia alcuni scienziati “rivoluzionari” sviluppano nuove teorie che la maggior parte dei colleghi rigetta come eretiche. Fintanto che la mole di anomalie non spiegabili dal paradigma adottato cresce al punto da non potere più essere ignorata e l’intera comunità è costretta ad una fase di “extraordinary scienceche porta all’adozione di un nuovo para­digma, e con esso all’inizio di un nuovo ciclo.

Kuhn individua nella storia della scienza moltissi­mi esempi di evoluzione scientifica secondo lo schema esposto. Inoltre per Kuhn due distinti pa­radigmi sono incommensurabili, giacché si basa­no su linguaggi diversi, attribuiscono diversa in­terpretazione ai dati, si fondano su diversi criteri di successo; né sono sottoponibili a verifica al di fuori del paradigma stesso, poiché Kuhn ritiene semplicemente impossibile costruire un metodo comparativo neutro. Non sarebbe pertanto il para­digma più “vero”, più corrispondente alla “real­tà”, o più “efficiente” ad imporsi; bensì quello che, sia su basi logiche, sia tramite aspetti socio­logici, sia grazie all’entusiasmo e le aspettative che è in grado di generare, ottiene il consenso di un sufficiente numero di scienziati.

In parole più semplici, la supposta oggettività scientifica non è epistemologicamente sussistente: ogni scienziato tende inevitabilmente a confron­tarsi con il paradigma dominante ed è spinto a conformarsi ad esso. Durante il Novecento la vi­sione positivista tardo-ottocentesca è stata confu­tata su più fronti ed è difficile comprendere come oggi i legittimi dubbi di cui una vera scienza è sempre portatrice abbiano troppo spesso lasciato posto ad una fede scientista.

Conclusioni

Come succintamente esposto, a più livelli di ana­lisi psicologica sono riscontrabili meccanismi su­scettibili di favorire il conformismo nei confronti di idee dominanti. Non è intento di questo scritto soffermarsi su come tali dinamiche naturali possa­no essere sfruttate da chi ne abbia intenzioni e competenze. Mi limito ad osservare che le inten­zioni, o comunque il desiderio, di manipolare le opinioni di una maggioranza di individui sono in­trinseche al concetto stesso di potere, che su ciò si basa. La storia dovrebbe insegnarci oltre ogni ragionevole dubbio che chi il potere lo detiene, o chi lo ambisce, non ha mai esitato – né pertanto esiste motivo di supporre che esiterebbe – a fare di tutto per indirizzare il consenso verso i suoi obiettivi. Quanto alle competenze, molta acqua sotto i ponti è scorsa dai tempi di Edward Bernays; “Psicologia della Persuasione” è da anni un esame comune tra i corsi di laurea in psicologia; e gli spin doctor sono da tempo figure professionali assai richieste.

Ne concludo che esiste una tendenza naturale a conformarsi verso l’opinione dominante, diffusa a livello di maggioranza della popolazione; che tale tendenza può essere artificialmente guidata; che ogni potere è intenzionato a tale manipolazione e che esistono professionisti a tal fine formati. Non sarebbe pertanto realistico aspettarsi che il confor­mismo non fosse ampiamente diffuso, né a livello sociale ritengo lecito immaginare che così non sia. Certamente nel tempo varia l’opinione cui esiste una tendenza a conformarsi – come nell’esempio iniziale del sostegno al Fascismo prima o dopo la sua caduta – ma ritengo che la tendenza alla conformità sia in sé inevitabile. Nondimeno a livello individuale il conformismo è tanto più forte quanto più è inconsapevole e de­cresce in proporzione allo sviluppo di un autono­mo pensiero critico.

Pensare criticamente; concentrarsi sull’approfondimento dei contenuti di un messag­gio in luogo che valutare il messaggio limitandosi alla supposta autorevolezza della fonte (errore lo­gico conosciuto come fallacia ab auctoritate, o authority bias); costruirsi una visione di insieme; richiede molto tempo, impegno e fatica. Nondi­meno ritengo che ne valga la pena e che oggi sia quantomai auspicabile.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Milani, L. (1965). L’obbedienza non è più una virtù. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

McDougall, J. (1978). Plea for a Measure of Abnormality. New York: International University Press.


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Il ciclo di autoregolazione del comportamento secondo Carver e Scheier

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Nella sua Enciclopedia della psicologia Galimberti (2007, 198) definisce il cognitivismo come una «corrente della psicologia contrapposta al comporta­mentismo, che concepisce la mente […] come un ela­boratore di informazioni attivo che di continuo verifi­ca la congruenza tra il proprio progetto comportamen­tale e le condizioni oggettive esistenti, filtrando le in­formazioni e autocorreggendosi come accade con i servomeccanismi di tipo cibernetico». Questa defini­zione coglie l’aspetto centrale della teoria del controllo di Carver e Scheier (1981; 1982; 1998 trad. it. 20041), che si focalizza sul tentativo di definire i meccanismi alla base del comportamento considerandolo come «conseguenza di un sistema di guida insito all’interno dei sistemi viventi» (Carver & Scheier 1998) re­golato a vari livelli da forme di retroazione positiva e negativa, da un sistemi gerarchico di scopi e da infor­mazioni in entrata e in uscita, le cui dinamiche struttu­rali e processuali definiscono le differenze individuali. Gli autori in un certo senso sviluppano il modello e le intuizioni di Miller, Galanter e Pribram (1960) circa la progettualità e pianificazione nel comportamento delle persone (cit. in Legrenzi 2012). Scopo del pre­sente lavoro è la presentazione della teoria.

Il modello fa parte della famiglia dei modelli moti­vazionali aspettativa-valore (Carver & Scheier cit.) che ha diversi esponenti (cfr. Atkinson 1964; Vroom 1964). Prendiamo a paradigma il modello di Atkinson (1964) che si focalizza sull’importanza dell’utilità soggettivamente attesa nelle scelte degli in­dividui formalizzata nell’equazione Ts= Ms x Ps x Is, in cui la tendenza al successo o a cimentarsi in un de­terminato compito (Ts) è uguale al prodotto del motivo al successo inteso come disposizione stabile (Ms), per la probabilità di successo (Ps) per l’incentivo rappre­sentato dal successo (cfr. Caprara & Gennaro, 1994). Il modello che verrà presentato considera sotto altro nome questi elementi e ne aggiunge altri, insieme alle relazioni che ne scaturiscono.

Tale teoria fa uso di un numero limitato di elementi per spiegare un’ampia varietà di fenomeni; le dinami­che tra gli elementi sono semplici e generano comples­sità; presenta valore euristico rispetto a diverse aree di intervento; sembra in grado di descrivere sia le transa­zioni tra individui che quelle tra individuo e situazio­ne, fornendo i parametri atti ad analizzare le conseguenze reciproche e dando adeguato peso alle esperienze emotive individuali, oltre i limiti di approc­ci strutturalisti2.

Struttura del modello di Carver e Scheier

Gli autori affermano che le discipline scientifi­che considerano i processi retroattivi come i mat­toni che costruiscono la natura, pertanto li consi­derano un punto di partenza adeguato per indaga­re il comportamento umano (cfr. Carver & Scheier 2012).

Verrà di seguito presentata la struttura del model­lo, costituita dal meccanismo di retroazione e da­gli elementi che lo strutturano rispetto al compor­tamento: gli scopi, il sé, le aspettative di risultato, l’affettività emergente dal processo applicato al comportamento.

La concezione di comportamento umano come ri­flesso di una gerarchia di processi di controllo (cfr. Powers 1973), viene utilizzata dagli autori come euristica concettuale nell’ambito degli studi in psicologia sociale e della personalità (Carver & Scheier 2012). I parametri rispetto ai quali definire la precisione di un sistema e la sua accu­ratezza di funzionamento sono ignorati (cfr. Car­ver & Scheier 1981) e il focus è posto sugli elementi più generali del comportamento come scopi, informazioni, aspettative ed affetto, sempre presenti nel comportamento umano (cfr. Carver & Scheier 1998).

Il sistema retroattivo

Il sistema retroattivo è un’entità legata ai concetti di informazione in entrata e in uscita, input, ouput, con­trollo (cfr. von Bertalanffy, 1968), e le azioni che met­te in atto.

Si può definire l’informazione come qualcosa che ridu­ce l’incertezza (Brody 1970). Può essere di tipo analo­gico (continua) o digitale (discreta) e costituisce la materia di cui è fatta l’interazione con la realtà a livello individuale e sociale. L’informazione in entrata (input) e quella in uscita (output) nell’individuo è integrata ed elaborata su più livelli. Nel comportamento umano un input può essere una rappresentazione mentale, la fun­zione di output rispecchia le condotte sia overt che co­vert (cfr. Carver & Scheier 1998).

Per controllo si intende la sequenzialità implicita in una serie di istruzioni, ognuna delle quali attende l’ese­cuzione di quella precedente ed è condizione da cui di­pende l’esecuzione della conseguente (Carver & Scheier 1981). La logica di funzionamento sotte­sa è lineare e stadiale, e si presenta su più livelli gene­rando complessità (vedi fig.1).

 

Per azione si intende una sequenza consapevole e deliberata di movimenti finalizzati al raggiungi­mento di uno scopo, svolta in base a un piano e controllata dall’attenzione esecutiva, idonea a ge­nerare specifici effetti sull’ambiente (Anolli 2012).

Un sistema retroattivo è costituito da più cicli di re­troazione composti da quattro elementi: l’input, il com­paratore (struttura che applica confronti), il valore di riferimento (termine di paragone con l’input), la fun­zione di output (Powers 1973). La logica di funziona­mento applicata è del tipo test-operate-test-exit (Mil­ler, Galanter, Pribram 1960): l’ingresso dell’input nel sistema elicita un confronto tra esso e il valore di rife­rimento (Test). Questo confronto può dare due esiti:i valori confrontati sono diversi oppure no. Nel primo caso l’ouput ha effetto sull’ambiente in concomitanza con altri elementi che possono agire in maniera favo­revole (riduzione) o sfavorevole (aumento) rispetto alla discrepanza. In assenza di essa (successivo Test) il sistema cessa di operare (Exit). Nel secondo caso sarà necessario un aggiustamento dell’output e l’avvio di un ciclo successivo. Al confronto segue una funzione di output (Operate) che agirà sui valori rilevati per con­formarli a quello di riferimento. Il sistema da questo punto di vista agisce intenzionalmente: il fine ricercato è la riduzione della discrepanza, e l’esito del tentativo dipende sia dall’output che da altri effettori presenti nell’ambiente (cfr Carver & Scheier 1998).

Il meccanismo appena descritto è definito ciclo di re­troazione negativa, contrapposto al ciclo di retroazio­ne positiva, con cui il sistema opera in direzione dell’aumento della discrepanza tra valore di riferimen­to e input (Carver & Scheier 1981).

Un sistema opera all’interno di un’organizzazio­ne ge­rarchica di sistemi interdipendenti in cui gli output di sistemi di ordine superiore costituiscono il valore di ri­ferimento per quelli di ordine inferiore (ivi), inoltre ognuno di essi opera in interdipendenza rispet­to a sistemi operanti sullo stesso livello il cui output modifica le condizioni ambientali (ivi, 58-60). Per­ciò la dinamica interna ad ogni ciclo si definisce in modo abbastanza complesso. Infine, possono esistere sistemi a cicli aperti, il cui output non è sottoposto al controllo delle conseguenze che produce, e sistemi pri­vi del valore di riferimento (Carver & Scheier 1999b). Nel presente lavoro tratterò perlopiù solo di sistemi chiusi a retroazione negativa, in una prospettiva ridu­zionistica sulla condotta umana.

Altri elementi che influenzano il funzionamento del ciclo sono la velocità di rilevamento degli errori (con­trollo serrato vs controllo lento), la latenza tra l’input e i suoi effetti sull’output, l’intermittenza di un ciclo, la possibilità che un ciclo costituisca la preazione antici­patoria per quello successivo (Carver & Scheier 1998).

Gli aspetti del controllo del processo, che include il monitoraggio degli esiti e dell’andamento del proces­so, sono legati ad aspetti come l’attenzione al sé, l’affettività, le aspettative (vedi oltre).

Gli scopi e gli standard

Il termine scopo definisce ciò che fino ad adesso abbiamo chiamato valore di riferimento, ovvero l’entità in confronto alla quale regoliamo i nostri comportamenti alla luce delle informazioni di ri­torno. È legato a doppio filo al sé, infatti questo definisce gli scopi che l’individuo si pone e questi di ritorno lo influenzano tramite gli esiti della condotta (cfr. Carver & Scheier 1998).

Specificazione ulteriore dello scopo risiede nei compiti scelti per raggiungerlo (contenuto) e nella qualità della prestazione (standard di prestazione, cfr. ivi): superare un esame di psico­logia all’università (contenuto) associa an­che il grado di impegno che esprimo nel farlo ri­spetto alla norma (standard di prestazione). Il ter­mine standard racchiude entrambi questi aspetti e può essere considerato come la rappresentazione attiva degli scopi e delle informazioni rilevanti ri­spetto ad essi presenti nella memoria di lavoro (fr. Carver & Scheier 1981). Nei prossimi pa­ragrafi mostrerò il sistema degli scopi rappresen­tati, la loro organizzazione e le dinamiche interne a questa.

Il sistema degli scopi è organizzato gerarchica­mente

Il sistema degli scopi è un’organizzazione di que­sti ultimi che implica reciproche interazioni sia a livello orizzontale (equivalenza/complementarie­tà) che a livello verticale (dipendenza) Differenze ulteriori possono riguardare la loro portata, la di­stanza temporale tra essi o infine diversa astrazio­ne (Carver & Scheier , 1998).

L’ordinamento globale è ipotizzato essere di ordi­ne gerarchico a partire da scopi maggiormente astratti e sovraordinati a scopi maggiormente con­creti e subordinati ai primi, in ordine: concetti di sistema, scopi del tipo essere (principi), scopi del tipo fare (programmi), scopi di controllo motorio (sequenze di comportamenti).

La prima classe riguarda idealizzazioni di sé, del­la società, della relazione di un gruppo e simili, ed influenza la classe immediatamente inferiore, quella dei principi, che contiene le qualità manife­state nel singolo atto (ad es. l’onestà, la responsa­bilità) per le quali gli individui dispongono gene­ralmente di termini di uso quotidiano (le etichette applicate ai comportamenti); la classe dei pro­grammi comprende corsi d’azione legati alla rea­lizzazione dei principi, da cui vengono influenzati circa scelte anteriori o simultanee al corso d’azio­ne intrapreso. Questi corsi di azione generale sono specificati al livello inferiore da sequenze di mo­vimenti specifici (scopi di controllo motorio).

L’intero processo di perseguimento dello scopo ti­picamente è implicito e automatico, con un certo grado di deliberazione nella scelta delle diverse strategie possibili a livello di programma (Carver & Scheier 1998). Pertanto il sistema degli scopi e il sistema di regolazione dell’attività in relazione agli scopi e il sé sono intimamente connessi, poichè parlare di scopi implica gli stan­dard relativi (vedi fig.2).

Fig.2: adattato da Carver e Scheier, 1994,

Dinamiche interne alla gerarchia degli scopi

Quali sono le dinamiche interne del sistema degli sco­pi? Possiamo considerare in che modo questa struttura funzioni rispetto all’azione da intraprendere.

Segue da quanto detto prima circa l’influenza tra scopi (a livello orizzontale e verticale), che il processo di esecuzione di un atto in vista di uno scopo di livello elevato consiste nell’esecuzione di atti di livello infe­riore relativi a scopi subordinati, secondo sequenze di attivazione a cascata (Ibidem). Come spiegare l’interdipendenza tra cicli retroattivi superiori e infe­riori?

Gli autori partono dalla teoria dell’identificazione dell’azione di Vallacher e Wegner (1987) secondo la quale ogni azione può essere identificata in vari modi a seconda del livello di identità riguardante le varie modalità di esecuzione: livelli superiori presentano o motivi sottostanti o effetti ricercati con l’azione stessa, o infine implicazioni ricercate riguardanti la sua ese­cuzione. Le persone avrebbero una tendenza a spostar­si verso livelli di identificazione (e quindi di regola­zione) elevati se sono in grado di mantenerli con suc­cesso, altrimenti in risposta alle difficoltà tenderebbero a spostarsi verso livelli inferiori di identificazione. Un esempio può essere la soluzione adottata da una perso­na che prova difficoltà ad andare in bicicletta, facendo uso di un supporto per mantenere l’equilibrio prima di acquisire la padronanza necessaria per farne a meno. Inoltre i vari scopi possono collocarsi a vari livelli di astrazione e gli atti possono avere significati molto di­versi a seconda di quello che l’atto serve a realizzare. Inoltre uno stesso scopo può essere servito da più azioni di livello inferiore (Carver & Scheier 1998). Pertanto un’azione può essere compresa solo alla luce degli scopi da essa perseguiti (ivi).

Altri elementi

Ora considereremo gli aspetti legati alla persona­lità che pongono il modello in relazione allo stu­dio del comportamento umano inteso come siste­ma chiuso secondo quanto detto fin ora. Il sé, le aspettative di riuscita e l’affettività sono gli ele­menti che ci permettono di applicare il modello alla condotta umana.

Il sé e l’attenzione rivolta ad esso

Gli autori affermano che gli studi di Cantor e Mi­schel (1977) sull’applicazione di schemi per la ca­tegorizzazione degli altri, e gli studi di Rogers (1977) sugli schemi concernenti il sé, avvalorino l’ipotesi che gli individui, oltre a possedere teorie implicite della personalità altrui posseggano an­che teorie implicite del sé (Carver & Scheier 1981). Questa è costituita da schemi at­tivati dall’attenzione rivolta al sé, che emerge da eventi corporei (es. attività fisica), dall’osserva­zione da parte degli altri, dal contatto oculare con l’altro e infine dalla autoconsapevolezza disposi­zionale (la tendenza individuale a prestare atten­zione su di sé) (ivi). Dal punto di vi­sta che ci interessa ci limitiamo a considerare il legame con gli scopi: se lo scopo è saliente per l’individuo l’attenzione rivolta al sé elicita la com­parazione tra lo standard e il comportamento at­tuale, e successivamente induce l’alterazione del comportamento perchè gli esiti vi si adeguino. Gli autori poggiano questa ipotesi sulla teoria di Du­val e Wicklund (1972) secondo la quale l’attenzio­ne ha natura bidirezionale e può essere indirizzata o sugli aspetti salienti dell’ambiente (subjective self-awareness) o sugli aspetti salienti del sé (ob­jective self-awareness): una focalizzazione esclu­de l’altra e domina le risorse attentive disponibili al momento (cfr. Vallacher 1978), e la ten­denza verso l’una o l’altra costituirebbe una base delle differenze individuali (Pervin 1996). L’attenzione al sé elicita un aumento dell’autore­golazione (Carver & Scheier 1982) per col­mare la discrepanza rispetto allo standard (Carver & Scheier 1981).

Rispetto agli ambiti in cui il tipo di focalizzazione emergente ha un ruolo, tra gli altri segnaliamo il conformismo, l’anticipazione dell’interazione, la relazione tra atteggiamenti, norme soggettive e comportamento (1998).

Aspettative di riuscita

Con l’interruzione del ciclo dell’azione conse­guenti a difficoltà nel raggiungere lo standard ap­paiono, in seguito all’acquisizione di informazioni rilevanti, le aspettative di riuscita (cfr. Carver & Scheier 1981). Esse si costruiscono da una base principale costituita dal locus of control individuale, l’esperienza passata riguardante situa­zioni simili, l’osservazione dell’esperienza altrui in compiti simili, la conoscenza della difficoltà del compito, e da determinanti minori come l’affatica­mento, l’umore e altre. Le aspettative possono es­sere più o meno specifiche e legate alla situazione (Carver & Scheier 1998, 186-187 225 ) ed eli­citano effetti sul comportamento e sulle risposte affettive (cfr. ivi).

Nel prossimo paragrafo verrà discusso di come all’interno delle dinamiche trattate fin ora emerga­no i processi emozionali individuali.

Affettività

Accanto al processo di monitoraggio, in paral­lelo agisce un secondo processo indipendente da esso definito di metamonitoraggio (Carver & Scheier , 1998), il cui input è la rapi­dità con cui le discrepanze vengono ridotte rispet­to al valore di riferimento e che elicita la compo­nente affettiva legata agli scopi, rispetto ai quali essa trova espressione in due modi: senso di attesa e affettività. Questa si dispone secondo l’asse positivo/negativo e rispecchia il progresso della riduzione della discrepanza in confronto allo standard previsto dal metasistema, sia nei cicli ne­gativi (approccio a un risultato) che positivi (evi­tamento di un risultato). Alla luce di ciò gli stati d’animo misti sono considerati derivanti da scopi agenti in simultanea sia evitati che perseguiti (cfr. ivi).

Il metaciclo assume, accanto a uno stato neu­tro, un certo grado di affettività positiva o negati­va corrispondenti rispettivamente ad una velocità di riduzione della discrepanza maggiore o minore rispetto al valore di riferimento del metaciclo (ivi), che dipende direttamente dallo sfor­zo impiegato per raggiungere lo scopo (Carver & Scheier 2012). Il suo funzionamento è in gran parte automatico, senza escludere sforzi con­sapevoli di regolazione dell’emozione (cfr. Bau­meister & Vohs, 2011). Gli standard pro­vengono dall’esterno, oppure sono auto-imposti o infine derivati dal confronto sociale, e possono variare nel corso del tempo e per mezzo dell’espe­rienza (per esempio acquisendo nuove competen­ze); alla gradualità o repentinità della riduzione è legata la maggiore intensità dell’emozione asso­ciata (cfr.Carver & Scheier 1990).

Gli autori rifiutano l’ipotesi che l’affetto derivi dal conseguimento degli scopi in sé, perchè essa da una parte non considera il tempo impiegato nel raggiungere gli scopi significativi (minore il tem­po, maggiore l’intensità dell’affetto corrisponden­te) e dall’altra non considera l’esperienza vissuta nel raggiungerli (Carver & Scheier 1998).

Altre influenze elicitanti affettività non sono trattate per ammissione esplicita degli autori (Car­ver & Scheier 1998).

Fin qui abbiamo brevemente visto quali sono gli elementi strutturanti il modello e quelli riguar­danti l’individuo, per la sua applicazione al com­portamento umano inteso riduttivisticamente come una gerarchia di sistemi chiusi a ciclo re­troattivo. Gli elementi strutturali (Comparatore, Standard) permettono l’innestarsi di cicli di fun­zionamento retroattivo che rispetto al comporta­mento umano implicano aspetti quali il sé e l’attenzione rivolta ad esso, le aspettative di riusci­ta e l’affettività emergente nel processo. Successi­vamente applicheremo il modello al comporta­mento umano considerando l’avvio del comporta­mento, l’autoregolazione, la persistenza e il disim­pegno.

Il comportamento alla luce del modello

Una volta definite le coordinate teoriche generali del modello, si hanno a disposizione gli elementi essenziali per la sua applicazione al comporta­mento. Verranno trattati l’avvio del comportamen­to e l’autoregolazione, la persistenza e il disimpe­gno nei corsi d’azione.

Avvio del comportamento e autoregola­zione

Sebbene alcuni autori considerino i modelli a con­trollo retroattivo non adeguati allo studio dell’autoregolazione del comportamento (cfr. Bau­meister 2011), questi consentono di indagare ciò che di peculiare caratterizza l’elaborazione dell’esperienza guardando alla mente come a un sistema informativo e organizzato in vista del mantenimento del proprio equilibrio e al persegui­mento di proprie mete per via di programmi di azione (cfr. Caprara, Gennaro 1999). Infat­ti, mentre l’avvio di un comportamento avviene in vista del raggiungimento o evitamento di uno sco­po (Carver & Scheier 1998), le modifiche nella condotta che avvengono nel corso del tempo rispetto a un obiettivo scelto e ai corsi di azione intrapresi a riguardo connotano dinamiche più complesse, che implicano motivazione e compor­tamento (cfr. Hoyle 2014). Il termine au­toregolazione ingloba questi processi, e può con­siderarsi tra i fattori essenziali che legano motiva­zione e cognizione all’azione (Gollwitzer 1996) e rispetto alle differenze individuali, queste sono espresse nei diversi livelli e modalità di controllo all’interno del proprio sistema di auto­regolazione (Pervin 1996).

Alla luce di quanto detto fin ora questi processi ri­guardano i diversi cicli di autoregolazione gerar­chicamente ordinati che perseguono scopi pro­gressivamente più elevati alla luce degli scopi propri di ogni ciclo, il cui output diviene l’input del ciclo inferiore. Nel momento in cui l’avvicina­mento allo scopo/standard per una causa qualsiasi viene interrotta, il ciclo si interrompe e subentra l’esame dell’ambiente mirante alla costruzione di un ‘aspettativa positiva o negativa circa la possibi­lità di raggiungerlo e se abbastanza positiva il ci­clo riprende, affiancato da un’emozione diretta­mente legata all’aspettativa di riuscita che elicita uno sforzo superiore legato alla sicurezza nell’ese­cuzione del compito. Il gradiente emotivo è deter­minato dalla velocità dei progressi dell’individuo nel raggiungere il più possibile lo standard di rife­rimento: maggiore è la velocità, più intensa sarà l’emozione positiva o negativa, rispettivamente in avvicinamento allo standard o in allontanamento da esso. Questo sistema di valutazione dei pro­gressi che avviene al livello di metaciclo, avviene in parallelo al loro monitoraggio nel ciclo di re­troazione (cfr. Carver & Scheier , 1998).

Applichiamolo al comportamento. Riprendiamo l’esempio della persona che vuole andare in bici e consideriamo solo un grado di profondità minimo rispetto a quanto ipotizzabile. Lo scopo primario del soggetto è guidare la bici in maniera soddisfa­cente (Scopo 3) direttamente dipendente dalla capacità di mantenere l’equilibrio in sella (Scopo 2), direttamente dipendente dalla capacità dell’individuo di pedalare con costanza e forza adeguata (Scopo 1). Al momento dell’avvio del tentativo relativo allo Scopo 1, in caso di caduta si ha l’emersione di un certo grado di emotività ne­gativa in relazione all’insuccesso e ad altri fattori. Se l’individuo si sente in grado di farcela perseve­ra , e i sistemi relativi allo scopo 2 e 3 modifiche­ranno l’output emesso raffinando la componente loro propria, ovvero “comunicano” al sistema 1, ad esempio, un valore di riferimento per la peda­lata più alto in modo tale da mantenere un equili­brio soddisfacente. Al secondo tentativo l’indivi­duo rimane un tempo maggiore in sella ma dopo un po’ cade di nuovo. Ora la consapevolezza (ri­torno dell’attenzione su di sé e deduzione di aspet­tative) di aver fatto progressi in direzione del suc­cesso (aspettativa positiva) elicitano emozioni po­sitive (“ce la sto facendo”) lo spingono a ritentare in virtù di una maggiore padronanza dell’azione (sicurezza nel compito): i sistemi 2 e 3 raffineran­no gli output (ovvero: aumenteranno i propri va­lori di riferimento) per adeguarsi ai progressi: l’individuo ritenta.

Persistenza e disimpegno in un compito

Il caso di cui sopra è un esempio di comporta­mento perseverante che, con il disimpegno, è og­getto del prossimo paragrafo.

Quanto detto circa le aspettative spiega la persi­stenza in uno specifico corso di azione alla luce della valutazione positiva dei risultati attesi: «Se […] sufficientemente positive, la persona torna a perseguire attivamente il suo scopo. Se […] suffi­cientemente negative, il risultato è un impulso a rinunciare a ulteriori tentativi e magari a rinuncia­re del tutto allo scopo»(Carver & Scheier 1998).Entrambi i casi rientrano nella funzione adat­tiva dell’autoregolazione (cfr. ivi).

Abbiamo visto inoltre che le aspettative si presen­tano assieme a un certo grado di focalizzazione sul sé, e sono legate sia a fattori di natura situazio­nale che al senso di sicurezza individuale nel compito. Il sé assieme alla componente della sicurezza nel compito ha un ruolo centrale rispetto alla perseveranza, infatti in presenza di aspettative sfavorevoli aumenta la tendenza a disimpegnarsi dallo scopo, ma in presenza di aspettative favore­voli e associato a un’ alta sicurezza nel compito promuove la persistenza (cfr. ivi), pertanto si può dire che la sicurezza circa l’esecu­zione del compito è centrale nel processo retroat­tivo alla base dell’impegno.

Passando al disimpegno, esso può manifestarsi come modi di cessazione del perseguimento dello scopo oppure con forme alternative di disimpegno mentale: pensieri digressivi, sogni a occhi aperti, ruminazione (episodi successivi di tentativi fru­strati), con effetti possibili sia utili (ad esempio il contenimento dell’ansia) che problematici (per esempio il deterioramento della prestazione) (ivi).

Tra i diversi modi di smettere di perseguire uno scopo gli autori indicano: il ridimensionamento degli scopi in presenza di aspettative di successo deboli che lascia aperta la strada verso scopi di li­vello superiore, la connessione tra scopi e situa­zioni problematiche; l’impossibilità di rinunciare a uno scopo interdipendente, il cui esempio può es­sere la presenza di una minaccia per la salute all’interno di un corso d’azione perseguito (cfr. Carver & Scheier 1998). Precisiamo che il disimpegno per gli autori non avviene defi­nitivamente: gli scopi sono in qualche modo per­manenti e mai effettivamente abbandonati, ed esercitanti la loro influenza in tempi successivi (cfr. ivi).

In questo capitolo abbiamo visto come il modello degli autori si adatti al comportamento umano considerando il comportamento umano alla luce del concetto di autoregolazione rispetto al compi­to e, in presenza di difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi, le possibilità della perseveranza nel raggiungimento dell’obiettivo oppure del di­simpegno rispetto a questo, considerando il ruolo della focalizzazione sul sé, delle aspettative di riu­scita e infine dell’affettività che scaturisce dal pro­cesso.

Ricerca sulle disfunzioni del processo autoregolatorio e sviluppi succesSivi

Quanto detto precedentemente riguarda l’applica­zione del modello al comportamento normale, che gli autori estendono alle diverse manifestazioni di esso come i comportamenti automatici (cfr. Bargh 1997), i fenomeni di facilitazione sociale, l’influenza delle aspettative di successo/insucces­so precodificate, l’ansia legata al compito, l’ansia sociale (cfr. 257). La sua applicazione a comportamenti disfunzionali sarà oggetto del pri­mo paragrafo, infine ne verranno considerati in breve gli sviluppi successivi.

Disfunzioni nel processo autoregolatorio

Gli autori presentano alcuni tipi di disregola­zione: disregolazione riguardante il ciclo regolati­vo; l’influenza di scopi che agiscono al di fuori della consapevolezza personale; l’influenza del senso di sicurezza/incertezza sull’impegno nel conseguire gli scopi e le conseguenze connesse; possibili interferenze tra sé e scopi (cfr. ivi). Vediamoli brevemente:

  • Processi di disregolazione che riguardano il ciclo retroattivo : tra questi annoveriamo il ricorso a feedback interpretati erronea­mente, come ad esempio la sistematica er­rata interpretazione delle informazioni di ritorno fornite dal nostro interlocutore nei diversi canali di comunicazione, e l’uso di informazioni pertinenti ma interpretate au­tomaticamente con la funzione principale di confermare le proprie aspettative;

  • Scopi che agiscono al di fuori della con­sapevolezza personale: la seconda catego­ria annovera gli scopi agenti sulle azioni al di fuori della consapevolezza della perso­na (cfr. Bargh 1997), per esem­pio la ripercussione dei modelli di attacca­mento costituitisi nell’infanzia sul compor­tamento adulto;

  • Senso di sicurezza/incertezza riguardo il conseguimento degli scopi: le problemati­che inerenti al senso di sicurezza e incer­tezza circa gli scopi da raggiungere riguar­dano l’uso automatico di aspettative preco­dificate, basate sulla simulazione mentale e sul confronto sociale, e fanno uso di in­formazione derivata dall’esperienza passa­ta. Aspettative procodificate ecccessiva­mente positive o negative possono portare da una parte a disimpegno prematuro , in­terferenze sulla prestazione con pensieri intrusivi connotati da autobiasimo, rumi­nazione, dall’altra un ottimismo ostinato e irrealistico. Queste eventualità secondo gli autori, possono essere prevenute cercando informazioni pertinenti alla situazione rea­le e considerare le proprie aspettative alla luce di queste . Dinamiche simili accadono nei fenomeni nell’ansia da esame e ansia sociale (Carver & Scheier 2008). Interessa notare come la ruminazio­ne possa essere considerata una forma di problem solving e riduzione delle discre­panze legata alla necessità di ridefi­nizione delle priorità, sebbene, quando sia indesiderata , renda emotivamente vulne­rabili (cfr. ivi);

  • Interferenze tra il sè e gli scopi: come af­fermato in precedenza, sussiste una rela­zione tra scopi, valori e principi di cui si compone il sé. Scopi di per se stessi poco profondi, ma legati a idee centrali di sé o valori molto radicati diventano scopi per i quali il disimpegno diventa molto difficile e in alcuni casi impossibile (ivi). Il legame tra il sé e gli scopi può correlarsi a disregolazione in presenza di conflitto tra scopi, assenza di collegamen­to tra livelli inferiori e superiori, oppure come una difficoltà di riorganizzazione del sé alla luce degli scopi e valori di riferi­mento perchè dolorosa, difficile e incerta negli esiti di adattamento a lungo termine (Carver & Scheier 1998);

Altre due fonti di disregolazione sono trattate a parte poiché entrambe connotano un abdicazione di livelli superiori di funzionamento a beneficio di quelli inferio­ri: sono i casi del diretto abbandono dei livelli superio­ri di funzionamento e della mancanza di consapevolez­za di questi. Li vediamo in breve:

  • Abbandono del controllo superiore e as­sunzione del controllo da parte dei livelli inferiori: questa eventualità si pone in pre­senza di diverse istanze: volontà di fug­gire da sé , deindividuazione, come parte di una strategia di risoluzione dei proble­mi, o infine come esito della difficoltà im­plicità nel mantenersi costantemente a li­velli elevati di funzionamento (ivi);

L’utilizzo strategico di alcolici per evitare di conside­rare situazioni spiacevoli della propria vita è un esem­pio di fuga da Sé. Questa forma di disimpegno menta­le non ha sempre successo e può portare a un immer­sione nell’esperienza a livelli inferiori, con lo scopo di ridurre, il senso di fallimento connesso (insuccesso au­toregolatorio). In casi più lievi porta all’interruzione del monitoraggio di valori e intenzioni, ed è correlata a disorganizzazione, impulsività e discontinuità del comportamento. Situazione simile si ha nel caso della deindividuazione (cfr. ivi).

Rispetto a quanto detto diversa è la situzione in cui il controllo viene delegato a livelli inferiori come forma di fronteggiamento in funzione adattiva. Gli autori de­scrivono questa eventualità come il modo per superare un momento di difficoltà nell’esecuzione di un’azione desiderata (ivi), che permette in futuro il ritor­no a un livello superioredi funzionamento. Pertanto anziché disimpegno più corretto sarebbe parlare di adattamento.

Infine menzioniamo il caso del mantenimento per tem­pi eccessivi un controllo di alto livello. Nel caso di scopi connessi a standard elevati la persona tende a in­vestire maggiore sforzo per adeguarvisi , portando a dispendio di risorse e alla maggiore possibilità di spe­rimentare sofferenza in presenza di difficoltà a rag­giungerli. In questo caso converrebbe applicare strate­gie di risoluzione dei problemi centrati su livelli infe­riori, in funzione adattiva (cfr. ivi).

Sviluppi successivi

La teoria in sviluppi successivi esplora i nessi e le analogie con la teoria dei sistemi dinamici detta anche teoria del caos (ad es. Nowak e Vallacher 1998) e la teoria delle catastrofi (ad es. Saunders 1980). La prima considera il funzionamento dei sistemi complessi alla luce di alcune caratteristi­che fondamentali proprie dei sistemi dinamici tra cui l’ignoranza circa la totalità dei fattori che in ogni momento agiscono sul sistema e la non li­nearità e interdipendenza delle relazioni tra varia­bili interne ed esterne, e la dipendenza degli esiti dalle condizioni iniziali del sistema che porta a una bassa correlazione tra percorsi successivi in­trapresi da esso (Carver & Scheier 1998). Vengono nel corso della trattazione introdotti altri concetti (effetto soglia, tetto, attrattore, spa­zio di fase etc.), che insieme ai primi, secondo gli autori, sono già presenti e studiati in psicologia, come per esempio l’effetto soglia nell’ambito della percezione, il concetto di attrattore come metafora degli scopi e le dinamiche motivazionali che na­scono nell’interazione tra diversi attrattori (ivi). La coscienza e il comportamento si definiscono in questa prospettiva in modi che non obbligano a ricercare spiegazioni lineari circa gli antecedenti della condotta, bensì nei termini di comportamento come movimenti (cambiamento di traiettoria) all’interno dello spazio di fase intor­no a diversi attrattori (scopi), soggetto a variazio­ni nel tempo e secondo diverso grado di automati­cità dipendente dalle risorse attentitive necessarie ad attuare il comportamento (cfr. Carver & Scheier 1998) quindi secondo un punto di vista non lineare. Circa la coscienza, essa entre­rebbe in azione in presenza di difficoltà nell’ese­cuzione del compito e quindi in relazione all’auto­maticità nell’esecuzione del compito. La teoria delle catastrofi, che viene presentata successiva­mente invece è un modello topologico che si con­centra sulla creazione di discontinuità e biforca­zioni (ivi), che fornisce supporto alle novi­tà presentate.

Ciò che interessa a questo punto non è tanto ad­dentrarci nelle diverse teorie, quanto l’applicazio­ne che gli autori suggeriscono di queste idee al comportamento. Gli esempi portati spaziano tra gli altri, nel campo della percezione, delle relazio­ni sentimentali, del contesto delle relazioni inter­gruppo, delle relazioni diadiche in generale, della persuasione, della ruminazione (ivi). Per quanto riguarda la psicoterapia, possia­mo considerare alla luce di tali sviluppi, come suo scopo principale il «portare la persona un mini­mum più vicino all’ottimale – a un nuovo attrattore […]in cui il problema trovi una soluzione miglio­re» (ivi), in altre parole a una destabilizza­zione del sistema su cui sia possibile innescare una riorganizzazione. Tale destabilizzazione av­viene per mezzo dell’investimento emotivo nel loro perseguimento così da rendere manifesto l’errore che portano con sé (insuccessi di adatta­mento ed errore nella predizione dei risultati delle transazioni) rispetto a un migliore adattamento possibile, per mezzo della psicoterapia stessa, che così promuove il potenziale di cambiamento. Le stesse dinamiche, sono applicabili alla crescita psicologica (cfr. ivi).

In questa parte abbiamo mostrato in che modo la teoria consideri alcune condotte disfunzionali le­gate alla ricerca degli obiettivi o ad un’autoregola­zione inefficace, abbiamo inoltre visto come gli autori abbiano integrato nel proprio modello gli apporti successivi della ricerca teorica in psicolo­gia sociale focalizzandoci sulla teoria dei sistemi dinamici.

CONCLUSIONE

In questa breve esposizione della teoria del con­trollo abbiamo considerato l’agire umano dal pun­to di vista dell’autoregolazione, intesa nei termini di processi che inglobano l’informazione riguardo al sé e gli scopi che l’individuo persegue disposti su diversi livelli di astrazione, interdipendenti e incapsulati gli uni negli altri. Questi forniscono sia gli scopi/standard delle condotte, sia le infor­mazioni a partire da cui gli esiti delle condotte vengono valutate. Se lo scopo viene conseguito il ciclo autoregolatorio si interrompe, emergono le aspettative e l’esperienza affettiva rispetto al risul­tato ricercato (avvicinamento o fuga da un esito), che assieme alla padronanza percepita rispetto al compito sotteso al suo raggiungimento, determina se l’individuo persisterà nell’impegno o si disim­pegnerà totalmente o parzialmente, in quest’ulti­mo caso prefiggendosi mete di livello inferiore o in chiave adattiva o abbandonandole. La prospet­tiva degli autori sugli ambiti dell’agire umano (in­dividuale e relazionale), si è evoluta nel corso del tempo per indagare adeguatamente le condotte fi­nalizzate funzionali e non, considerando anche aspetti propri della teoria dei sistemi e delle cata­strofi.

 

 

 

 

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1 Da ora in poi si farà riferimento all’edizione italiana tradotta

2 Per un’idea di tali approcci nell’ambito della ricerca sulla personalità, che considerano la personalità in prospettiva transattiva, si può consultare Franta 1982, 83 e sgg.


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Le tecniche di persuasione per trasformare dei giovani in cerca di identità in fanatici esaltati

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Il fanatismo

Il termine fanatismo indica un’esaltazione cieca e pericolosa (Arnold, Eysenck, Meili, 1986)

Per fanatismo si intende la devozione incondi­zionata a una qualsiasi idea o concezione. Il fana­tico è una sorta di ‘esaltato’, completamente privo di dubbi e di spirito critico, intollerante verso le idee degli altri e pronto a usare qualsiasi mezzo affinché si affermino le proprie. Le forme più pe­ricolose di fanatismo si sono prodotte in ambito religioso e politico” (Enciclopedia Treccani, www.treccani.it)

Inizialmente, il termine veniva usato in ambito re­ligioso per indicare uno stato di esaltazione misti­ca e pericolosa ispirata dalla divinità e che si esplicava principalmente all’interno del tempio (fanum). Dal XVIII secolo questo termine iniziò ad essere usato anche in ambito politico, delinean­do un tratto comune dei totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo, nazismo; que­ste ideologie hanno rappresentato l’espressione più laica del fanatismo “che ha sostituito gli ereti­ci e gli infedeli con i dissidenti, gli oppositori, i nemici di classe o di razza”. Esempio terrificante del fanatismo spinto sino alla follia è il tentativo nazista di cancellare l’intero popolo ebraico dalla faccia della Terra. Il fanatismo religioso e quello politico, nel loro ciclico alternarsi storico, hanno espresso ed esprimono ancora oggi, l’esasperazio­ne di un sentimento identificato negli eccessi e nella più rigida intolleranza nei confronti di chi sostenga idee diverse

Paradigmi teorici di riferimento

Il fenomeno del fanatismo nelle sue diverse mani­festazioni verrà ora affrontato e spiegato alla luce di alcuni dei principali modelli teorici della psico­logia sociale, il cui obiettivo consiste proprio nell’analisi dei comportamenti individuali e di gruppo alla luce dei contesti sociali di appartenen­za.

L’intrecciarsi di fattori intraindividuali, intragrup­po, intergruppo e culturale (Doise, 1989) rappre­senta dunque la focalizzazione con la quale si in­tende leggere il fenomeno del fanatismo e spie­garne la complessità.

A partire dalla teorie dell’identità sociale come componente essenziale del processo di formazio­ne dell’identità, verranno di seguito approfondite le dinamiche che caratterizzano la formazione e il funzionamento dei gruppi, a cui il fenomeno del fanatismo risulta inevitabilmente associato. Nello specifico si analizzeranno: il fenomeno della pola­rizzazione di gruppo e della chiusura cognitiva, che porta all’accentuazione delle differenze per­cettive, attributive e decisionali che caratterizzano la relazione tra l’ingroup (il proprio gruppo di ap­partenenza) e l’outgroup (il gruppo esterno a cui non si appartiene); il fenomeno dell’obbedienza all’autorità, a partire dallo storico esperimento di Milgram; il processo della deindividuazione, ossia perdita dell’identità personale, legato all’assun­zione rigida e acritica dei ruoli sociali assunti, an­che questo studiato a partire dall’esperimento di Zimbardo; gli studi classici e moderni sulla per­suasione e la manipolazione mentale.

Tali processi sono ritenuti essenziali per dare una cornice teorica esplicativa dei processi affiliativi alla base dell’adesione a movimenti politici e reli­giosi di stampo estremista e delle loro conseguen­ze.

La teoria dell’identità sociale e della categoriz­zazione di

La psicologia sociale è interessata primariamente a comprendere come l’esperienza umana (i pen­sieri, i sentimenti, i comportamenti) possa manife­starsi in contesti di interazione sociale. È in tale prospettiva che diventa possibile concettualizzare il Sè e l’identità come mediatori psicosociali, ov­vero processi che prendono forma durante l’inte­razione sociale e diventano guida delle successive interazioni sociali. Le nozioni di Sé e identità sono quindi espressione di quel processo di auto­conoscenza derivante dal complesso scambio tra fattori intraindividuali e ambiente sociale. È dun­que possibile definire il concetto di Sè come una rappresentazione cognitiva di se stessi che dà coe­renza e significato alla propria esperienza. Essa consente di organizzare le esperienze passate e permette di riconoscere e interpretare gli stimoli rilevanti del proprio ambiente sociale, ossia elaborare le informazioni relative al Sè presenti nelle esperienze sociali (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Oltre i contenuti che definiscono in modo specifi­co il concetto di Sè, va considerata la presenza di diverse componenti o aspetti di sé che vengono utilizzati per elaborare le informazioni sul Sè e che caratterizzano nel loro insieme la complessità del Sè, che può essere dunque definita come la funzione congiunta data dal numero di aspetti di sé e dal loro legame reciproco. Gli aspetti del sé possono riguardare le proprie caratteristiche fisi­che, i propri ruoli, le competenze, le preferenze, gli atteggiamenti, nonché le appartenenze a gruppi o categorie.

Una componente specifica del concetto di sè è rappresentata dall’identità sociale, ossia quella parte dell’identità personale che deriva dalla con­sapevolezza di appartenere a categorie o gruppi sociali, insieme al significato valutativo e al rilie­vo emozionale associato a tale appartenenza (Taj­fel, 1982). Tra gli effetti derivanti dall’identità so­ciale si riscontrano un innalzamento del senso di autostima e autocompiacimento, tanto più marca­to quanto più prestigiosa e desiderabile social­mente risulta tale appartenenza, una tendenza all’omologazione e all’uniformità intragruppo e una maggiore discriminazione intergruppi (tra in­group e outgroup) e altre forme di conflitti tra gruppi. Più nello specifico, la teoria dell’identità sociale propone che le persone, in quanto membri di un gruppo, hanno la tendenza a differenziare positivamente il proprio ingroup dagli outgroup rilevanti.

La teoria della categorizzazione di sé pone ancora più risalto alla distinzione tra identità personale e identità sociale. Mentre l’identità personale fa ri­ferimento alla definizione di sé come individuo unico a seguito di differenziazioni interpersonali o intragruppo, l’identità sociale definisce la defini­zione di sé come membro di un gruppo a seguito della differenziazione tra ingroup e outgroup (Turner, 1982, Turner, Hogg, Oakes, Reicher, We­thereli, 1987).

Un aspetto importante che viene sottolineato all’interno di tale teoria riguarda la salienza dell’identità, definita come la prontezza ad adotta­re una particolare identità (sia essa personale o so­ciale) e il grado in cui tale identità risulta signifi­cativa e centrale per la definizione di sé all’inter­no di un dato contesto sociale. Tale prontezza e centralità dipende dai valori degli individui, dal loro sistema di convinzioni, dalle loro motivazio­ni e scopi attuali, dalle loro esperienze precedenti e così via. Mentre un’identità personale saliente porta ad accentuare le differenze interpersonali e la coerenza intraindividuale, un’identità sociale saliente ha come effetto un aumento della perce­zione di sé come simile agli altri membri dell’ingroup e come differente dai membri dell’outgroup. Questi processi, definiti di deper­sonalizzazione, in caso di identità sociale saliente, e personalizzazione, in caso di identità personale saliente, sono alla base rispettivamente della pre­dominanza di comportamenti di gruppo o di com­portamenti individualistici. Il concetto di deperso­nalizzazione, che dunque indica il prevalere di una identità sociale rispetto all’identità personale, si distingue dal concetto di deindividuazione, di seguito descritto, che invece indica la perdita di identità (Zimbardo, 1969).

La polarizzazione di gruppo, il pensiero di grup­po e la chiusura cognitiva

La teoria della categorizzazione di sé, sopra de­scritta, permette di spiegare l’impatto dell’identi­ficazione con il gruppo sull’influenza sociale. Quest’ultima rappresenta quel processo attraverso il quale, in modo accidentale o deliberato, la pre­senza reale o implicita di altri individui o gruppi, influenza l’individuo nel modificare le proprie opinioni o modi di agire.

Secondo la teoria della categorizzazione di sé, nel momento in cui gli individui si identificano con un gruppo, con una forte prevalenza dell’identità sociale, aumenta la tendenza ad uniformarsi alla posizione prototipica del gruppo generando quella che viene chiamata influenza informativa referen­te. Tale posizione prototipica, a sua volta, massi­mizza da una parte le somiglianze tra i membri, dall’altra le differenze tra ingroup e outogroup (Hogg, Turner e Davidson 1990; Mackie, 1986). La tendenza ad uniformarsi al proprio gruppo di appartenenza, nasce dal bisogno di avere atteggia­menti coerenti con la propria identità sociale e ri­durre la sensazione soggettiva di incertezza relati­vamente ai propri comportamenti quando si avverte una discrepanza. Tale meccanismo di ri­duzione della discrepanza risulta anche centrale nel processo della dissonanza cognitiva a sua vol­ta utilizzato per rinforzare il legame con il gruppo di appartenenza (Festinger, 1959).

Un effetto dell’influenza sociale reciproca all’interno dei gruppi è noto con il nome di pola­rizzazione di gruppo, ossia la tendenza ad assu­mere posizioni che sono più estreme della media delle posizioni iniziali dei singoli membri, co­munque nella direzione già intrapresa dal gruppo (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Il fenomeno della polarizzazione di gruppo viene spiegato facendo riferimento a tre processi fonda­mentali. Il primo processo richiama il concetto di influenza informativa resa possibile dal ricorso ad argomentazioni persuasive in grado di favorire una risposta consensuale che rende più estremi gli atteggiamenti. La forza persuasiva delle argomen­tazioni e la loro ripetizione contribuisce in tal sen­so allo spostamento verso giudizi più estremi. Un secondo processo si basa sulla teoria del confron­to sociale formulata da Festinger già nel 1954. In questo caso la spiegazione, anziché fare ricorso all’impatto dell’influenza informativa, chiama in causa il verificarsi di un’influenza normativa. Se­condo questa teoria, i membri di un gruppo, con­frontandosi reciprocamente, avvertono il bisogno di sentirsi valutati positivamente e approvati e un modo per ottenere tale approvazione all’interno del gruppo è proprio quello di accentuare quelle risposte che siano ritenute socialmente desiderabi­li dal gruppo stesso. Un terzo processo, fa di nuo­vo riferimento al concetto di categorizzazione di sé. Pur ammettendo il peso delle argomentazioni persuasive, si tratta anche in questo caso di una spiegazione normativa che pone tuttavia l’accento non tanto sulle posizioni intragruppo (come nella teoria del confronto sociale) ma sul fatto che l’appartenenza al gruppo crei differenze tra l’ingroup e l’outgroup. La polarizzazione di grup­po si accentua dunque quando è presente un riferi­mento ad un gruppo esterno, con la tendenza degli atteggiamenti dei membri verso la norma di grup­po percepita, che porta a sua volta ad una defini­zione più positiva dell’ingroup rispetto all’out­group (Hogg, Turner e Davidson, 1990). In questo caso la norma del gruppo risulterebbe già in par­tenza più estrema della media delle norme indivi­duali e ciò risulta tanto più accentuato quanto più saliente è l’appartenenza al gruppo. Ad oggi si ri­tiene che entrambi i tipi di influenza, informativa e normativa, siano determinanti nel produrre una polarizzazione di gruppo in modo variabile a se­conda del contesto e della situazione. In tal senso la teoria della categorizzazione di sé riesce ad in­tegrare gli altri due approcci in quanto riconosce che le argomentazioni degli altri membri dell’ingroup saranno più persuasive di quelle dell’outgroup e riconosce anche l’impatto che es­sere a conoscenza della posizione dei membri del proprio gruppo possa spingere verso posizioni an­cora più estreme se ritenute desiderabili dal grup­po stesso (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Una forma estrema della polarizzazione di gruppo trova espressione nel pensiero di gruppo che rap­presenta la tendenza, soprattutto nei processi deci­sionali, da parte dei membri di un gruppo coeso, ad orientarsi in modo unanime perdendo di vista la ricchezza di posizioni alternative. Tale tendenza rispecchia in modo evidente quella forma di pen­siero convergente che sostiene la tendenza all’omologazione. Il pensiero di gruppo rappre­senta anche la forma estrema dell’influenza nor­mativa in cui la ricerca del consenso e della lealtà al gruppo risulta più importante dell’influenza in­formativa fondata sulla valutazione e l’accettazio­ne del messaggio persuasivo e rinforzando di con­seguenza la risposta di acquiescenza da parte dei membri. Alla base del pensiero di gruppo vi sa­rebbero dunque alta coesione, isolamento del gruppo, la presenza di un leader carismatico, la mancanza di scambio interno al gruppo, la pres­sione a raggiungere una posizione (Janis, 1982).

Fenomeni come la depersonalizzazione, la deindi­viduazione, il favoritismo verso l’ingroup, la po­larizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo pos­sono essere intesi anche come forme di centrismo di gruppo. Esso include una serie di atteggiamenti (opinioni, valutazioni affettive e comportamenti) che rispecchiano il significato e il valore che il gruppo ha per i suoi membri e che si caratterizza per una marcata ricerca di consensualità e omoge­neità interne, una tendenza al conservatorismo, la preferenza per una leadership forte e sentimenti positivi verso l’ingroup e negativi verso l’out­group. A suo rinforzo entra in gioco il bisogno di chiusura cognitiva che regola i processi di assimi­lazione e mantenimento delle conoscenze di un gruppo (Kruglanski 1989, 2004).

Nello specifico, a livello di formazione di cono­scenze, un alto livello di chiusura cognitiva, può determinare un incremento delle seguenti dimen­sioni del centrismo di gruppo: preferenza per l’uniformità piuttosto che per la differenziazione e pressione che ciascun membro esercita sugli altri verso l’uniformità; prevalenza di fenomeni di au­tocrazia (il potere è esercitato da una o poche per­sone); forte attaccamento all’ingroup e rifiuto di gruppi esterni. A livello del mantenimento delle conoscenze acquisite, un alto livello di chiusura cognitiva comporta un accrescimento delle se­guenti dimensione del centrismo di gruppo: rifiuto delle opinioni devianti che rappresentino una mi­naccia al consenso interno all’ingroup con conse­guente accettazione e valorizzazione di membri che si mostrino attivamente conformisti; rinforzo di atteggiamenti conservatori e opposizione verso quelli innovativi; tendenza a reprimere in modo ostile ogni forma di violazione normativa che possa minacciare la realtà socialmente condivisa e mantenimento delle norme di gruppo già consoli­date; promozione della lealtà verso la cultura del gruppo (Pierro, De Grada, Kruglanski e Mannetti, 2007).

L’obbedienza all’autorità

Nell’ambito degli studi sull’influenza sociale un contributo significativo è derivato dalla ricerca di Milgram (1963, 1974) sull’obbedienza all’autori­tà, in seguito riproposto per ulteriori manipolazio­ni delle variabili ritenute fondamentali (Blass, 1999; 2000; Miller, Collins e Brief, 1995). Tale studio, seppur sollevando critiche per alcune que­stioni etiche, ha avuto il merito di aver posto l’attenzione sulla complessità di quei processi che regolano la risposta ad un ordine proveniente da una persona di status sociale più elevato all’inter­no di una gerarchia definita. Milgram compì 18 studi, in ciascuno dei quali modificò volutamente alcune variabili per valutarne l’impatto sul livello di obbedienza. Nel primo di questi studi reclutò 40 partecipanti maschi con un annuncio in cui non si accennava alla questione dell’obbedienza. Nel contesto del laboratorio lo sperimentatore spiega­va ai soggetti che in modo casuale sarebbe stato assegnato loro il ruolo di insegnante o di allievo (in realtà l’allievo-vittima era sempre un complice dello sperimentatore). L’esperimento consisteva nella somministrazione da parte del soggetto nel ruolo di insegnante, di una scossa elettrica, di in­tensità crescente, all’allievo ogniqualvolta questi avesse risposto in modo errato in un compito di apprendimento, attraverso un finto generatore di corrente. Le risposte simulate della vittima segui­vano una sequenza predeterminata che esprimeva dolore in modo crescente al crescere dell’intensità delle scosse elettriche, così come erano stati ben categorizzati gli ordini che dava lo sperimentatore in modo da risultare sempre più forti e incisivi. Al termine di questo primo esperimento risultò che il 65% dei partecipanti, ossia 26 soggetti su 40 por­tò a termine l’esperimento mostrando un’obbe­dienza totale, una percentuale sorprendentemente superiore rispetto a quella riscontrata se i soggetti venivano lasciati liberi di decidere il livello della scossa da somministrare o venivano semplice­mente interpellati sulla previsione del loro com­portamento in quella situazione sperimentale, ma senza essere sottoposti all’esperimento.

Attraverso la manipolazione di alcune variabili chiave, Milgram riusci inoltre ad individuare in quali circostanze l’obbedienza risultasse più ele­vata. I fattori risultati più influenti furono: la lon­tananza della vittima; la vicinanza dello sperimen­tatore nelle vesti dell’autorità e la legittimazione della stessa; la pressione dei pari. Sebbene siano risultate influenti anche alcune caratteristiche di personalità dei soggetti partecipanti (persone con tendente autoritarie tenderebbero ad obbedire di più), tale protocollo di ricerca ha fonda­mentalmente sottolineato il ruolo e l’incidenza dei fattori situazionali nella messa in atto di compor­tamenti distruttivi e lesivi nei confronti di altre persone. Anche in questo caso risulterebbe deter­minante la presenza di una leadership forte e la pressione all’uniformità esercitata dai pari, soprat­tutto se agite in un contesto di ridotta libertà reale o percepita e l’altro possa essere considerato come lontano da sé fisicamente o simbolicamente in quanto appartenente a gruppi estranei. L’indu­zione di un ordine, sortirebbe inoltre, come sotto­linea lo stesso Milgram, un effetto di responsabili­tà diffusa, che se non elimina il senso di sofferen­za per quanto impartito ad una vittima, è comun­que in grado di ridurre la sottostante dissonanza cognitiva, derivante dall’agire in modo contrario ai propri valori.

La deindividuazione e gli effetti del potere su chi lo esercita

Un ulteriore tassello nella comprensione del com­portamento umano in contesti sociali è stato forni­to dal celebre esperimento compiuto nei sotterra­nei dell’università di Stanford in cui fu simulata una vera prigione (Haney, Banks e Zimbardo, 1973). A partire dall’obiettivo di confutare alcuni pregiudizi che caratterizzano la vita del carcere, gli autori strutturarono un pano di ricerca per stu­diare il comportamento messo in atto da persone non incriminate, né guardie professioniste, una volta calate in tali ruoli. I soggetti, reclutati tra volontari che avevano risposto ad un annuncio, furono dunque assegnati ad uno dei due ruoli con l’obiettivo di verificare se una tale situazione fos­se in grado di condizionare il comportamento di tali soggetti. L’esperimento, previsto per un tempo di due settimane, fu in realtà interrotto al sesto giorno per la gravità e la rigidità dei comporta­menti agiti dai partecipanti.

Coloro a cui fu assegnato il ruolo di prigionieri cominciarono a breve e in modo crescente a mani­festare un peggioramento dell’umore, depressioni, crisi di pianto, rabbia, dolori, ansia e la richiesta sempre più impellente di poter tornare a casa. Questa serie di reazioni, attraverso le quali la per­sona finiva per perdere il senso della sua identità personale, fu spiegata con il termine di deindivi­duazione.

Coloro che invece esercitavano il ruolo di guar­die, lasciati liberi di decidere e applicare qualun­que forma di disciplina ritenessero necessaria, co­minciarono in modo progressivo a far sempre più uso di forme di potere coercitivo verso i prigio­nieri, fino ad arrivare a delle vere e proprie forme di abuso. Con il passare del tempo il comporta­mento ingiurioso delle guardie tendeva ad accen­tuarsi e a persistere anche quando i prigionieri avevano smesso di reagire.

Alcune riflessioni furono tratte dall’esperimento circa l’uso e l’abuso del potere in situazioni di questo tipo. In primo luogo che l’accessibilità a strumenti di potere accentua la possibilità che si faccia ricorso al potere. Inoltre maggiore è il pote­re usato, maggiore è la convinzione di chi lo de­tiene di poter controllare le azioni della vittima. In condizioni di abuso di potere la vittima è fatta og­getto di svalutazione e tale processo di svalutazio­ne sembra accentuarsi nei casi in cui la vittima sembra non temere di essere punita o quando si mostra compiacente e ossequiosa, elementi questi ultimi interpretati come segnale di debolezza. La svalutazione della vittima aumenta anche all’aumentare della distanza sociale tra il detento­re del potere e la vittima. Infine un elemento di rinforzo al perpetrarsi di tale abuso di potere è an­che dato dall’accrescimento dell’autostima di co­lui che ha il potere, il che rende particolarmente difficile decidere di rinunciare a tale ruolo (Ger­gen e Gergen, 1990).

La comunicazione persuasiva

La persuasione è un processo comunicativo, stu­diato e codificato dai sofisti retori ed oratori già nella Grecia del V secolo avanti Cristo. Un velo­cissimo excursus permette di comprendere come il processo persuasivo della comunicazione abbia potuto attingere, nel corso dei secoli, da varie fon­ti di conoscenza iniziando probabilmente da Cora­ce, per poi complessizzarsi sempre più con Tisia, Gorgia, Lisia, Protagora, Antifonte, fino ad arriva­re a Platone ed Aristotele ed al mondo romano con Appio Claudio, Catone e Cicerone. Nel vente­simo secolo la persuasione diventa una necessità politica e sociale, uscendo dagli schemi accademi­ci o scolastici entrando in ambiti di studio e di ap­plicazione sempre più quotidiani e pragmatici.

L’avvento delle Guerre Mondiali ha fatto sì che fossero riutilizzati gli antichi strumenti comunica­tivi di retori e oratori in un ambito contemporaneo e decisamente più allargato socialmente: con la propaganda politica e militare molti governi del tempo iniziarono a stanziare fondi per la ricerca su un tipo di comunicazione che potesse modifi­care il pensiero e le motivazioni delle popolazio­ni. Negli anni ‘40 del 1900, il governo statuniten­se chiese a Carl Hovland, docente presso l’Uni­versità di Yale, di formare un gruppo di psicologi sociali che approfondissero in modo analitico i meccanismi mentali strettamente correlati con la comunicazione persuasiva. In quegli anni nacque un gruppo di studiosi ancora adesso ricordato come “Scuola di Yale” strettamente associata alla nascita delle moderne acquisizioni sulla persua­sione.

Secondo gli psicologi sociali della Scuola di Yale (Hovland, 1951, 1953, 1959; Janis, 1953), il cam­biamento di atteggiamento proprio della persua­sione, viene mediato dall’apprendimento e dal ri­cordo del contenuto del messaggio, a loro volta facilitati dagli incentivi ad adottare la posizione proposta. I primi studi sistematici sulla persuasio­ne suddividono il flusso di informazioni in classi: l’emittente, il messaggio, il canale comunicativo, il destinatario, il contesto comunicativo. Jerry Mc Guire (1968) ampliò lo studio dell’impatto persua­sivo di una comunicazione; secondo questo autore tale impatto può essere inteso come il prodotto di successive fasi dell’elaborazione dell’informazio­ne, il fallimento di una fase interrompe drastica­mente la sequenza rendendo inefficace il processo di cambiamento di atteggiamento. Le sei fasi fu­rono identificate così:

1) la presentazione (cioè la mera esposizione del messaggio),

2) l’attenzione (assenza di distrazione),

3) la comprensione ( linguaggio facilmente deco­dificabile dal destinatario),

4) il cedimento (accordo con l’emittente),

5) la ritenzione (cioè la memorizzazione del mes­saggio),

6) infine, l’azione (cambiamento conforme all’obiettivo comunicativo).

Da questi approcci iniziali alla cosiddetta “scienza della persuasione”, si passò velocemente a com­porre studi e progetti di ricerca su numerosi argo­menti, in particolar modo: quanti argomenti do­vesse contenere un messaggio persuasivo; quanto veloce dovesse essere un discorso persuasivo; in quale ordine dovessero essere posti gli argomenti di presentazione (effetto primacy ed effetto recen­cy)‏; in che modo usare la comunicazione non-ver­bale all’interno della comunicazione persuasiva; il peso dell’attendibilità della fonte o l’aspetto fisico del persuasore; l’efficacia dei messaggi intimida­tori (uso della paura); l’uso della ripetizione del messaggio.

Un cambio di paradigma importante, nello studio della persuasione si ha con Anthony Greenwald (1968), secondo il quale un messaggio persuasivo attiva nella nostra mente una sorta di discussione tra l’informazione entrante e le conoscenze pre­gresse; quanto più il messaggio ricevuto richiama pensieri favorevoli tanto più sarà persuasivo. Se­condo Greenwald quindi, la ricezione del messag­gio è mediata dai pensieri (le risposte cognitive) stimolati dalle informazioni stesse. Questa acqui­sizione poté aprire la strada alla comprensione di quanto la stimolazione di pensieri ed emozioni possa diventare strumento potente nel rag­giungimento dell’obiettivo persuasivo.

Un altro passo importante nello studio della per­suasione e del controllo mentale sono state le ri­cerche di Leon Festinger (1978, 2012). Secondo Festinger i processi mentali delle persone sono guidati dalla motivazione a ridurre gli stati di dis­sonanza cognitiva, che sarebbero per natura desta­bilizzanti. L’individuo mira alla coerenza con se stesso, la relazione di dissonanza tra due cogni­zioni (conoscenze, opinioni, credenze) o una co­gnizione e un comportamento, genera un disagio che spinge l’individuo a cercare di ristabilire la coerenza modificando l’elemento meno resistente del sistema: la dissonanza aumenta quando l’indi­viduo dopo aver messo atto un comportamento si trova a mutare atteggiamento verso quel compor­tamento. Poiché l’elemento meno resistente risul­terà essere l’atteggiamento, visto che il comporta­mento è già stato messo in atto, la dissonanza sarà ridotta cambiando i propri atteggiamenti nei con­fronti del comportamento; la dissonanza cognitiva funziona molto bene in situazioni non coercitive, nel momento in cui vi è costrizione fisica o vio­lenza fisica, essa non avrà l’effetto autopersuasivo conosciuto. In un classico esperimento di Festin­ger e Carlsmith (1959) veniva chiesto ai soggetti sperimentali di svolgere un compito molto noioso e poi di spiegare lo stesso compito al soggetto se­guente descrivendolo come molto interessante. Alcuni soggetti vennero pagati molto, mentre ad altri venne corrisposta una cifra molto bassa. Il ri­sultato fu che i soggetti pagati insufficientemente descrissero il compito come interessante più di quelli pagati molto; una spiegazione data fu che, in chi era stato ben pagato, la dissonanza cogniti­va prodotta dal compito noioso e dalla descrizione non vera fu risolta meglio di chi non era stato ade­guatamente pagato. Se la ricompensa economica alta fornì una giustificazione a dichiarare il falso, ciò non fu possibile per chi non la ricevette e che per ricreare coerenza decise di cambiare atteggia­mento verso il compito. Un’altra spiegazione la fornì Daryl Bem (1967), il quale affermò che spesso gli individui non sono a conoscenza dei propri atteggiamenti e cercano così di identificarli cogliendo elementi esterni da sé, come se fossero nella posizione di osservatori esterni. In sostanza, la conoscenza dei propri at­teggiamenti deriverebbe da ricordi di esperienze passate.

Un ulteriore quadro teorico aiuta a spiegare il pro­cesso persuasivo sottostante al comportamento sociale che più semplicemente chiamiamo fanati­smo. Richard Petty e John Cacioppo (1986, 1996) focalizzarono i loro studi sulle capacità e la moti­vazione che gli individui mettono in atto nell’ela­borare le informazioni che ricevono. Secondo i due psicologi sociali la qualità e la quantità dell’attività cognitiva che ogni persona dedica ad un messaggio persuasivo ha un’influenza rilevante sul processo di persuasione.

Petty e Cacioppo presero in considerazione due processi comunicativi, in particolare: la via cen­trale e la via periferica. Attraverso la “via centra­le” l’individuo valuta in maniera attenta e con concentrazione il peso reale dell’informazione fa­cendo attenzione al contenuto del messaggio per­suasivo. Per “via periferica” si intende l’applica­zione di processi a basso sforzo cognitivo come il condizionamento, l’identificazione, le euristiche, prestando poca attenzione al contenuto. Seguendo questo filone di studi e, soprattutto, quelli di Shel­ley Chaiken sulle euristiche (Chaiken, Wood, Eagly, 1996), Robert Cialdini (1999) fissò delle cornici teoriche importanti sul piano operativo. Questo psicologo sociale, studiò molti degli espe­rimenti fatti nei decenni precedenti alla luce del modello euristico sistematico della Chaiken e di quello dell’elaborazione sistematica di Petty e Ca­cioppo, evidenziando l’importanza che le euristi­che cognitive assumono nelle decisioni degli esse­ri umani. Le euristiche sono strategie cognitive, scorciatoie di pensiero che permettono alle perso­ne di emettere giudizi sociali molto rapidamente, ricavare inferenze dal contesto, attribuire signifi­cato alle situazioni e prendere decisioni a fronte di problemi complessi o di informazioni incomplete. Cialdini notò che pur funzionando bene nella maggior parte delle circostanze quotidiane, le eu­ristiche, in certi casi, possono portare ad errori si­stematici. Secondo la Chaiken, e così anche per Cialdini, ad alti livelli di motivazione e capacità, prevale negli individui l’uso della modalità siste­matica con attenta analisi del contenuto comuni­cativo, anche se si continua ad usare in forma mi­nore l’euristica; mentre a bassi livelli di motiva­zione e capacità di elaborazione del messaggio, prevarrà l’uso della modalità euristica. Ciò signifi­ca che nel processo persuasivo e di manipolazione mentale si possono ottenere risultati positivi creando situazioni di basso coinvolgimento cogni­tivo e bassa motivazione (per esempio con l’uso della paura o stimolando nell’individuo il senso di urgenza): la vittima tenderà a rispondere in auto­matico seguendo la modalità euristica, tale rispo­sta sarà quindi facilmente prevedibile.

Cialdini individuò anche alcuni principi all’inter­no dei quali ci si possa aspettare tale prevedibilità (Cialdini, 2005, 2009):

  1. la reciprocità; quando qualcuno fa un re­galo ad un altro, che sia un dono o un fa­vore, si aspetterà qualcosa in cambio (dall’altra parte, il beneficiario si sentirà consapevolmente o inconsapevolmente in dovere di ricambiare). Il principio di reci­procità può essere ritrovato nei processi di affiliazione: dove non c’è reciprocità i le­gami sono poco stabili perché si crea un basso livello di soddisfazione.

  2. Impegno-coerenza; dopo aver preso una posizione, una persona tenderà ad accon­sentire a richieste di comportamento che siano coerenti con quella posizione.

  3. Secondo la prova sociale una persona ten­derà ad acconsentire ad una richiesta nella misura in cui altre persone simili lo hanno fatto o lo stanno facendo. La prova sociale è considerata prova di verità.

  4. Nel principio di autorità, l’euristica deri­vante è che una persona tenderà a seguire i suggerimenti di una autorità che considera legittima. Esempi importanti sono gli esperimenti di Milgram e Zimbardo citati precedentemente

  5. Amicizia-simpatia; una persona tenderà ad acconsentire alle richieste fatte da amici o da altre persone gradite.

  6. Nel principio di scarsità ritroviamo come euristica sottostante, il concetto che le per­sone cercano di assicurarsi le occasioni che scarseggiano. La scarsità aumenta il desiderio di qualcosa perché opera una re­strizione alla libertà di poterla avere, ri­chiamando gli studi di Brehm sulla reat­tanza psicologica. La reattanza psicologica è quella reazione che ogni individuo ha nei confronti di una restrizione (vera o presun­ta) della libertà personale (Brehm, 1966, 1989; Brehm & Brehm, 1981).

I processi affiliativi e la loro estremizzazione

Dopo aver preso in esame alcuni dei principali processi che regolano le relazioni interpersonali e in modo ancor più preciso il funzionamento dei gruppi e gli aspetti che caratterizzano la comuni­cazione persuasiva, verrà di seguito proposta una riflessione su come essi possano entrare in gioco nell’influenzare l’affiliazione dei membri ad un nuovo gruppo. Molti dei principali modelli teorici sono stati elaborati per spiegare i processi di con­versione a gruppi religiosi anche estremi e devianti rispetto alla società di riferimento, ma i loro principi possono essere generalizzati anche ad altre tipologie di gruppi aventi la medesima ca­ratteristica di presentarsi in contrasto con l’ideolo­gia dominante.

Uno dei modelli classici di riferimento è stato quello di Lofland e Stark (1965), in seguito ripre­so da diversi autori e che sottolinea come alla base del processo affiliativo vi siano sia predispo­sizioni personali che fattori situazionali. Tra i primi si fa riferimento alla presenza di uno stato interno di tensione, la tendenza a cercare risposte ai problemi anche in modo trascendentale, la percezione di sé come cercatore di un credo di­verso da quello convenzionale. Tra i fattori situa­zionali si trovano l’incontro con un membro del gruppo in un momento cruciale e critico della pro­pria vita, lo sviluppo di legami affettivi con gli al­tri membri del gruppo, l’indebolimento dei legami affettivi con le persone esterne fino a quel mo­mento frequentate, una interazione intesa e signi­ficativa all’interno del gruppo.

A tal proposito, anche Zimbardo e Harley (1985) a seguito di una loro ricerca, hanno sottolineato che la decisione di affiliarsi ad un gruppo sia il frutto di una complessa interazione che include, tra i diversi fattori, la conoscenza preliminare del­la realtà rappresentata dal gruppo, i valori perso­nali, l’impatto delle tecniche di reclutamento, il setting in cui avviene il contatto, e in modo parti­colare la trasformazione cognitiva e l’esperienza affettiva associata.

Come frutto di un lavoro di ricerca, Buxant e Sa­roglou, (2008) evidenziano che le persone che tendono ad affiliarsi a gruppi alternativi tendono a mettere meno in discussione le loro credenze, ad essere più sottomesse all’autorità, ad essere meno autonomi e ad abbracciare valori relativi all’ordi­ne sociale, tutte caratteristiche già considerate come tipiche del centrismo di gruppo, caratteriz­zato da un alto livello di chiusura cognitiva.

Una visione integrata dei processi che regolano l’affiliazione dei membri a gruppi non convenzio­nali, e per quanto ci riguarda anche estremi è for­nita da Rambo (1993), che attraverso un’analisi approfondita dei diversi stadi ribadisce ancora una volta la complessa relazione che intercorre tra fat­tori personali e situazionali in una visione dinami­ca di tale relazione.

In primo luogo viene sottolineato il ruolo del con­testo in cui avviene il processo di cambiamento e affiliazione, contesto inteso sia nella sua dimen­sione macrosociale (il sistema politico, religioso, economico, sociale…) che in quella microsociale (la famiglia, gli amici, l’ambiente di lavoro..).

Un passaggio importante che avvia il processo della ricerca di una nuova e intensa affiliazione è rappresentato dal sopraggiungere di una crisi per­sonale, che seppur nella sua ampia diversità, pone in discussione il precedente sistema di convinzio­ni dell’individuo e l’orientamento fondamentale della sua esistenza. Tra i fattori scatenanti, si pos­sono individuare esperienze più o meno dramma­tiche, spesso connotate da un forte coinvolgimen­to emotivo come ad esempio: esperienze mistiche, condizioni di malattie e guarigione, l’insoddisfa­zione per la propria vita e la spinta a ricercare esperienze più significative, il desiderio di tra­scendenza, stati alterati di coscienza anche dovuti all’uso di droghe, la ricerca di identità, la perdita di alcuni punti di riferimento, la presenza di di­sturbi o disagio psicologico, il verificarsi di alcuni eventi significativi a livello sociale, politico, eco­nomico o religioso.

Il passaggio successivo è quello della ricerca, che rispecchia secondo l’autore la tendenza innata di dare un significato alla propria vita, in modo atti­vo o passivo. Più nello specifico lo stile attivato nella fase della ricerca si pone lungo un conti­nuum che va dalla ricerca attiva di nuove esperienze, alla recettività, al rifiuto, alla passività in cui più facilmente l’individuo risulta manipola­bile da influenze esterne. La risposta alla crisi e la ricerca di nuove affiliazioni risultano inoltre con­dizionate dal livello di disponibilità della persona al cambiamento nella misura del grado di libertà possibile nell’abbandonare i propri impegni, ob­blighi, cambiare abitudini e schemi emotivi e in­tellettuali. Gli aspetti emozionali giocano un ruolo importante sia come ostacoli, allorché l’individuo privilegia i legami già esistenti rispetto ai messag­gi di proselitismo, che come collante, in quanto l’instaurarsi di nuovi legami affettivi all’interno del gruppo rappresenta un rinforzo potente del processo affiliativo. Da un punto di vista intellet­tuale va invece sottolineato che l’adesione a nuovi gruppi risulta facilitata da una certa compatibilità e continuità tra le idee precedenti dell’individuo e l’ideologia proposta.

Un ulteriore stadio è quello dell’incontro, ossia il contatto tra l’individuo e il reclutatore del gruppo. Ancora una volta è bene sottolineare che tale in­contro avviene in un setting, che può essere molto differenziato, ed è il frutto dell’interrelazione tra bisogni affettivi, intellettuali e cognitivi di en­trambe le parti (Rambo e Bauman, 2012). Le stra­tegie persuasive adottate dal reclutatore possono essere più o meno attive, diffuse o concentrate e utilizzare diversi canali. A prescindere dalla diver­sità dello stile e dalle caratteristiche del gruppo, l’obiettivo del reclutatore è comunque quello di evidenziare i benefici per l’individuo derivanti dall’affiliazione al gruppo. Solitamente in questa fase si fa leva sui benefici a livello cognitivo, of­frendo una nuova e direzionata visione della vita, benefici emozionali, legati al senso di appartenen­za, sviluppo di nuove relazioni, entusiasmo, sol­lievo, benefici nello stile di vita, con l’adozione di nuove abitudini e attività, benefici legati all’iden­tificazione con un figura carismatica, che diventa giuda e modello da imitare.

Un ulteriore stadio è quello dell’interazione con in gruppo che consente il consolidarsi della cono­scenza dell’ideologia del gruppo e delle sue prassi e e può portare ad una adesione definitiva, attesa o rifiuto. Anche in questa fase si colloca lungo un continuum il livello di attività/passività dell’indi­viduo e di persuasione/manipolazione del recluta­tore. In questa fase il gruppo attua un processo di alto coinvolgimento dell’individuo che può essere fisico, sociale e ideologico. A livello fisico viene creata una condizione di isolamento in cui vengo­no fornite solo le informazioni e le conoscenze proprie del gruppo; a livello sociale viene limitato o bloccato il contatto con persone esterne al grup­po, anche attraverso l’impegno continuativo in at­tività interne al gruppo; a livello ideologico avvie­ne un intenso indottrinamento in modo da incul­care le idee del gruppo. In questa fase le relazioni con gli altri membri del gruppo consolidano a loro volta i nuovi schemi cognitivi ed emozionali dan­do una coloritura positiva alla nuova appartenen­za. L’uso dei rituali sancisce un nuovo sistema di vita destrutturando il precedente mentre al tempo stesso viene acquisita una nuova forma di lin­guaggio propria del gruppo, attraverso la quale dare significato ad eventi che riguardano se stessi e gli altri. Studi condotti sulla dissonanza cogniti­va hanno dimostrato che quanto più i rituali impo­sti dal gruppo risultano severi e presentano costi elevati per l’individuo che li attua, tanto più au­menta la sua fedeltà al gruppo (Aronson, 2006). Infine la fase dell’interazione è contrassegnata dall’assunzione di ruoli specifici che rinforzano il coinvolgimento della persona convincendola di avere una missione straordinaria da compiere.

Dopo un tempo più o meno lungo viene sancito l’impegno della persona all’interno del gruppo che rappresenta la scelta se aderire completamen­te all’ideologia del gruppo e impegnarsi seriamen­te o abbandonare il gruppo. Lo stadio dell’impe­gno a sua volta implica: una fase decisionale, in cui di nuovo possono riemergere eventuali vincoli con il contesto di origine; la messa in atto di ritua­li, spesso pubblici che ratificano, sotto forma di una cerimonia, l’inclusione ufficiale nel gruppo; l’abbandono del passato e l’affidarsi alla nuova realtà; la testimonianza della propria affiliazione che ha la duplice funzione di cercare nuovi adepti ma anche crearsi un quadro di riferimento entro il quale, spesso in modo imposto dal gruppo, rileg­gere e dare significato alla propria esperienza (Rambo, 1993).

Conclusioni

Il funzionamento dei gruppi, nel loro diver­so grado di inclusività sociale, rappresenta una fondamentale chiave di lettura per dare spiegazio­ne a fenomeni difficilmente ascrivibili al solo am­bito delle motivazioni intraindividuali. Anche l’analisi dei processi affiliativi va nella stessa di­rezione evidenziando come tale affiliazione debba essere considerata come l’incontro di disposizioni personali e strategie persuasive atte a favorire la partecipazione e l’adesione ideologica al gruppo. Processi come quelli legati all’identità sociale e di categorizzazione di sé, influenzano le reazioni de­gli individui in quanto parte di gruppi, determi­nando fenomeni come la polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo. Tanto più saliente diventa l’identità sociale e radicale la categorizzazione di sé, nella polarità ingroup-outgroup, tanto più si rinforza l’appartenenza al gruppo e si può assiste­re al manifestarsi di processi legati al centrismo di gruppo. La chiusura cognitiva che impedisce il confronto sociale delle informazioni, la tendenza all’autocrazia, l’uniformità e la pressione dei pari all’uniformità, nonché l’utilizzo di modalità per­suasive coercitive, sono tutti fattori in grado di fa­vorire l’estremizzazione dei comportamenti a fa­vore del proprio gruppo e giustificare il conflitto e l’ostilità verso i membri di gruppi esterni, caratte­ristiche salienti di ogni forma di fanatismo.

 

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L'articolo Le tecniche di persuasione per trasformare dei giovani in cerca di identità in fanatici esaltati proviene da Rivista Piesse.


Disagio esistenziale e de-costruzione del corpo sociale: nuove minacce e antiche tentazioni

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In ogni società, l’immagine dominante della morte

determina l’idea prevalente della salute

(Ivan Illich, 1974)

INTRODUZIONE

Questo contributo si inscrive nel solco della collaborazione sorta tra alcuni dei firmatari del Comunicato Psi (https://comunicatopsi.org), un accorato appello sottoscritto nel maggio di quest’anno da più di settecento tra psicologi e psichiatri e indirizzato all’attenzione degli organi di Governo dello Stato e delle istituzioni che si occupano di salute pubblica, al fine di considerare gli effetti negativi del lockdown e le sue conseguenze psicologiche sulla popolazione. L’attenzione e la preoccupazione di molti tra i firmatari hanno successivamente dato vita ad una raccolta spontanea di entusiasmi che si è data il nome di Sinergetica – Movimento di Libera Psicologia, a sottolineare la vitale e irrinunciabile necessità di poter esprimere libertà di opinione, di replicare scientificamente e coerentemente alla stereotipata versione mediatica sulla “pandemia”, opponendosi in maniera lucida e coscienziosa alla diffusione dell’allarme sociale e dei condizionamenti suscitati dalla paura del virus, ma anche delle malattie e della morte. Sinergetica si propone, attraverso varie attività divulgative e scientifiche di contribuire a riportare equilibrio e verità in un panorama che appare contraddistinto da schieramenti dicotomici e, pertanto, manipolabili dalla politica e dall’informazione mainstream.

La parola “morte”, che nel gergo comune è vocabolo oggi quasi impronunciabile, pur dominando il panorama mediatico come ospite abituale dei bollettini medici, viene tuttavia osteggiata da un’ipocrisia perbenista e dal gergo medico, che nei sofismi del linguaggio, sia comune sia tecnico, veicola l’anestetico della de-significazione della realtà, sostituendosi con perifrasi o allocuzioni che ne testimoniano l’imbarazzo: “è venuta meno” oppure “se n’è andata”, il “decesso del paziente”, o il più letterario “dipartita”. Ognuna di queste sostituzioni destituisce la nostra esistenza dell’identità antropologica e dei significati a lei conferiti dall’evento della morte. Come ha argomentato Geoffrey Gorer in The Pornography of Death (1955), la morte nella modernità ha assunto il ruolo che il sesso ricopriva nell’epoca vittoriana, la cui morale conferiva all’argomento una certa pruderie che ne allontanava l’esplicitazione dal linguaggio comune, allo stesso modo al giorno d’oggi l’imbarazzo che riveste le atmosfere e le azioni intorno alla morte, spogliano questo momento importante della vita della sua funzione identitaria dell’anthropos, che nel suo etimo più essenziale descrive “quell’animale che cammina guardando di fronte a sé”, e aggiungiamo qui, proprio per la sua capacità, incontra la morte.

La psicologia scientifica è restia ad occuparsi di categorie morali e mimando la ricerca medica pretende di oggettivare le variabili del comportamento umano e sociale. Pur senza entrare in questo delicato e controverso problema epistemologico, ne risulta un’idea frammentata di essere umano, al punto che la modellizzazione ne confonde la natura. Categorie morali come il coraggio (Tangocci et al. 2020), la volontà, la responsabilità, trovano poco spazio nella ricerca empirica, poiché probabilmente ritenute non riducibili a variabili elementari statisticamente scomponibili. Tuttavia questo atteggiamento di ricerca allontana l’uomo dall’umanità.

Così, prendendo a prestito alcuni luoghi della psicologia esistenziale, propongo al lettore un’esplorazione di zone fondamentali dell’esperienza umana, necessarie alla sopravvivenza, dove l’involuzione antropologica del nostro tempo – caratterizzato da un ipertecnologismo e dal progetto del transumanesimo, presentatoci dai grandi network della comunicazione come un prodotto allettante e desiderabile– mira invece a destituire l’essere umano della sua più intima e vitale essenza, ovvero la sua naturale capacità “sinergetica”, che possiamo scorgere nella qualità vibrazionale delle frequenze biologiche degli organismi, tra cui il nostro, quando stabiliscono quella straordinaria connessione o risonanza tra sistemi e domini presenti in natura. Queste capacità sono state sistematizzate nei secoli dalle culture nei metodi di conoscenza di sé, nelle filosofie, nelle teologie e nelle preghiere, edificate sulla pietra angolare del concetto liminale della morte, senza l’aiuto di modificazioni genetiche o interfacce biocompatibili. Già in quest’ultima promessa biotecnologica, come abbiamo potuto comprendere in questi mesi, vi risiede un programma di manipolazione dei consumi e delle coscienze delle persone, nel quale potremmo scorgere l’illusione dell’abolizione definitiva delle malattie, la presunzione della conquista dell’immortalità, realizzabile nell’assimilazione alla macchina, che in tempo reale possa informarci del pericolo di contagio e che monitori costantemente i nostri parametri vitali, restituendoci, in sostanza, un profilo transumano che ci illuda di un senso di protezione continua dal pericolo. In questo progetto l’anthropos, idea di umanità che cammina guardando di fronte a sé, faro del proprio sguardo, vorrebbe essere delegato ad una moltitudine di entità disseminate, tecniche e tecnologiche, ma in questa delega si nasconde il pericolo di abbattere la sua natura senziente, cognitiva e volitiva.

Per quali motivi siamo arrivati ad essere massa incosciente, che ritiene desiderabile l’obiettivo di consegnare la propria vitalità a dispositivi esterni, hard disk al di fuori del nostro controllo? Per quale motivo siamo diventati incapaci di costruire la realtà con le nostre mani, fino a diventare dipendenti da realtà virtuali? La prima realtà virtuale alla quale ci siamo lentamente assuefatti è la necessità di abolire la morte dal discorso quotidiano, coltivando l’illusione narcisistica della giovinezza e dell’immortalità. Sulla base di questa preoccupante consapevolezza proveremo a rispondere alle domande.

PROSPETTIVE

Il punto di osservazione di partenza è la psicologia esistenziale. Questo ramo poco frequentato delle discipline psicologiche si è sviluppato principalmente dalle posizioni dei filosofi esistenzialisti tedeschi e francesi e dalla teorizzazione dei principi di psicologia e psicoterapia formulati dal filosofo e psicologo Karl Jaspers, nel suo celebre saggio Psicopatologia generale (1913). Attualmente identifica quattro principali aree di intervento diagnostico e clinico sulle sofferenze psicologiche delle persone (Yalom, 1980) così riassumibili:

  1. La Morte, la concezione che l’uomo contemporaneo ne ha fatto e la paura che suscita.

  2. La Libertà, intesa come fonte ingestibile di responsabilità da parte delle persone e quindi fonte di terrore per l’assenza di una struttura esterna che si prenda carico delle scelte individuali.

  3. L’Isolamento esistenziale, inteso non tanto come isolamento inter o intrapersonale, quanto come quella condizione che mette di fronte l’individuo alla consapevolezza di “entrare nel” ed “uscire dal” mondo in solitudine. La consapevolezza della nostra finitezza individuale in contrasto al desiderio di essere parte di un insieme più ampio, diventa, così, fonte di conflitto interiore.

  4. L’Assenza di senso, che permea le nostre esistenze e il continuo tentativo di conferirne uno alle nostre scelte, ai nostri errori, agli sforzi e alle idee che attraversano le nostre vite, ci mette nella condizione di tentare incessantemente a rispondere alle domande fondamentali: perché viviamo? Che senso ha la vita? Se non vi è senso perché, allora, vivere? ecc.

Pur essendo tutte legate in reciproca interazione, in questo contributo ci addentreremo soprattutto nelle prime due istanze, evidenziando il legame che si crea tra: a) rifiuto della morte, b) il suo ritagliarsi uno spazio in relazione alla mancanza di senso esistenziale e c) la libertà.

Secondo la corrente psicologica dell’esistenzialismo, è proprio la libertà a determinare una dimensione terrifica dell’esistenza nel momento in cui richiede all’essere umano di assumersi la responsabilità di essere libero di costruire legami, significati e limiti, in sostanza quando concretizza la mancanza di partecipazione al bene comune e alla creazione di un corpo sociale solidale. Al di fuori dell’incontro, inteso nel suo senso più vasto, rimane infatti soltanto la perdita dei legami di comunità e la desolazione dell’isolamento esistenziale, che non è sinonimo di solitudine. Quest’ultima può essere, infatti, contemplativa, ascetica e anche creativa. L’isolamento esistenziale corrisponde invece alla mancanza di un vero e proprio destino di “accoppiamento” con sé stessi e con la realtà che ci circonda, rendendo in tal modo l’esistenza sterile e piena di fantasmi.

Quindi, il senso che possiamo trarre dalla capacità di scegliere e, di conseguenza, lo sviluppo di una certa consapevolezza del nostro vivere; la direzione che riusciamo a darle, insita nelle nostre costruzioni ideali e materiali; la capacità di accettare la solitudine e conferirle non solo una dignità ma una propria dimensione di conoscenza e infine la coscienza della morte e del morire, sono le istanze alla base della nostra capacità di stare nel mondo o, al contrario, quando non riusciamo a realizzarle, le cause del soffrire disagio e malattia. In un periodo attraversato dagli sconvolgimenti pandemici e post-pandemici, queste categorie sembrano dominare l’umana difficoltà di adattamento a questo nuovo assetto globale.

Nella scelta di un campo in cui misurare la propria appartenenza, in un senso vanno quelle persone che aderiscono ad una narrazione “ufficiale” dei fatti, la maggior parte, per le quali sembra vitale cercare la rassicurazione nella delega delle libertà e della propria salute ai politici e ai medici, oppure a entità fisiche come un farmaco o un vaccino, a loro volta rappresentanti simbolici di istanze magiche quali la protezione dalla malattia, l’immunità, l’incorruttibilità della sostanza corporea, la salvezza di fronte alla morte. In un altro verso vanno le persone che non aderiscono alla narrazione ufficiale, la minoranza, i quali, rigettandola, tentano faticosamente di trovare mediazioni tra un giustificato principio di precauzione a fronte del cambiamento imposto e il tentativo fondato di demistificare le distorsioni di natura fobica e paranoidea generate dalla manipolazione dell’informazione. Vi è una terza categoria di soggetti, gli indifferenti o chi non riesce a farsi un’idea di ciò che sta succedendo nel contesto politico e sociale mondiale, perché travolti dalla dissonanza cognitiva determinata dalla roboante contraddittorietà del contesto infodemico. In questa categoria si identifica un gruppo eterogeneo di persone rispetto alle quali è ancora più importante riflettere e verso i quali è necessario stimolare attenzione, discussione e fondata critica, perché possano affrontare la tentazione di rifugiarsi nella versione più comoda e meno rischiosa dal punto di vista personale, che al tempo stesso amplifica l’isolamento, sulla scia delle misure di contenimento del contagio imposte.

LA PAURA E LA MEDICINA

La paura è ubiquitaria nei quattro domini identificati dalla psicologia esistenzialista e al momento sembra condizionare anche personalità fino a ieri ritenute brillanti. Quandanche le ragioni che tali menti propongono sembrino ancorate a “ferree logiche scientifiche” – perlomeno fino a quando il nostro stupore non lascerà spazio al più giustificato sospetto di adesioni acritiche e strumentali, motivate dal desiderio di potere, di denaro o di appartenenza politica, che illusoriamente garantiscano protezione, potere e prestigio istituzionale – il loro silenzio o la loro adesione alla versione “più gridata” lascia un senso di sconforto e spaesamento. Solleva stupore e rabbia il modo in cui tali politici trascurino, nella loro azione istituzionale, i principi che li hanno portati alla ribalta, mentre gli scienziati ignorino le elementari regole di prevenzione e profilassi delle influenze o gli allarmi lanciati da numerosi medici riguardo al problema delle interferenze vaccinali, della mancanza di movimento, della mancanza di un robusto profilo immunitario, puntando invece su un’insistente battage mediatico a favore di un miracoloso vaccino. In più, ancor prima che il Covid-19 facesse la sua comparsa, queste regole hanno sempre avuto pochissimo spazio nella pratica medica e nelle campagne di educazione alla salute, principalmente ispirate dalla fiducia conferita alla presunta onnipotenza del farmaco, con la conseguenza socio-sanitaria di aver creato un esercito di ammalati cronici, utenti mansueti e garantiti al sistema pubblico delle cure e delle case farmaceutiche.

La salute, o meglio, la “vendita di salute”, è stata architettata allo scopo di creare la dipendenza dei più dal potere prescrittivo dei medici, di destituire la capacità degli individui di autoregolare la propria alimentazione e i propri bisogni essenziali, in un’orgia continua di sedentarietà televisiva e delega. Chi si occupa di psicologia comprende, tuttavia, che alla base della delega non si pone soltanto la fiducia. Il conferimento di un potere totale al medico sulla propria salute nasconde manovre psicologiche profondamente difensive a protezione della propria “fragilità” psicologica, mentre chi riceve tale delega, altrettanto difensivamente, può utilizzarne il potere prescrittivo per nascondere responsabilità personali e tecniche relative al rischio di fallimento terapeutico, che è normalmente insito nelle procedure diagnostiche e terapeutiche. Il medico, includendo in questa categoria gli operatori sanitari in genere, deve inoltre lottare continuamente con il senso di onnipotenza e aspetti narcisistici della personalità insiti nella scelta della professione di aiuto e questa posizione espone le scelte di chi cura ad un complesso intreccio difensivo fondato sulle connaturate angosce di morte dell’essere umano (Imbasciati, 2008; Campailla, 2018).

A tal riguardo, mi sovviene alla mente un’amica, che pur di continuare a fumare senza sosta, attende con speranza il vaccino che la protegga dal virus, rifiutandosi di prendere coscienza del fatto che se continua a fumare nessun vaccino la salverà dal cancro. Ma questi atteggiamenti, di cui l’esempio appena descritto non rappresenta nemmeno la più inconscia delle rimozioni, testimoniano di una maturazione involutiva della coscienza collettiva, ben descritta da Recalcati (2010) e, come precedentemente analizzato da Lacan, dominata dal “discorso del capitalista” e dalla sua logica del “godimento in assenza di desiderio”, che sprofonda l’uomo nel vortice della pulsione di morte. Se accogliamo le premesse lacaniane, è facile comprendere che il rapporto che si è venuto a creare tra uomo, medicina e morte, sulla base dello sviluppo tecnologico irrefrenabile iniziato nel 900, ha condotto l’umanità alle soglie di un totale smarrimento del senso dell’esistenza, prima legata “all’interdetto” ovvero alla legge, al limite, alla morte e alla sua giustificazione escatologica: in sintesi alla sua accettazione regolativa. Oggi, invece, questa stessa umanità, un tempo competente nel lavoro, nella percezione della fatica e nel riconoscere i limiti del corpo, è divenuta incapace di regolare la risposta fisiologica alla vita e al suo milieu sociale, microbiotico e virale, se non in funzione di un continuo esorcismo biotecnologico, identificato nel farmaco, ma soprattutto nella sua ricerca e assunzione compulsiva. A ben vedere, in molti casi, il gesto di assumere un farmaco, evitando di stimolare una propria efficace risposta immunitaria, si rivela essere un espediente apotropaico, non più efficace che assumere un ansiolitico o toccare la cornucopia. Inoltre la sperimentazione in campo farmacologico svela ogni giorno di più, interessi economici e manomissioni strumentali, che rendono insicura la pratica di affidare la propria salute al solo rimedio farmacologico (Bottaccioli, 2018; Campailla, 2020; Ratto, 2020).

Per poter garantire la credulità della maggioranza nel sistema delle cure farmaco-tecnologiche devono allora essere socialmente rievocati antichi rituali. Così l’atavica paura della morte si insinua nella rinnovata pratica sociale del , l’espulsione rituale dalla città di un uomo e una donna brutti di aspetto, che nell’antica Atene conservava il significato di allontanare le sventure e la paura di contaminazioni dalla comunità, mentre al giorno d’oggi si palesa nel superstizioso rifiuto del dissenso, dell’informazione libera, della libertà di scelta terapeutica, nell’ignorare l’attacco alle libertà costituzionali, tanto preziose e faticosamente conquistate dai nostri “padri”, ma anche nell’accettazione, timorosa e accondiscendente ad un tempo, di una “nuova normalità”, ritenuta necessaria in nome dell’assurda guerra ai virus.

LA MORTE E L’UOMO

L’atteggiamento sociale dell’uomo nei confronti della morte è mutato nel corso della storia, non sappiamo invece se l’atteggiamento individuale sia rimasto sempre dominato dal sentimento della paura della fine. Quel che possiamo estrarre dalle narrazioni letterarie e dai resoconti storiografici testimonia di un atteggiamento dei costumi nei confronti del morire segnato da grandi, seppur lente, trasformazioni (Aries, 1975). Durante il medioevo e fino al tardo romanticismo, il rapporto dell’uomo con la morte, in particolare con la propria, è stato un rapporto intimo. La morte si presentava e il morituro l’accoglieva consapevolmente, mentre la morte improvvisa veniva considerata una sventura, poiché non permetteva la messa in scena del rituale che accompagnava il morente, precludendogli la possibilità di raccomandare l’anima a Dio, di pentirsi e di scusarsi, di disporre e indicare la via da proseguire dopo di lui, soprattutto ai più giovani, che erano spesso il vero obiettivo del messaggio educativo della morte incarnato nell’ars moriendi. Al giorno d’oggi siamo più propensi a sperare in una morte improvvisa, meglio se arriva durante il sonno, in modo da evitarci massimamente il dolore del corpo. La paura del dolore e della malattia sembrano dominare il desiderio di una morte repentina. Inoltre i giovani e i bambini devono essere rigorosamente esclusi dallo spettacolo della morte e dalla vista del cadavere, eventi diventati macabri, caratterizzati dall’imbarazzo che mostriamo di fronte al dolore. Anche questo deve mantenersi su binari dignitosi e contenuti. L’ostentazione catartica della disperazione, del pianto e delle grida, che caratterizzavano la manifestazione del lutto e le esequie, descritte e musicate come pianto rituale da Ernesto De Martino (1960), sono definitivamente usciti dalla scena della morte moderna.

Dall’immagine attuale che la società ha ritagliato sulla morte e sul morire, possiamo derivare l’idea di salute e malattia, come suggerisce Ivan Illich in epigrafe. La salute, come recita la fuorviante definizione data dall’OMS, deve identificarsi non solo con l’assenza di malattia, ma come completo stato di benessere fisico, psichico e sociale; così come la vita deve identificarsi con l’occultamento della morte, l’annichilimento del lutto, la scomparsa del cordoglio. Di contro assistiamo ad un diffuso senso di banalizzazione, che potremmo definire gossip, profuso quotidianamente sui social media, in cui la pubblicità individuale della perdita di un caro reclama condoglianze surrogate in forma di emoticon e “like”, tanto impersonali quanto insensati, lontani dal contatto delle mani, dall’accoglimento del dolore e del pianto, tanto ridicoli quanto deprivati di realtà. La mancanza di senso, ancora, permea il rapporto con la morte nelle “congiure del silenzio” che le famiglie intessono intorno ai propri malati gravi. Come l’Ivan Il’ic di Tolstoj, questi si assoggettano, in una rabbia sorda e disperata, al copione che i propri familiari, ma soprattutto i medici, hanno scritto per loro. Complici i professionisti sanitari, la morte è negata fino all’ultimo momento, in una sorta di danza dell’ipocrisia. Nell’eccezionale documento letterario, scritto nel 1886, Tolstoj ci mostra come l’espropriazione della propria morte sia in accordo con l’imperativo di definire e sostenere una diagnosi.

Il mutamento del rapporto tra medicina e malattia, iniziato con la rivoluzione francese e le riforme degli ospedali, conferirono un nuovo corpus alla scienza medica e allo stesso modo conferirono un nuovo corpus al ruolo di malato (Foucault, 1969). Già in corso con il mutamento della famiglia borghese, iniziato nel XVIII secolo, che inizia a circoscrivere la morte all’interno del circuito emotivo degli affetti più prossimi, questo evento, in questo passaggio dal romanticismo al dominio della scienza positiva, viene consegnato via via nelle mani della medicina (Aries, 1975, 233):

Ormai Ivan Il’ic esce dal ciclo vitale, familiare, fonte di rassegnazione, o d’illusione, o d’ansia, che era stato da sempre quello di tutti i malati gravi, assimilati ai moribondi. Entra nel ciclo medico

La disperazione generata dalla sostituzione del linguaggio degli affetti con quello della diagnosi, suscitano il secondo atteggiamento negativo di fronte alla morte, l’isolamento. Nonostante la commedia dell’ottimismo recitata intorno alla morte moderna, le persone ammalate, come anche le persone anziane le quali, seppur stanche e consumate dagli anni, ricevono spesso costanti e pressanti esortazioni alla salute e all’attività da parte di familiari e amici, vivono l’inesorabile condizione dell’essere oggetto di incomprensione e in risposta accentuano il loro ritiro dalla società.

Ad un certo punto è apparso il Covid. La paura della morte, legata a doppio filo al disprezzo per la vita, che fino a quel momento navigava al di sotto delle coscienze dei più, ha fatto irruzione. Non che non si morisse anche prima del Covid, soltanto che questa notizia non possedeva dignità di cronaca. Dal Covid in poi si può morire anche con il Covid, soprattutto se la salute non è delle migliori. L’interrogativo che ci si pone al riguardo non si rivolge soltanto alla comprensibile paura del contagio, rispetto al quale siamo ormai del tutto consapevoli e potremmo ben prevenire, ma alla risposta confusa e massiva, orientata alla delega in bianco nei confronti della politica e della scienza, senza che tali soggetti vengano più valutati per le innumerevoli prove di inefficacia, nonché malafede, che storicamente hanno dato di sé.

La popolazione e la medicina si stanno comportando come se il diluvio universale stesse per abbattersi sul mondo per una seconda volta e il terrore di morire affogati avesse innalzato il panico a livelli mai visti prima. Per spiegare questo fenomeno che, con i dati generali che abbiamo oggi a disposizione, oltrepassa l’immediata comprensione, dobbiamo rivolgerci a categorie e ipotesi ulteriori. La paura del giudizio universale sembra essersi impossessata della maggior parte delle coscienze, ma per poterla giustificare abbiamo bisogno ancora una volta del pensiero di Ivan Illich, il quale pone alla base della paura della morte la percezione individuale del peccato e della propria condizione di peccatore (1955-1985). Lo stesso peso della fine impone, in genere, al morente la decisione di sottomettersi al giudizio di Dio, allo scopo di riconciliarsi con lui e continuare a vivere nella vita eterna oppure di rinunciarvi, con l’esito di subire l’inferno o il nulla agnostico. La percezione che l’attività dell’uomo in vari ambiti dell’esistenza fosse arrivata, prima del covid, a livelli di eccesso, iniquità, ingiustizia, disprezzo e perversione, non più sopportabili, poteva tuttavia accompagnarsi con leggerezza all’idea che, nonostante l’abito moralistico tanto elegantemente indossato dalla maggior parte delle persone della parte consumistica del mondo, ognuno fosse un po’ partecipe di questa lecita trasgressione e quindi assolto. Tuttavia il senso di colpa è largamente distribuito e, anche in assenza di trasgressioni, fa parte della normalità nevrotica della vita quotidiana per cui nessuno se ne può dire immune. Oltre a questo fisiologico fardello, le istituzioni utilizzano comunicazioni distorte e strategie di distrazione di massa per instillare il senso di colpa collettivo, ne è un esempio la questione del debito pubblico, che consiste nell’indurre le persone comuni a ritenersi responsabili dell’enorme buco economico, oltraggiosamente perpetrato dalla finanza neoliberista, senza permettere che i veri meccanismi all’origine del dissesto dell’economia dello Stato emergano alla consapevolezza dei più (Bersani, 2017).

Oggi la scure del giudizio universale – o, se ragioniamo, un fenomeno normale e frequente nella storia delle società, quale è un’infezione virale al quale i governi del mondo avrebbero dovuto essere ampiamente preparati (Fracassi, 2020) – ha dato inizio ad un processo nichilistico che poggiava da tempo sulle fondamenta già solide e ampiamente collaudate dell’alienazione dei legami antropologici più profondi tra l’individuo e gli archetipi “dell’essere umani”. Così, in un tempo incalcolabilmente breve si è creato il link tra peccato e remissione dell’anima all’autorità e al nuovo Dio dei nostri tempi: la scienza. Purtroppo la scienza è un fenomeno umano.

QUALCHE PAROLA SULLA LIBERTÀ

Parafrasando Illich è possibile affermare che il soggetto perde la sua libertà quando, paradossalmente, rifiuta in toto le regole che lo governano e, allo stesso modo, quando delle stesse regole ne fa un feticcio (ibidem). Paradossalmente ci si può sentire tanto liberi in una condizione di schiavitù quanto schiavi in una condizione di libertà. In tal senso, per alcune persone potrebbe sembrare una grande conquista di libertà il passeggiare all’aria aperta con una mascherina posizionata sul volto: al fine di preservare i confini dell’aria si stabilisce, facendo il verso ad un adagio popolare, che “dove finisce la mia aria comincia la tua”. Per queste persone è segno di libertà rispettare questo limite, come è pretesa di democrazia che tale limite venga osservato da tutti. Questo limite appare così una demarcazione che definisce uno spazio privato, quello del soggetto, che al tempo stesso configura un confine illusorio di proprietà del proprio destino di salute o malattia e di quello dei propri congiunti, da difendere con tutti i mezzi, esattamente come il podere o la casa. Purtroppo i virus non sono capitalisti, bensì radicalmente “socialisti”, se proprio volessimo dare loro un’entità che superi il loro carattere esclusivamente biologico e informazionale. Sono socialisti perché si confondono con velocità nella massa e della massa fanno la forza quanto più si diffondono, secondo il criterio dell’immunità di gruppo.

Questa libertà, così incarnata nel concetto di proprietà privata, è tuttavia minacciata dall’isolamento, dal momento che in questa condizione il soggetto, protetto all’interno dei suoi confini, diventa preda di una confusione esistenziale, facendo di lui un essere “consciamente confuso e inconsciamente controllato(n.d.r.), come ebbe a dire Freud (1906), parlando del determinismo psichico. La libertà dovrebbe essere rappresentata da criteri di convivenza e di scelta condivisi sulla base delle conquiste sociali di democrazia, diritto e non violenza, pur nel diritto della propria proprietà privata. Tuttavia la “pandemia” ha rinforzato l’opinione che il senso di libertà mantenga un significato individuale e soggettivo, quando non proprio arbitrario, in relazione al vincolo di delimitazione rispetto alla prossimità con un altro soggetto per cui, come si diceva pocanzi, la libertà dell’uno finisce dove inizia quella dell’altro e viceversa. Ne è una diretta ed estrema espressione il secondo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, che a difesa dell’incolumità personale e della proprietà, consente dal 1791 di possedere e usare armi.

Nonostante le aberrazioni, l’illusione individualistica fondata sul concetto di proprietà privata perde di forza di fronte al bisogno umano di appartenere ad una massa, come ci ricorda Elias Canetti (1960, 391-392):

Nella massa si è tutti uguali, nessuno ha il diritto di impartire comandi agli altri, o, se si vuol dir così, ognuno comanda ad ogni altro. Non solo non si aggiungono nuove costrizioni (n.d.r.), ma si è anche – provvisoriamente – liberi da tutte le vecchie. Ciascuno è, per così dire, sgattaiolato fuori di casa lasciando in cantina tutte le spine che vi stanno ammassate. Questo uscir fuori da tutto ciò che crea vincoli rigidi, confini e carichi, è la vera e propria determinante dell’euforia che l’uomo prova nella massa. In nessun altro luogo egli si sente più libero; egli desidera disperatamente di continuare a formare una massa, proprio perché sa bene cosa lo aspetta quando uscirà fuori dalla massa stessa”

È pur vero che ogni massa si identifica sempre in una leadership, dal quale progetto dipende il suo comportamento violento o non violento, organizzato o disorganizzato, costruttivo o distruttivo.

Lo sfruttamento capitalistico delle persone, che ha raggiunto un suo culmine nella nostra contemporaneità neoliberista, ha, invece, reso il significato di libertà, tanto equivoca quanto solipsistica. Come ha scritto recentemente Giorgio Agamben (www.quodlibet.it):

[…] “è importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva”.

In sostanza, il bisogno di fare massa, contenitore sociale dell’istanza di libertà, può declinarsi secondo due modalità: il cercarsi, stabilendo affinità, prossimità, identificazioni, significati condivisi e azioni, oppure, come suggerisce Agamben, ritirarsi in un distretto virtuale di tacito accordo sull’opinione più diffusa, giuridicamente imposto, aggressivo e intollerante. Questa massa gelatinosa e poco agglutinata, sebbene sia incapace di stabilire azioni propulsive all’interno della società in cui vive e che decide piuttosto delegarle a istituzioni e tecnici, si accorda a nuove forme di conservatorismo e difesa della propria passività, basa la propria reazione su un’idea di libertà monadica e non costruttivista, predilige il distanziamento non come soluzione al rischio ma come identificazione definitiva alla propria narcisistica difficoltà di interagire all’interno delle relazioni umane.

Il bene che più viene ritenuto assoluto, la libertà, è infatti un bene collettivo, che si esprime nella possibilità di incontrarsi in gruppi o masse critiche dal potere catartico, divenute coscienti dei propri diritti e doveri, capaci di costruire reti di condivisione, protezione ed uso ragionato dei beni comuni, sulla base di nuove iniziative di comunità. La paura che coglie il “narcisista della proprietà privata” si palesa allora di fronte al rischio di espansione della coscienza, al disconoscimento della coazione pulsionale di morte, inconsciamente coltivata nel corso della propria storia relazionale e, in sintesi, di fronte all’incapacità di abbandonarsi alla fiducia nell’altro. La vastità di tale espansione, unico antidoto all’annichilimento imposto dalle dittature, nasce dall’ascolto, dall’esperienza dell’incontro, il più aperto possibile e dall’esperienza del rispecchiamento, senza il quale non potremo riconquistare alcuno spazio di libertà e di comunità. Per concludere, faccio mie le parole di Jacob Levi Moreno, padre dello Psicodramma, che nel suo celebre Motto infonde speranza nell’unico vero presupposto che la non violenza possiede, il riconoscersi in sé e tra simili e che risulta essere più prorompente e costruttivo di qualsiasi coercizione all’annullamento delle identità (Moreno, 1980, 7):

[…] E quando sarai vicino io coglierò i tuoi occhi

per metterli al posto dei miei,

e tu coglierai i miei occhi

per metterli al posto dei tuoi

poi io ti guarderò coi tuoi occhi

e tu mi guarderai coi miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio e

Il nostro incontro rimane la meta della libertà […] .

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Riferimenti Bibliografici

 

Agamben G., (2020) Distanziamento sociale. Una voce, una rubrica di Giorgio Agamben, Quodlibet. https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale?fbclid=IwAR3tFZW9Gk67bYFnTl8J3p9RLD-1s1N4UkpJPTPYNwA6maEA0GGInn2iTXk.

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L'articolo Disagio esistenziale e de-costruzione del corpo sociale: nuove minacce e antiche tentazioni proviene da Rivista Piesse.

La manipolazione ai tempi del coronavirus

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Alice Lazzari – il Regno dell’Ongheu

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Nei primi mesi del 2020 la vita dei cittadini di quasi tutte le nazioni è stata stravolta dall’annuncio di un nuovo virus. Dai notiziari di tutto il mondo sono praticamente scomparsi i conflitti armati, i cambiamenti climatici, i gruppi terroristici, i morti per ogni altra patologia. Nonostante il nuovo patogeno venisse dichiarato sconosciuto, da subito e in assenza di autopsie che permettessero di conoscerlo, ha assunto il ruolo di pericolo pubblico numero uno. Al punto che gli stati, a partire dalla dittatura cinese, seguita dall’Italia e a macchia d’olio dall’Europa e da gran parte del resto del mondo, hanno applicato restrizioni della libertà personale senza precedenti storici. Come in tempo di guerra, in Italia la separazione dei poteri legislativo, esecutivo, e giudiziario, è stata di fatto sospesa, e l’esecutivo, tramite decreti sempre più incalzanti, ha assunto il ruolo legislativo. Più che in tempo di guerra, e più che in presenza di infezioni epidemiologicamente ben più pericolose del Covid-19, molti diritti costituzionali sono stati sospesi. Tutto ciò si è verificato senza quasi proteste, sia da parte delle opposizioni, sia da parte dei garanti costituzionali, sia da parte della popolazione. La presenza di un consenso così ampio, trasversale e duraturo, nei confronti di misure così drastiche, è anomala. Prescindendo dalla valutazione della necessità delle misure intraprese per fronteggiare il Covid-19, che non è oggetto di questa analisi e per la quale rimando ai lavori già esistenti, colpisce il confronto con altre tematiche sentite urgenti e preoccupanti, che diversamente suscitano da sempre accesi dibattiti politici e popolari riguardo la scelta delle misure da adottare.

Quest’ultima considerazione legittima la domanda se per produrre un consenso così vasto e atipico sia stato fatto ricorso a tecniche manipolative. Tale analisi richiede all’autore, e al lettore, uno sforzo di epoché, sospensione del giudizio, innanzitutto sull’effettiva possibilità che ciò sia possibile e in secondo luogo se ciò si sia o meno verificato. Occorre inoltre mantenere nettamente distinta la questione se sia avvenuta una manipolazione dell’opinione pubblica, dalla questione su chi, nel caso, ne sia stato autore e a quali fini. Il primo livello di analisi pertiene allo psicologo e al sociologo, mentre la seconda questione è competenza del giornalista investigativo o del magistrato. Inoltre, l’eventuale dimostrazione che sia stata perpetuata una manipolazione, non sarebbe in alcun modo invalidata dalle incertezze su chi ne sia stato autore e a quale scopo. Esattamente come, ad esempio, in presenza di un atto vandalico, la mera constatazione del fatto non soggiace alla conoscenza di chi ne sia stato autore o del perché lo abbia compiuto.

Esistono le manipolazioni psicologiche?

Prima di analizzare se sulla questione Covid-19 l’opinione pubblica possa essere stata manipolata, ritengo necessario ripercorrere brevemente, per i non addetti ai lavori, cosa si intenda con manipolazione psicologica e in quali modalità possa presentarsi.

Per una maggiore chiarezza, occorre da subito differenziare il concetto di manipolazione psicologica nella prospettiva giuridica da quello della prospettiva psicosociale. Come è noto, il codice penale italiano prevedeva il reato di plagio finché, nel 1981, la Corte Costituzionale lo ha dichiarato illegittimo, poiché non adeguatamente definito1. Pertanto ne consegue che penalmente il reato di plagio non sussiste, non con tale denominazione e in virtù dell’articolo abrogato, giacché in certi casi può essere inquadrabile come violenza psicologica. La non esistenza del reato di plagio non implica tuttavia che la manipolazione psicologica non esista, bensì unicamente che, se non riconducibile a criteri di violenza privata2, non è penalmente perseguibile. Inoltre è necessario rilevare che nelle scienze sociali, diversamente da altri ambiti, il termine generico di “manipolazione” non è univocamente definito e può riferirsi sia all’azione svolta da una o più persone su un singolo soggetto o un gruppo ristretto, sia al tentativo di influenza sociale esercitato da soggetti o gruppi in posizione dominante nei riguardi dell’intera popolazione; sia a manipolazione esercitata con tecniche covert (nascoste al soggetto), sia imposta con mezzi coercitivi o perfino violenti (Noggle, 2018). In un siffatto panorama non è pertanto raro che autori diversi parlino di manipolazione in relazione a tecniche distinte, come il brainwashing (lavaggio del cervello), l’ipnosi, la PNL (programmazione neuro linguistica), la persuasione o la propaganda. Di seguito esporrò in modo sommario i principi di funzionamento di tali pratiche, sia per differenziarle, sia per evidenziarne aspetti in comune, la cui conoscenza tornerà utile a seguire più facilmente l’analisi oggetto della presente relazione.

Brainwashing e influenza autoritaria

Il termine “brainwashing” è stato creato nel 1950 dal giornalista statunitense Edward Hunter, per proporre una spiegazione alla cooperazione col regime cinese da parte di soldati americani prigionieri nella guerra in Corea. Nel ventennio successivo alcuni articoli accademici hanno esplorato tale possibilità, con conclusioni contrastanti. Perfino la CIA, negli anni ‘50, aveva attivato un programma sperimentale sul controllo mentale, denominato Project MK-Ultra, poi interrotto e desecretato negli anni ‘70; infine investigato durante un’udienza al Senato3 e portato nei tribunali dalle presunte vittime. Ufficialmente da tali esperimenti illegali risulterebbe che la manipolazione mentale non sarebbe possibile, sebbene la preventiva distruzione di molti dei documenti4 non può consentire una valutazione oggettiva dei risultati del progetto.

Parallelamente si sviluppa l’ipotesi che alcune sette religiose sottopongano i loro adepti a un vero e proprio lavaggio del cervello. Tale tesi, analogamente al concetto italiano di plagio, assume rilevanza giuridica e, per l’urgenza di produrre perizie attendibili, in presenza di posizioni scientifiche contrastanti, l’APA (American Psychological Association), nel 1986, istituisce una task force sul tema che si dichiara favorevole all’ipotesi, sebbene poi contraddetta da altra commissione interna all’APA che ritiene la conclusione dei colleghi manchi di evidenza scientifica5. Come tuttavia spesso accade nello studio dei fenomeni sociali, la mancanza di evidenze scientifiche è conseguenza inevitabile di studi osservazionali, e non sperimentali, randomizzati in doppio cieco e sufficientemente confermati da studi successivi (Tangocci, 2020a). Poiché una commissione etica non può spingersi a autorizzare esperimenti che potrebbero realmente dirimere la questione sull’effettiva possibilità di sottoporre una persona al lavaggio del cervello, la legge non può ovviamente formularne il reato, ma al contempo, dalla prospettiva scientifica, la questione non può che rimanere aperta.

Tanto più che (per quanto limitatamente ai singoli aspetti dell’influenza sociale che hanno ricevuto autorizzazione allo studio), a partire da studi pionieristici, come quello sulla finta prigione di Stanford (Haney et al, 1973), o quelli di Stanley Milgram (1974) sull’obbedienza all’autorità, la Psicologia Sociale ha mostrato che, sia per obbedienza, che per acquiescenza, per conformismo o per persuasione, indirizzare l’opinione di singoli individui nella direzione desiderata è certamente in molti casi possibile.

Ipnosi, PNL e tecniche “covert”

Nell’immaginario popolare l’ipnosi oscilla tra l’essere ritenuta un atto quasi magico, e il venire rigettata come impossibile, trascurando di approfondire la realtà che si trova tra questi due estremi. Sebbene sia vero che la disciplina, che vanta ormai qualche secolo di storia, non sempre offre risposte chiare sulle dinamiche di funzionamento dei suoi metodi. Eppure, per quanto possano sussistere dubbi sulle celebri lezioni spettacolo di Jean-Martin Charcot all’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, non possono essercene sull’efficacia delle anestesie ipnotiche in occasione di interventi chirurgici (Granone, 1989), né sulla validità dell’ipnosi ericksoniana, ampiamente utilizzata da alcuni professionisti della salute mentale e insegnata in scuole di specializzazione riconosciute dal MIUR.

La Programmazione Neuro Linguistica (PNL) nasce dalla collaborazione tra Richard Bandler e John Grinder che pubblicano (1975) una loro sintesi e rielaborazione del lavoro degli psicologi Milton Erickson, Fritz Perls e Virginia Satir, dell’antropologo Gregory Bateson e del linguista Noam Chomsky. In estrema sintesi, la PNL ritiene che il comportamento umano sia frutto di percorsi neurali consolidati dal linguaggio (non solo verbale) cui siamo abituati. Modificando quest’ultimo sarebbe possibile intervenire, sia sull’insieme delle credenze consapevoli e inconsapevoli, che sul comportamento. L’obiettivo sarebbe conseguibile, sia da parte di chi lo desidera per sé e si applica in autonomia a modellare alcuni suoi aspetti su quelli di chi ha già raggiunto i risultati desiderati; sia da parte di chi lo desidera per sé e, per essere guidato a tal fine, si rivolge ad esperti delle tecniche della disciplina; sia da parte di chi desidera modificare, ad esempio, l’atteggiamento di un cliente nei confronti di un prodotto in vendita. La disciplina non è tuttavia accreditata dal mondo accademico, poiché non ha basi scientifiche in grado di spiegare adeguatamente il suo funzionamento. Non è inoltre gradita a molti psicoterapeuti, poiché si focalizza sulla realizzazione degli obiettivi desiderati, in assenza di una valutazione complessiva dell’individuo, tanto più che è spesso praticata da non psicologi, privi della preparazione necessaria a delineare una diagnosi o un profilo psicologico. Ciò nonostante, l’insieme delle tecniche proposte dalla PNL è certamente funzionale sia, ad esempio, al conseguimento di semplici obiettivi desiderati, come smettere di fumare; sia ad aumentare la probabilità di convincere possibili clienti, o sostenitori, ad acquistare un prodotto in vendita, o a sottoscrivere una causa perorata.

Anche la Psicologia Sociale si è ampiamente occupata di studiare quali situazioni, tecniche e strategie, favoriscano la persuasione di un soggetto target. L’elenco delle tecniche individuate potrebbe essere molto lungo, tuttavia, per motivi di brevità, mi limito a menzionare quelle particolarmente note del “piede nella porta”, consistente nel richiedere inizialmente una piccola adesione per aumentare la probabilità che sia successivamente accolta una richiesta più gravosa, o quella opposta della “porta in faccia”, che mira a facilitare l’accettazione di una richiesta più modesta che segue il rifiuto di una iniziale richiesta sapientemente esagerata (Cialdini et al, 1975). Oltre a una rapida menzione (data la sua particolare rilevanza ai fini persuasivi) della cosiddetta “teoria della dissonanza cognitiva” (Festinger, 1957), secondo la quale gli individui sperimentano uno stato di stress psicologico se sentono discrepanza tra le proprie cognizioni (nozioni, valori, opinioni, credenze), o tra una propria cognizione e un proprio comportamento. Pertanto, per mitigare tale disagio, sono indotte, o a modificare l’ambiente nel quale la discrepanza si manifesta, o a cambiare il proprio comportamento, o a mutare le proprie cognizioni, seguendo la linea di minor resistenza. Di conseguenza, individui dalle intenzioni manipolatorie potrebbero creare artificialmente le condizioni in cui far sentire discrepanza al/ai soggetto/i target, al fine di indirizzare i comportamenti o le opinioni nella direzione desiderata.

Naturalmente, sottolineo che, né le tecniche ipnotiche, né quelle individuate dalla PNL, né quelle scoperte dalla Psicologia Sociale, possono offrire la certezza del risultato con tutti i soggetti e in ogni circostanza. Alcuni soggetti sono facilmente ipnotizzabili, altri no; alcuni si lasciano guidare, o raggirare, facilmente, altri no; e la probabilità o meno varia anche per uno stesso individuo in funzione di tante variabili, tra le quali, la stanchezza, l’esperienza, o la motivazione. Nondimeno le tecniche più efficaci lo sono con un numero maggiore di soggetti e in un maggior numero di casi.

Comunicazione persuasiva e propaganda

Analogamente, quando il target non è più il singolo o un ristretto gruppo di persone, bensì larghe fasce della popolazione, o l’intera cittadinanza, l’efficacia di una manipolazione si misura in base alla percentuale di individui che è in grado di influenzare, e assume il nome di comunicazione persuasiva, o quello di propaganda. Entrambe le forme tuttavia – come pure la pubblicità o il marketing – ricorrono a tecniche simili, sia specifiche, che mutuate da quelle sovresposte e adattate ai canali di comunicazione di massa. Vista la similitudine dei metodi, la tassonomia ha dovuto discriminare i fenomeni sulla base delle intenzioni, scegliendo “persuasione”, se l’ente e la finalità della comunicazione sono valutati positivamente da chi pone l’etichetta sul comunicato, o “propaganda”, se valutati negativamente. Va da sé, che una simile distinzione non ha niente di scientifico, al più pertiene alla filosofia morale, ma anche in tal caso proprio non si vede come la valutazione possa superare i limiti della soggettività.

Nelle università, le modalità per influenzare l’opinione della popolazione su specifici argomenti, vengono insegnate nei corsi di “comunicazione persuasiva”, e i testi di tali corsi (Tra i più diffusi: Perloff, 2010) sono solitamente corposi e ricchi di indicazioni. Non potendo chiaramente riassumerle tutte, riporto che tra le più funzionali a favorire l’adesione ai comportamenti socialmente desiderati figurano i cosiddetti “appelli alla paura”, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche, diffusamente impiegate, la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?

Il termine propaganda viene utilizzato per la prima volta con un’accezione assolutamente positi va, era infatti intesa come una forma di propagazione della fede da parte di Papa Gregorio, che istituì la “Sacra Congregatio de Propaganda Fide” (Pratkanis e Aronson, 2001). Dalla Prima Guerra Mondiale, e ancor più dalla nomina di Joseph Goebbels a “Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda”, il termine propaganda, è riservato a indicare la comunicazione ingannevole da parte di un’istituzione o un ente, diffondendo menzogne, falsità pur di attirare l’opinione pubblica dalla propria parte. Tuttavia, come già evidenziato, la valutazione di “ingannevole” è strettamente dipendente dall’insieme di valori e credenze del valutatore. Di modo che, per esempio, affermazioni smaccatamente faziose potranno, in tutta buona fede, sembrare corrette a un sostenitore, ma ingannevoli a un oppositore. Perfino la comunicazione di dati statistici, che potrebbe sembrare oggettiva, facilmente non lo è, poiché l’impressione generata varia sostanzialmente a seconda di come i dati vengono divulgati (ad esempio, omettendo alcuni riferimenti essenziali, come spiegato in Huff, 2007). Molte distorsioni, esagerazioni o ridimensionamenti, omissioni o accentuazioni, saranno ritenute una corretta forma di comunicazione persuasiva da chi concorda con la natura del messaggio, ma bollate come falsa propaganda da chi dissente. Poi, naturalmente, esistono anche comunicazioni consapevolmente e smaccatamente mendaci, che ricorrono spudoratamente all’inganno, alla diffusione di messaggi falsi appositamente prodotti, o ai messaggi subliminali (Verwijmeren et al, 2011).

Al fine di esercitare adesione a specifiche opinioni è anche possibile sfruttare, o consapevolmente stimolare, il disorientamento derivante da un sovraccarico cognitivo (information overload, o anche infoxication, vedi ad esempio Benselin, et al, 2016). Poiché, di fronte a un’eccessiva mole di informazioni, un soggetto rischia di non essere più in grado di effettuarne un’elaborazione approfondita e consapevole, sarà più facilmente indirizzabile nella direzione desiderata. Manipolando aspetti emotivi che a ben vedere non hanno niente a che vedere con la correttezza o meno del messaggio. In termini psicologici la cosiddetta “via centrale della persuasione” (Cacioppo et al, 1984), focalizzata sul contenuto del messaggio, tenderà a lasciare il posto a quella che viene chiamata “via periferica della persuasione”, influenzata da aspetti maggiormente controllabili, come ad esempio il ricorso a testimonial famosi a sostegno dell’opinione che si desidera diffondere. Tanto più che un soggetto sottoposto a stress, disorientato, o spaventato, è predisposto a conformarsi alle opinioni e ai comportamenti della maggioranza, poiché tale strategia si è evoluzionisticamente mostrata la più adattiva (Tangocci, 2020b).

Un paragrafo a parte merita il controllo della popolazione attraverso la manipolazione del linguaggio. Sul ruolo dei media, e i mezzi cui ricorrono, per la creazione del consenso è ben noto e particolarmente prezioso il contributo dell’economista Edward Herman e del linguista e filosofo Noam Chomsky (Herman et al, 1988). Tuttavia le ipotesi più estreme sul livello di controllo che il linguaggio può avere sul pensiero sono certamente quelle esposte nel romanzo distopico, 1984, da George Orwell, e in particolare nella sua appendice “The Principles of Newspeak”. L’incessante sorveglianza, la riscrittura della storia, la ritualità dei momenti di odio collettivo verso i nemici del partito, come pure l’imposizione della neolingua”, tra i cui principi spicca quello del “doublethink”, al fine di rendere impossibile la libertà di pensiero, nella misura in cui sono presentati, sono certamente materia letteraria. Nondimeno, come spesso accade, la grande letteratura, lungi dall’essere mero intrattenimento, è foriera di importanti stimoli di riflessione. Infatti, ma non molti lo sanno, l’opera ha ispirato studi di linguisti e sociologi, interessati a approfondire la potenzialità della manipolazione mediatica del linguaggio (tra i più recenti, con una buona bibliografia: Hossain, 2017). Un semplice esempio ne è l’impiego della locuzione “missione di pace”, oramai da qualche decennio abitualmente utilizzata per denominare degli atti bellici, se perpetuati dal proprio governo o da forze alleate.

Concludo con un’ultima osservazione relativa alle comunicazioni da parte delle autorità, reali o percepite come tali, che siano. Sussiste una buon probabilità che, più o meno consapevolmente, la ricezione di un tale messaggio da parte del destinatario sia mediata da aspetti del rapporto che ha avuto con le sue figure genitoriali, prima vera autorità per ogni bambino. Autori diversi parlerebbero, a seconda dell’orientamento di appartenenza, di attivazione di nuclei complessuali, di Modelli Operativi Interni, di proiezioni, di script comportamentali, o si riferirebbero ad altri costrutti psicologici affini. Quale che sia il termine adottato, e ferme restando le distinzioni tra i costrutti, il punto è che, come da piccoli molti bambini nei confronti di un padre, anche molti cittadini adulti nei confronti dell’autorità, per quanto possano certamente violare delle regole (come forse le hanno violate a suo tempo in famiglia), tendono ad obbedire acriticamente se gli viene detto di essere in uno stato di emergenza. In una situazione di pericolo l’obbedienza si rivela spesso adattiva, pertanto tale predisposizione è stata evoluzionisticamente selezionata nel corso dei millenni, sia nella nostra che nelle altre specie sociali (Buss, 2011). Tuttavia, per quanto un genitore faccia solitamente il bene di un figlio, esistono anche genitori violenti, trascuranti, egoisti, sfruttatori, o perfino stupratori, a volte veri e propri “mostri”. In tali tristi casi, come molti psicoterapeuti sanno, non è raro che il bambino colpevolizzi se stesso dell’abuso subito, piuttosto che accettare la dolorosissima idea che il genitore non lo ami. L’investimento emotivo è troppo alto e il meccanismo di difesa del diniego lo protegge dalla spaventosa eventualità di riconoscersi affettivamente orfano. Analogamente, non tutti i governi fanno necessariamente il bene del loro popolo e, come la storia dovrebbe insegnarci, anche nei regimi più spietati e disumani, l’aderenza di molti cittadini è in larga misura spiegabile da obbedienza acritica, dalla cosiddetta “banalità del male” (Arendt, 1963). Lungi dal prendere posizione a riguardo, mi limito ad affermare che l’eventualità di svegliarsi un giorno, ed accorgersi di essere stati anche noi vittime di un tale fenomeno, non dovrebbe essere esclusa a priori poiché, per definizione, chi ne è affetto è il primo a non rendersene conto.

Giornalismo, istituzioni e Covid

Ultima premessa, questa volta non psicologica, prima di addentrarsi nell’analisi dell’eventuale manipolazione dell’opinione pubblica, contestualmente all’emergenza Covid-19, vorrei ricordare che studiare una situazione data è cosa ben diversa dal mettere a punto una strategia volta ad avere un’influenza sulla società. Proprio come un ingegnere può con semplicità riferire quali presupposti e strategie ha seguito nella realizzazione di un suo progetto, ma in quello che viene chiamato “reverse engineering”, ovvero lo studio di un manufatto di altrui realizzazione, non può che avanzare delle ipotesi; allo stesso modo uno studioso di scienze sociali, non può che proporre le sue più attendibili ipotesi di spiegazione di quanto osserva.

Un aspetto nondimeno fin da subito innegabile è l’esistenza dell’intenzione, da parte quantomeno di alcune istituzioni, di studiare le strategie di persuasione della popolazione più funzionanti. Giacché per dimostrare ciò è sufficiente collegarsi al sito istituzionale del governo inglese, o al database statunitense dedicato agli studi clinici in corso. Nel primo caso veniamo a conoscenza dell’esistenza di un gruppo di studio, denominato “Independent Scientific Pandemic Influenza Group on Behaviours (SPI-B)”6, il cui scopo dichiarato è fornire consulenza in materia di scienze comportamentali per anticipare e aiutare le persone ad aderire ad interventi raccomandati da esperti medici o epidemiologici.(“SPI-B provides behavioural science advice aimed at anticipating and helping people adhere to interventions that are recommended by medical or epidemiological experts”).

Nel sito Clinicaltrials.gov invece apprendiamo che è in corso (da luglio 2020) uno studio7 promosso dalla Yale University volto a determinare se sia più efficace tentare di convincere la popolazione ad acconsentire a inocularsi un vaccino per il Covid-19 ricorrendo a argomentazioni inerenti: 1) evitare ulteriori limitazioni della libertà personale; 2) evitare limitazioni della libertà economica; 3) garantirsi sicurezza sanitaria; 4) fare l’interesse della società; 5) migliorare l’economia grazie a una società ampiamente vaccinata; 6) promuovere il senso di colpa; 7) stimolare l’imbarazzo al non aderire; 8) evitare l’altrui rabbia; 9) rinforzare la fiducia nella scienza; 10) insinuare la codardia di chi non si vaccina.

Si può naturalmente ritenere che sia giusto che la società studi le strategie più funzionali a far sì che la più ampia parte possibile della cittadinanza aderisca alle scelte governative in materia sanitaria. Nondimeno, non si può negare, con onestà intellettuale, che quando queste strategie vengono messe in atto subdolamente, stimolando delle risposte automatiche, le stesse siano forme di comunicazione manipolativa. In Italia (per lo meno nella prima metà dell’anno) è mancata una sufficiente trasparenza relativa ai razionali scientifici soggiacenti alle decisioni politiche, pertanto non ci è dato sapere quali principi abbiano ispirato le scelte comunicative. Certo è che, di eventuali simili intenti, ne andrebbe verificata la compatibilità etica con i principi della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, più conosciuta con nome di “Convenzione di Oviedo”, firmata in Spagna nel 1997 e ratificata dall’Italia nel 20018, che all’articolo 5 prevede che, ogni intervento sanitario può essere effettuato unicamente dopo che la persona ha fornito il suo consenso libero e informato. Dopo essere stato adeguatamente informato sullo scopo e la natura dell’intervento, come pure sulle sue conseguenze e i suoi rischi.

Comunicazione dei dati epidemiologici

Tutti ricordano i “bollettini di guerra”, quotidianamente forniti dalla totalità, o quasi, dei giornali e delle reti televisive. Eppure, con le parole di Giorgio Agamben, tra i filosofi italiani viventi più stimati nel mondo:

Almeno per quanto riguarda l’Italia, chiunque abbia qualche conoscenza di epistemologia non può non essere sorpreso dal fatto che i media per tutti questi mesi hanno diffuso delle cifre senza alcun criterio scientifico, non soltanto senza metterle in rapporto con la mortalità annua per lo stesso periodo, ma senza nemmeno precisare la causa del decesso. (Agamben, 2020a, p. 60).

La comunicazione di numeri assoluti, in mancanza degli indispensabili parametri di riferimento, è infatti indiscutibilmente priva di qualsiasi significato scientifico. Tuttavia non solo, giacché per la maggioranza della popolazione – carente, o dimentica, della formazione necessaria a comprendere questo aspetto – dei numeri ripetuti ossessivamente e quotidianamente comportano un’elevata attivazione emotiva, a seguito della quale, in funzione delle dinamiche già esposte, diminuisce la capacità critica e aumenta la propensione ad accogliere le indicazioni fornite delle autorità. Questo atteggiamento viene spiegato dalla teoria della “mera esposizione”, secondo la quale un individuo che venga esposto ripetutamente e prevalentemente ad uno stimolo si troverà a preferire quello stimolo su altri, indipendentemente delle precedenti cognizioni relative allo stimolo stesso (Zajonc, 1968); questo perché la ripetuta esposizione crea una familiarità con lo stimolo, e tutto ciò che è familiare abbassa la risposta di allarme tipica della paura, fornendo una soluzione ad un probabile dilemma di scelta tra due o più stimoli.

Si tratta a tutti gli effetti di una comunicazione falsata. Non mi è dato sapere se i media abbiano ricevuto indicazioni di diffondere i dati in tale modo; se i principali editori si siano accordati tra loro; se una testata giornalistica sia stata capofila e le altre l’abbiano imitata; se tale pessimo giornalismo sia stato motivato da strategie sensazionaliste mirate alla maggiore audience; o se si sia semplicemente trattato di una, non meno grave, diffusa incompetenza professionale. Certo è che, voluta o casuale che sia, nel caso esistesse una volontà di esacerbare la paura nella popolazione, quale che ne fosse il fine, questa modalità comunicativa è la più funzionale. Tanto più che, arrivata l’estate, terminata l’emergenza ospedaliera, e enormemente ridimensionati i decessi, i bollettini non sono cessati bensì, mantenendo inalterata la grafica, per meglio sottolineare la continuità e perpetuare lo stato emozionale del lettore, sono gradualmente slittati dal mostrare i numeri assoluti di morti a lanciare allarmi per la positività. Tralasciando la palese differenza tra malato sintomatico e positivo asintomatico, di cui molti medici hanno già scritto e parlato9, è evidente che i numeri di positivi aumentano all’aumentare dei test effettuati. Nei primi mesi, nei quali i test erano riservati ai sintomatici, rappresentavano, sì, un indicatore di quanto tali sintomi potessero essere provocati da Sars-Cov-2; ma se i test riguardano persone senza sintomi, eseguirne giornalmente di più, o di meno, dipende unicamente dalle indicazioni o dalle intenzioni di eseguirli.

Un’informazione polarizzata

A seguito di iniziali dichiarazioni di esponenti politici di primo piano, o di cosiddetti esperti, passati nel giro di pochi giorni dal dichiarare che in Italia il rischio fosse inesistente, che l’unico virus fosse quello del razzismo, o che le mascherine per la popolazione generale fossero inutili, all’affermare l’esatto contrario, talvolta perfino in rapida alternanza, è rapidamente emersa una narrazione dominante. La politica ha delegato i suoi doveri decisionali ai membri di un comitato tecnico scientifico e le trasmissioni televisive sono state presidiate da alcuni scienziati da salotto (principio di autorità), i cui riferimenti scientifici già si erano mostrati, e successivamente si sono confermati, privi di valore previsionale. Il principio di autorità funziona in base all’euristica dell’autorità, cioè alla risposta automatica verso un’autorità; secondo questo principio ogni persona che sembri (o si comporti, o venga considerato) un’autorità in un ambito ben preciso stimolerà del destinatario della comunicazione una risposta automatica di obbedienza o di consenso, generalizzata anche in un altro ambito (Cialdini, 1989). Si avvicina a questo concetto anche il messaggio diffuso in questo particolare periodo “lo dice la scienza”, trasmettendo in tal modo l’idea che l’intera comunità scientifica fosse, e sia, concorde. Eppure apertamente contrarie erano invece le opinioni di eminenti virologi, come Giulio Tarro, di emeriti specialisti di malattie infettive come Didier Raoult, di premi nobel come Luc Montagnier, e di migliaia di specialisti in Italia e nel mondo. Su alcuni canali alternativi, quotidiani locali o riviste internazionali, fin dai primissimi tempi era possibile approfondire le posizioni definite eretiche10. Diversamente, i principali canali di informazione, hanno per lo più evitare di presentare un confronto di opinioni con autorevoli membri della comunità scientifica che non si fossero allineati alla narrazione ufficiale. Poco spazio mediatico è stato concesso a tali pareri, relegati in fasce orarie secondarie, o chiosati in modo derisorio dai conduttori televisivi, o violentemente attaccati, come è accaduto a medici italiani in prima linea, concordi su alcuni aspetti, ma dissidenti su altri, come ad esempio Maria Rita Gismondo, Giuseppe De Donno, e molti altri. Alcuni medici hanno poi ritrattato le loro posizioni, non ci è dato sapere se per avere genuinamente mutato opinione o se sfiniti dalla gogna mediatica nella quale erano incorsi, altri non lo hanno fatto. Altri infine, dopo avere diretto ospedali, o reparti, nel periodo della massima emergenza, come Matteo Bassetti, o Alberto Zangrillo, per avere testimoniato che la reale situazione ospedaliera non è quella descritta dai media sono stati tacciati di negazionismo. Querele da parte dell’associazione autodenominatosi “Patto Trasversale per la Scienza”, e task force contro le supposte fake news, si sono attivate a censura delle opinioni professionali discordanti.

Quale che ne sia l’opinione a riguardo, tutti ricorderanno la situazione appena descritta. Nuovamente, non ci è dato sapere cosa abbia motivato una comunicazione così poco aperta a un genuino confronto. Nella prospettiva della presente analisi è tuttavia facilmente rilevabile che la polarizzazione dell’informazione, casuale o indirizzata che sia, è funzionale a un eventuale intento di manipolazione dell’opinione pubblica. Una celebre frase attribuita a Joseph Goebbels, sebbene probabilmente non sua, recita che “ripetendo una bugia cento, mille, un milione di volte, diventerà una verità”. Poco importa chi l’abbia realmente scritta, giacché la sua utilità si esaurisce nel riassumere un principio certamente vero. La costruzione della “percezione della realtà”, la formazione delle opinioni, dipende in gran parte dai riferimenti disponibili, dalla loro frequenza, dal credito riscosso tra i nostri simili. Le atrocità (non solo nella Germania nazista) ispirate dai principi eugenetici, sono state possibili unicamente perché questi ultimi sono stati creduti principi scientifici da una parte dell’allora comunità scientifica, sostenuti dalla politica di alcuni paesi, ossessivamente ripetuti dagli organi di informazione, e in tal modo accolti da larghe parti della popolazione. Dovremmo essere ampiamente edotti sui rischi di un’informazione polarizzata e, fosse solo per principio di precauzione, esigere un dibattito mediatico più equilibrato.

L’etichettatura del dissenso e l’incitamento all’odio

Invece, le opinioni divergenti, non solo di professionisti, medici, biologi, psicologi, filosofi, o giuristi che siano, ma anche quelle dei comuni cittadini che hanno trovato più convincenti le loro argomentazioni che non quelle ufficiali, o comunque maggiormente diffuse, sono perlopiù etichettate negativamente e con ciò liquidate dal pubblico dibattito. L’appello alla libertà di scelta su temi significativi della propria esistenza subisce l’etichetta di “No-Vax”, “No-Mask” o simili; ogni tentativo di ridimensionare l’allarme riconducendolo a diverse interpretazioni dei dati ufficiali subisce l’accusa di “negazionismo”; ogni ipotesi che alcuni aspetti della gestione non appaiano sufficientemente trasparenti e convincenti è tacciata di “complottismo”, o perfino bollata di “terrapiattismo” (come se c’entrasse qualcosa). Sarebbe tuttavia sufficiente ascoltare le affermazioni di chi richiede la libertà di scelta per scoprire che l’etichetta è impropria, giacché il rifiuto è rivolto all’obbligatorietà, non alla misura sanitaria. Basterebbe anche solo affacciarsi agli scritti dei principali autori di riferimento del cosiddetto “complottismo”, per accertarsi personalmente che non vi è riferimento alcuno a ipotesi terrapiattiste, che pure esistono ma riguardano pochi autori, guardati dai primi con altrettanto sospetto di quello giustamente nutrito nei confronti di tali ipotesi dai più.

Sull’uso dei termini “negazionista” e “complottista” invece non mi sento di esprimermi meglio di quanto abbia già fatto il già citato Giorgio Agamben, giudicando tale etichettatura “infame”. Ne riporto pertanto alcuni estratti:

Sul [negazionismo] non vale la pena di spendere troppe parole, dal momento che, mettendo irresponsabilmente sullo stesso piano lo sterminio degli ebrei e l’epidemia, chi ne fa uso mostra di partecipare consapevolmente o inconsapevolmente di quell’antisemitismo tuttora così diffuso tanto a destra che a sinistra della nostra cultura. Come suggeriscono amici ebrei giustamente offesi, sarebbe opportuno che la comunità ebraica si pronunciasse su questo indegno abuso terminologico.

Vale invece la pena di soffermarsi sul secondo termine, che testimonia di un’ignoranza della storia davvero sorprendente. Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi. […] Come sempre nella storia, anche in questo caso vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti e cercano con ogni mezzo di realizzarli ed è importante che chi vuole comprendere quello che accade li conosca e ne tenga conto. Parlare, per questo, di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti. Ma definire complottisti coloro che cercano di conoscere le vicende storiche per quello che sono è semplicemente infame. (Agamben, 2020b).

Indubbiamente l’assiduo ricorso a tali etichette non ha motivazioni scientifiche, poiché chiunque abbia anche solo delle minime basi di epistemologia sa bene che la vera scienza si basa sui dubbi Tangocci, 2020a), non sul tentativo di ridicolizzare le affermazioni non gradite. Appare inoltre ben poco coerente con i principi democratici del diritto alla libertà di espressione e decisamente più funzionale ai principi sintetizzati nella ben nota locuzione latina “divide et impera”. Ancor più alla luce delle recenti affermazioni di un rappresentante di primo piano del partito attualmente alla maggioranza, che lo hanno portato a ricevere una denuncia per istigazione alla rivolta11 popolare nei confronti dei cittadini che manifestano il loro dissenso con le misure intraprese.

La comunicazione istituzionale

Come noto, soprattutto nel primo periodo emergenziale, si sono susseguiti a ritmo incessante, decreti del presidente del consiglio dei ministri, decreti ministeriali, ordinanze dei presidenti delle regioni, delle province autonome, e finanche da parte dei sindaci dei più piccoli comuni. In virtù del dichiarato stato di emergenza, e nonostante i dubbi di legittimità espressi perfino da un giudice emerito della Corte Costituzionale12, per i cittadini sono venuti meno alcuni dei diritti esplicitamente affermati da norme di rango superiore. Perfino i cittadini che ritengono, e ritenevano, perfettamente legittime e doverose tali misure senza precedente storico, si sono tuttavia dovuti confrontare con la difficoltà di capire cosa gli fosse o meno concesso fare. A titolo di esempio, tra i tanti possibili, la definizione di “congiunti” che ha richiesto interminabili discussioni su chi fossero finché, sia pure mantenendo alcune vaghezze, non è stato specificato nelle FAQ ufficiali. Eppure, nel caso ad esempio, sarebbe stato sufficiente ricorrere da subito anche solo alla padronanza della lingua italiana garantita da ogni percorso di studio, per evitare ambiguità; né sembra essere soddisfatto il principio di tassatività. Al contempo, la comunicazione ai cittadini di quali fossero i diritti residui che potevano esercitare, è giunta a ricorrere a mezzi tutt’altro che istituzionali come la diretta Facebook.

La fretta, è risaputo, è una cattiva consigliera. Nondimeno appare strano che anche, e soprattutto, in una situazione di emergenza, le direttive ufficiali fossero così difficilmente comprensibili. Che l’efficacia di una direttiva volta a fronteggiare uno stato di pericolo, o supposto tale, sia direttamente proporzionale alla sua probabilità di essere immediatamente compresa e eseguita è cosa ben nota. Ogni governo, e in questo il nostro non fa eccezione, ha dato prova di saper essere chiaro e conciso in molte occasioni, pertanto è difficile immaginare perché a fronte di una situazione ritenuta di estremo allarme, nella quasi totale mancanza di opposizione politica, e valendosi di esperti, commissioni e task force, il risultato sia stato tanto confuso. Anche a tal proposito non posso che limitarmi a constatare che il disorientamento derivante sarebbe funzionale ad un ipotetico potere che volesse alimentare lo stato di allerta e sfruttarlo per indirizzare l’opinione pubblica in una qualche direzione voluta.

Conclusioni

Mi fermo qui, senza addentrarmi nella valutazione di aspetti di ordine medico o giuridico, come le motivazioni soggiacenti il ritardo nelle autopsie, l’attendibilità dei tamponi, la reale necessità, o anche solo utilità, di scelte draconiane come il confinamento in casa di milioni di cittadini sani, o la costituzionalità di tale scelte, la cui valutazione non è di mia competenza, come invece lo è l’analisi della comunicazione effettuata. Limitatamente a tale proposito, posso tranquillamente affermare, e spero di averne sufficientemente illustrato le argomentazioni soggiacenti, che, relativamente alla comunicazione inerente il Covid-19, molti aspetti suggeriscono che una manipolazione possa effettivamente esserci stata, poiché, se così fosse, si sarebbe molto probabilmente valsa proprio delle strategie consapevolmente o inconsapevolmente mese in atto dai media e dalle istituzioni in questi mesi.

Come premesso non è mio compito indagare se tale improbabile congiuntura di eventi sia puramente casuale, o consapevolmente manipolata. Per quanto mi sovvenga una frase attribuita a Giulio Andreotti, che recita: “a pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina.” Nondimeno le mie competenze, e con esse il mio compito, si esauriscono col fornire queste indicazioni a chi per professionalità e pertinenza è chiamato a vegliare affinché sussistano tutti i requisiti per una reale partecipazione democratica. Mi auguro pertanto che i giornalisti investigativi e i magistrati, vorranno approfondire e delucidarci in proposito.

 


Riferimenti Bibliografici

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2Art. 610 cod. pen.

8Legge 28 marzo 2001, n° 145.


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UN’ANALISI CRITICA SUL CONCETTO DI COMPLOTTISMO

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Alice Lazzari – il Regno dell’Ongheu

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Ormai da mesi ci siamo abituati ad una nuova normalità imposta e sempre più diventa necessario interrogarsi sul significato di parole che sembrano entrate nel vocabolario comune, e che, già nella loro forma più implicita, delineano fazioni, spaccature, contrasto.

Un effetto della condizione di pandemia che stiamo vivendo è che chi teme fortemente questo virus e considera l’altro come possibile untore, come possibile causa di contagio, di malattia, di morte, non riesca a tollerare che qualcuno metta in dubbio le sue sicurezze e la convinzione che tutto ciò venga fatto per il bene della comunità. Diventa allora un nemico, un complottista, chiunque dica qualcosa non in linea con i messaggi che arrivano “dall’alto” ampiamente veicolati dai mass media. Tra mascherine e distanza sociale, controlli in arrivo e partenza, chiusure in casa, isolamento totale in ospedale nei momenti più delicati e fragili della malattia e della morte, aggiungiamo dunque la separazione tra buoni e cattivi tra chi, “buono” difende la salute pubblica aderendo con solerzia alle direttive che arrivano dall’alto, e chi comincia a mettere in discussione tali direttive e le verità che le sostengono e viene additato come “cattivo”, menefreghista, egoista, complottista.

Vorremmo iniziare questo articolo citando un aforisma di Baruch Spinoza:mi occupai con diligenza di non deridere, di non piangere, di non condannare, ma solo di comprendere (…) le azioni umane (Spinoza, 1941, 147), nel quale egli esprime un atteggiamento empatico nei confronti dei suoi simili, scevro da facili pregiudizi. Così, quattro secoli dopo, vorremmo approcciarci a comprendere le motivazioni che spingono le persone a puntare il dito contro, tacciando di complottismo, se non di negazionismo, chi esprime opinioni contrarie alle proprie.

Gli effetti dell’influenza sociale e la dissonanza cognitiva

Alla base delle diverse teorizzazioni, che nell’ottica della psicologia sociale possono permetterci di spiegare l’attribuzione di complottismo a quanti hanno un’opinione divergente rispetto a quella dominante, si pongono gli studi classici e recenti sul fenomeno del conformismo e sui processi ad esso correlati.

Per conformismo si intende comunemente la tendenza ad adattarsi alle norme seguite dalla maggioranza che stabiliscono cosa sia giusto pensare, sentire o agire in un contesto sia privato che sociale. In questo quadro il concetto di norma sociale assume dunque un ruolo centrale rappresentando il parametro di riferimento di processi anche molto complessi che regolano l’agire individuale, le relazioni interpersonali e le dinamiche sociali. Le norme sociali per definizione rappresentano un modo generalmente accettato di pensare, sentire e comportarsi che risulta da un accordo all’interno della maggioranza del gruppo e da essa sostenuta come giusto e corretto (Thibaut e Kelly, 1959). Riflettono dunque valutazioni di gruppo condivise su ciò che è giusto o sbagliato, vero o falso, opportuno o inopportuno, che spesso prendono la forma di “opinione pubblica”, “il modo corretto in cui bisogna comportarsi”, “il modo in cui stanno le cose”. Per loro natura le norme sociali possono essere definite descrittive, rappresentando ciò che gli altri pensano, sentono o agiscono (ad esempio, in tempo di pandemia la maggior parte delle persone evita di stabilire un contatto fisico con gli altri ritenendolo pericoloso, indossa la mascherina ed è preoccupata per il futuro) o ingiuntive, indicando ciò che le persone dovrebbero pensare, sentire o fare (bisogna applicare il distanziamento sociale, indossare la mascherina, non abbassare la guardia di fronte ad un pericolo imminente). Quando molte persone si comportano ripetutamente sempre allo stesso modo può svilupparsi la convinzione che sia doveroso agire così e in questo caso la norma sociale da descrittiva può diventare ingiuntiva (Guala e Mittone, 2010) rappresentando la base per lo sviluppo di un automatismo che diventa poi difficile mettere in discussione e modificare. Un’ulteriore distinzione riguarda il conformismo privato che è il frutto di una interiorizzazione della norma sociale che spinge l’individuo a pensare, sentire e agire in modo conforme al gruppo anche quando questo non è fisicamente presente (mi convinco che mantenere la distanza sociale, indossare la mascherina e rimanere in allerta siano valide forme di protezione), e il conformismo pubblico che si verifica quando l’individuo è compiacente pubblicamente verso una norma sociale per effetto della pressione reale o immaginata degli altri ma non interiorizza tale norma (ritengo che la mascherina non abbia effetti protettivi ma la indosso per non sentirmi criticato o dovermi giustificare). In generale tale compiacenza è giustificata dal tentativo di evitare le conseguenze negative del rifiuto di una norma, come il discredito, l’esclusione e l’applicazione di sanzioni. Per quanto di fronte a insistenti e potenti pressioni esercitate dal gruppo noi possiamo decidere di conformarci solo pubblicamente, la maggior parte delle volte mettiamo in atto l’accettazione privata delle norme e frequentemente tale processo avviene al di fuori della nostra consapevolezza (per effetto della ripetizione quando mi avvicino all’altro mi viene spontaneo mantenere la distanza). Ne consegue inoltre che tanto più una convinzione sociale diventa radicata interiormente tanto più forte sarà la sua difesa, sia a livello individuale che di gruppo, rispetto alle convinzioni divergenti.

Cosa motiva la spinta al conformismo? Tra le diverse motivazioni ricordiamo senz’altro il bisogno di consenso, che consiste nella percezione che la nostra visione del mondo sia la stessa degli altri simili a noi con il vantaggio di sentirci sicuri e nel giusto. Altre due spinte basilari sono il bisogno di accuratezza, garantito dall’influenza informativa (riteniamo che il gruppo disponga di informazioni corrette sulla realtà che accettiamo come tali) e il bisogno di appartenenza, soddisfatto dall’influenza normativa (ci adeguiamo alle norme del gruppo per ottenere un’identità sociale positiva e apprezzata e conquistare il rispetto degli altri membri del gruppo). Queste spinte diventano tanto più forti quanto più il gruppo è saliente per l’individuo e l’appartenenza ad esso è definita sulla base di valori importanti. Ciò comporta che la nostra adesione e la nostra difesa sarà molto più forte nei confronti di norme descrittive e ingiuntive radicate nel gruppo di appartenenza e condivise dai loro membri (Christensen et al, 2004). Al contrario non abbiamo bisogno di trovarci d’accordo con i membri di gruppi esterni e non siamo preoccupati di trovare aspetti in comune con essi (Robbins e Krueger, 2006). Questo atteggiamento può favorire l’espressione di un giudizio negativo e attribuzioni stereotipate e pregiudiziali verso chi esprime opinioni diverse e diverse visioni della realtà. Ne consegue che chi tende ad andare contro corrente rispetto al pensiero dominante venga spesso punito, ridicolizzato o rifiutato (Abrams et al., 2014).

L’affidamento all’influenza informativa risulta particolarmente accentuato quando l’individuo ha la percezione di vivere un periodo di crisi e si confronta con una situazione potenzialmente pericolosa e minacciosa che non sa come gestire autonomamente. In questo caso l’informazione data dagli altri e il loro comportamento (norme ingiuntive e descrittive) possiedono un alto valore informativo. In sintesi le situazioni in cui aumenta la tendenza al conformismo attraverso l’influenza informativa sono rappresentate dall’ambiguità della situazione (Huber, Klucharev e Rieskamp, 2014), dalla percezione di un pericolo che suscita paura e insicurezza (Aronson, Wilson e Sommers, 2019), dalla presunta presenza di esperti, che a sua volta sostiene il processo di obbedienza all’autorità (Williamson, Weber e Robertson, 2013). Nella teoria dell’impatto sociale, Latanè (1981) sostiene che la probabilità con cui rispondiamo all’influenza sociale proveniente dagli altri derivi da tre fattori principali: a) la forza, ossia il grado di importanza che il gruppo ha per noi (nella situazione della pandemia l’adeguamento alle prescrizioni è stato favorito dal fatto che la maggior parte delle persone aspira a essere considerata onesta e responsabile dalla società); b) l’immediatezza, ossia il grado di vicinanza spaziale e temporale che il gruppo ha nei nostri confronti durante il tentativo di influenza (attraverso tutti i canali mediatici è stato effettuato un bombardamento di informazioni unilaterali rispondenti all’idea del pericolo e alla necessità delle limitazioni), c) la numerosità, il numero di soggetti dai quali subiamo la pressione (la campagna è stata compiuta su larga scala e ha trovato consenso e rinforzo nella maggioranza delle persone).

Un fenomeno correlato è quello della polarizzazione del gruppo. La polarizzazione del gruppo si verifica quando la posizione media iniziale del gruppo diventa sempre più estrema. Ciò può essere il frutto sia dell’utilizzo superficiale della strategia euristica del consenso che spinge gli individui incerti ad abbracciare il consenso della maggioranza spostando la visione del gruppo verso un estremo (Bohner, et al., 2008), sia la risultante del desiderio di ogni membro di essere il miglior membro possibile andando anche oltre la visione condivisa dalla maggioranza (Codol, 1975).

La ricerca del consenso, sottostante la spinta al conformismo, prende dunque a volte strade sbagliate. Tale consenso è infatti inaffidabile quando presuppone un’adesione acritica al pensiero degli altri, quando si fonda su pregiudizi condivisi e quando è sostenuta da un conformismo pubblico che implichi la sola adesione superficiale alla norma sociale in assenza di un processo di pensiero sistematico. In casi estremi si può assistere anche al fenomeno dell’ignoranza pluralistica in cui le persone di fronte ad una decisione da prendere, in un processo di influenza reciproca, si limitano a conformarsi a ciò che pensa, sente o fa l’altro.

In uno scenario diverso si colloca l’influenza della minoranza che per sua definizione non possiede la forza, l’immediatezza e la numerosità del gruppo di maggioranza. La sua influenza, spesso associata ai cambiamenti e alle più importanti trasformazioni sociali, risulta particolarmente preziosa ma è spesso oggetto di attacchi e pregiudizi. L’affermarsi del pensiero della minoranza e il successivo consenso sono possibili attraverso un attento e a volte lungo processo di validazione che non si fonda sul semplice confronto sociale, che è alla base del conformismo, ma su un processo di elaborazione sistematica dei dati. Dunque, se nell’influenza della maggioranza si possono individuare un’influenza normativa e una informativa, l’influenza della minoranza è resa possibile dalla sola influenza informativa che si concentra su visioni alternative e divergenti della realtà rispetto a quelle della maggioranza, sulla base di argomentazioni forti, prove di validità e soluzioni creative alle situazioni. Con l’obiettivo di stimolare l’interiorizzazione di una norma diversa da quella ampiamente condivisa, la minoranza deve mostrarsi coerente e tale da suscitare un pensiero critico in grado di mettere in discussione il pensiero dominante e causare una rottura dell’unanimità e della acquiescenza. È proprio in risposta a tale dinamismo che la maggioranza, anche grazie alla forza dei suoi strumenti mediatici, attiva le sue difese incrementando la compattezza delle sue idee e svalutando quelle ritenute devianti.

Ritornando al concetto iniziale di complottismo attribuito ai gruppi che non seguono le idee dominanti appare dunque chiaro come tale etichetta sia funzionale al mantenimento di un pensiero accettato e diffuso come giusto e alla svalutazione del pensiero divergente.

A tal proposito risultano molto interessanti i risultati di recenti ricerche che hanno invece evidenziato come, diversamente da quanto sostenuto dagli stereotipi culturalmente diffusi, le persone etichettate come “teorici della cospirazione” si presentino più sane ed equilibrate rispetto a chi accetti le versioni ufficiali dei fatti contestati. Uno studio pubblicato nel 2013, in merito alle vicende dell’11 settembre 2001 (Wood, Douglas, 2013) ha confrontato i commenti di tipo “cospirazionista” e “convenzionalista”, postati da utenti di siti di notizie online. Un primo dato riguarda la maggiore numerosità di commenti a supporto della teoria del complotto rispetto a quelli delle persone che continuano a reputare valide le versioni ufficiali dei fatti trasmesse dai media “ufficiali”. Ciò risulta indicativo di una versione di tendenza rispetto a ciò che viene definita maggioranza o minoranza. Inoltre i soggetti che si fanno portavoce di una visione convenzionalista esprimono i loro commenti con maggiore rabbia ed ostilità e con maggiore tendenza al fanatismo. Diversamente i cosiddetti cospirazionisti non pretendono di avere un’unica teoria esplicativa dei fatti ma elaborano ipotesi con argomentazioni più complesse e articolate. In breve, lo studio evidenzia come le caratteristiche stereotipate di fanatismo ostile, espressione della propria setta di appartenenza, attribuite ai complottisti in realtà siano maggiormente descrittive di coloro che difendono le versioni ufficiali. Ancora i complottisti presentano una migliore visione d’insieme e una capacità critica nei confronti del contesto storico.

Sempre rimanendo sul tema la Manwell (2010) asserisce che le persone anticomplottiste spesso non sono in grado di ragionare con lucidità sui fatti incriminati per via della loro incapacità di elaborare informazioni in contrasto con una linea di pensiero inculcata precedentemente. Anche Hoffman (2010) sostiene che gli individui che si contrappongono alle teorie cospirative siano soggetti a un forte bias di conferma che motivi da una parte la ricerca di informazioni congruenti con le convinzioni preesistenti, dall’altra favorisca forme di etichettamento di chi sostiene posizioni diverse nel tentativo di evitare di confrontarsi con informazioni contrastanti.

Nella sostanza questo processo di difesa delle proprie convinzioni, anche di fronte a prove fondate e documentazioni di carattere scientifico, rimanda alla messa in atto di strategie atte a risolvere uno stato di dissonanza cognitiva, che nel caso specifico di eventi catastrofici che coinvolgano l’intera umanità, può essere vissuto non solo nella propria individualità ma essere oggetto di condivisione e rinforzo sociale. Viene definita dissonanza cognitiva lo stato mentale di disagio che nasce da un’incoerenza tra due rappresentazioni dello stesso atteggiamento come quando gli individui si trovano a comportarsi in modo discrepante rispetto alle proprie convinzioni (Festinger, 1957). Di base la dissonanza produce disagio e di conseguenza si generano, spesso in modo inconsapevole, delle pressioni per ridurla o per eliminarla. Tra le forme più ricorrenti di riduzione vi sono: a) la tendenza a modificare una o più delle convinzioni, opinioni o comportamenti coinvolti nella dissonanza, b) acquisire nuove informazioni che aumentino lo stato di consonanza, c) negare o ridurre l’importanza delle cognizioni che risultino dissonanti (Festinger, 1951). Ma cosa accade quando questo fenomeno assume un carattere sociale e diventa esperienza condivisa? In questo caso i meccanismi attuati non riguardano il solo singolo individuo ma entrano in gioco processi relazionali che connotano una risposta sociale. In tal caso vengono agiti contemporaneamente processi cognitivi di ridefinizione e meccanismi di difesa ma anche processi intergruppi che possono sfociare in stereotipizzazioni, pregiudizi, discriminazioni e la messa in atto di processi persuasivi e manipolatori tesi a rinforzare ancora di più il proprio quadro di credenze e screditare il punto di vista divergente. Tale processo risulta tanto più forte quanto più le convinzioni sono state interiorizzate e hanno assunto rilevanza per l’azione, in riferimento a quelle convinzioni le persone hanno assunto un impegno e attuato un investimento e si è innescato un forte sostegno sociale (Festinger, Riecken, Schachter, 2012). Nel caso della pandemia queste condizioni sembrano essere tutte presenti dal momento che il tema della salute e la protezione dal pericolo di malattia e morte ha assunto immediatamente una forte rilevanza per le persone determinando un marcato impegno personale in termini di azioni e sacrifici e generando immediatamente una condizione di rinforzo, modellamento e controllo sociale. Non stupisce dunque che di fronte a dati che mettano in discussione le credenze interiorizzate sullo stato della pandemia la maggior parte della popolazione difenda collettivamente e strenuamente le convinzioni a cui ha aderito e per le quali ha fatto sacrifici attribuendo agli altri senso di irresponsabilità e mancanza di senso civico.

Il pensiero di gruppo e la chiusura cognitiva

Un processo riscontrabile nei gruppi fortemente coesi, in cui l’organizzazione e il senso di identità si strutturano attorno a un nucleo saldo di idee e convinzioni, è il pensiero di gruppo. Questo è definibile come la tendenza da parte dei membri di un gruppo coeso a orientarsi, durante un processo decisionale, in modo unanime verso una direzione e un pensiero convergente trascurando la possibilità di cercare visioni e soluzioni alternative. Tale tendenza esalta la ricerca del consenso e della lealtà al gruppo rinforzando di conseguenza la risposta di acquiescenza da parte dei membri che già abbiamo definito come aspetti centrali del conformismo. Il pensiero di gruppo tende quindi a sostenere la tendenza all’omologazione. Secondo Janis (1982) gli elementi a cui possiamo attribuire l’insorgenza di un pensiero di gruppo sono l’alta coesione interna al gruppo, l’isolamento del gruppo, simbolicamente raffigurabile anche come evitamento del confronto con le idee divergenti dalle proprie, la presenza di un leader carismatico o di una autorità percepita come forte, fenomeni come la depersonalizzazione, la deindividuazione e il favoritismo verso il gruppo di appartenenza.

La polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo possono essere intesi anche come forme di centrismo di gruppo. Quest’ultimo include una serie di atteggiamenti (opinioni, valutazioni affettive e comportamenti) che rispecchiano il significato e il valore che il gruppo ha per i suoi membri e che si caratterizza per una marcata ricerca di consensualità e omogeneità interne, una tendenza al conservatorismo, la preferenza per una leadership forte e sentimenti positivi verso l’ingroup e negativi verso l’out-group. Non appare dunque strano che una simile impostazione sia la base di un atteggiamento di autorinforzo delle proprie idee e forme di comportamento e di svalutazione ed etichettamento negativo di chi si pone in modo critico e ha una visione che non si uniformi al gruppo. Per spiegare questo fenomeno è utile chiamare in causa il concetto di bisogno di chiusura cognitiva che regola i processi di assimilazione e mantenimento delle conoscenze di un gruppo (Kruglanski 1989, 2004). In sintesi, un alto livello di chiusura cognitiva spinge verso l’uniformità e l’omologazione piuttosto che verso la differenziazione, considerando che la pressione verso tale uniformità non deriva soltanto dall’alto ma trasversalmente dagli stessi membri del gruppo che occupano posizioni paritarie. Inoltre la chiusura cognitiva facilita la concentrazione del potere in pochi elementi del gruppo (autocrazia) e crea un forte rifiuto di gruppi esterni. Per quanto riguarda il mantenimento delle conoscenze acquisite, un alto livello di chiusura cognitiva comporta un aumento del rifiuto delle opinioni sentite come minacciose verso il consenso (devianti); questo aspetto può diventare un rinforzo verso la valorizzazione di membri che sono attivamente conformisti. Da ciò ancora una volta non può che notarsi il rinforzo di atteggiamenti conservatori e di opposizione verso quelli innovativi; la tendenza a reprimere qualsiasi forma di violazione delle regole; infine, un alto livello di chiusura cognitiva spingerà alla promozione della lealtà verso la cultura del gruppo (Pierro, et al., 2007).

L’obbedienza all’autorità

Parlando di complottismo (quindi di reazione al messaggio proveniente dall’autorità) e convenzionalismo (completa accettazione dello stesso) un contributo importante può essere fornito da Milgram e dalla sua storica ricerca sull’obbedienza all’autorità (Milgram, 1963, 1974). Tale studio, proposto nel tempo in 18 versioni, ha certamente il merito di aver studiato la complessità di tutti quei processi che regolano la risposta ad un ordine proveniente da un individuo con uno status superiore all’interno di una gerarchia definita. Grazie alla manipolazione di alcune variabili, diversa in ognuno dei 18 studi, Milgram riuscì ad individuare in quale circostanze l’obbedienza risultasse più elevata. Risultò quindi che l’influenza maggiore sui soggetti gerarchicamente inferiori era data da:

  • la lontananza della vittima, i soggetti degli esperimenti erano evidentemente separati tra loro, definiti sperimentalmente come appartenenti a gruppi estranei;

  • la vicinanza dello sperimentatore nelle vesti dell’autorità, l’autorità aveva una evidente priorità nella relazione col soggetto sperimentale;

  • la legittimazione dell’autorità, quando gli sperimentatori erano presenti ed erano presenti chiari riferimenti alla loro autorità il soggetto tendeva ad obbedire con percentuali elevate;

  • la pressione dei pari, come pressione all’uniformità soprattutto se agite in un contesto di ridotta libertà reale o percepita;

  • una caratteristica minore era data dall’autoritarismo, gli individui che tendevano ad obbedire di più erano quelli maggiormente autoritari.

Per concludere, secondo Milgram, l’esecuzione di un ordine provocherebbe un effetto di responsabilità diffusa: la responsabilità non viene percepita come personale in quanto frutto di una decisione del gruppo, o meglio di una autorità riconosciuta dall’esecutore. Tale processo, pur non avendo eliminato, nelle varie situazioni sperimentali, la sofferenza per quanto impartito ad una vittima, è comunque in grado di ridurre la sottostante dissonanza cognitiva, derivante dall’agire in modo probabilmente contrario ai propri valori (Pedon, 2011).

Le euristiche e i bias cognitivi

Un interessante contributo alla comprensione della tendenza ad aderire ad un pensiero comune e condiviso, attribuendo a ciò che si discosta da questo una connotazione negativa e riduttiva, fa riferimento alle teorie di Tversky e Kahneman che nel 1974 vennero pubblicate con il titolo “Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases”. Gli autori descrivono come gli esseri umani, in un mondo dominato dall’incertezza e da risorse mentali limitate, dovute a limiti di tempo, di informazioni e di capacità cognitive, prendono le loro decisioni utilizzando un numero limitato di euristiche, ossia di scorciatoie mentali, anziché utilizzare sofisticati processi razionali. Kahneman ci spiega come durante l’evoluzione l’Homo Sapiens, al fine di sopravvivere in ambienti ostili, abbia imparato ad utilizzare le euristiche, le quali funzionano correttamente in molti ambiti di vita ma producono errori sistematici di attribuzione (bias) in molte altre (Hewstone, Stroebe, Jonas, 2012). Passiamo in rassegna alcuni di questi bias che come effetto possono determinare la frammentazione del nostro tessuto sociale con il nascere e persistere di fazioni contrapposte in cui vi sono i buoni che vogliono il bene del prossimo e pensano alla salute pubblica e i cattivi, i cosiddetti complottisti, che a detta dei primi, pensano solo a loro stessi. Il bias che deriva dalle euristiche della rappresentatività e della disponibilità si caratterizza, ad esempio, per la violazione di regole probabilistiche a favore di opzioni più rappresentative e più mentalmente disponibili (Aronson, 2019). Pertanto, se pensiamo alla situazione COVID19 è chiaro che le informazioni che arrivano dai canali informativi ufficiali sono maggiormente disponibili e sembrano più autorevoli, maggiormente probabili e credibili. Tra tutti il “Bias Blind Spot” (Pronin, 2015) è forse il più intrusivo e suggestivo e riguarda la tendenza a ritenere oggettiva la propria lettura della realtà differentemente dalla lettura soggettiva attribuita agli altri. Ciò sottende la mancata consapevolezza di interpretare gli eventi attraverso il filtro del proprio sistema di convinzioni e del punto di vista proprio o del gruppo di appartenenza.

Un altro bias determinante nello spiegarci il fenomeno qui trattato è quello chiamato “Error Management Theory per cui quando i costi di differenti tipi di errori sono asimmetrici rispetto ai benefici, per effetto della selezione naturale, si innescheranno meccanismi cognitivi che massimizzeranno l’errore meno dannoso per l’essere umano. Pertanto, ad esempio alcuni uomini, potrebbero massimizzare l’attrazione sessuale che le donne provano per loro, valutando in modo erroneo i messaggi non verbali che provengono da queste ultime e tale bias avrebbe comportato un vantaggio di tipo riproduttivo nel corso dell’evoluzione. Sempre riferendoci al nostro contesto, potremmo ipotizzare che l’errore meno dannoso sia proteggerci da un virus contagioso e mortale, per quel che possiamo saperne e per quello che ci viene raccontato dai media ufficiali, piuttosto che approfondire le informazioni sull’argomento che porterebbero a scelte diverse da quelle ufficiali (Haselton, Buss, 2000). Tale Bias, letto in quest’ottica, richiama il bias “Better safe than sorry”, che comporta il preoccuparsi preventivamente piuttosto che dolersi in un secondo tempo di un comportamento negligente, senza tener però conto dei reali rischi, infatti quest’euristica è quella più inflazionata nei disturbi d’ansia (www.apc.it).

Dalla prova scientifica allo scientismo della verità

Secondo la teoria del mondo giusto di Lerner (1980) le persone hanno l’idea che ognuno nella vita ottenga ciò che realmente si merita. Pertanto, in una sorta di fatalismo sociale, la maggior parte delle persone potrebbe essere indotta a ritenere più o meno consapevolmente, che ognuno sia l’artefice del proprio destino e che, a seconda dei propri pensieri e azioni nel mondo, ognuno raccolga ciò che ha seminato. Così, per chi assume questa visione implicita del mondo, le persone buone verranno certamente ricompensate mentre quelle cattive riceveranno la commisurata punizione per le loro azioni. Alla base di tale ideologia vi è la convinzione inconscia che, essendo le azioni personali di chi agisce bene certamente giuste, in un mondo che per sua definizione è equo e riconoscente, il bene infine deve essere riconosciuto e ricompensato.

Cosa succede, invece, in un mondo in cui un gruppo consistente di persone crede che la teleologia dell’universo porti al riconoscimento delle proprie buone azioni mentre un’altra non ci crede affatto? Una prima ricaduta consiste nel confermare il giusto castigo per chi si ritiene debba meritarsi le conseguenze dei suoi gesti, qualora queste siano negative o rovinose.

Per esempio, non è infrequente ascoltare offensivi giudizi all’indirizzo delle vittime di stupro, che attribuiscono a queste la responsabilità di ciò che hanno subito, per esempio per l’abbigliamento troppo provocante. Tali esternazioni seguono una logica manichea che distingue il mondo secondo categorie morali assolute: il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, ecc…

Possiamo ritrovare questi atteggiamenti nell’attualità, quando vediamo esplodere la vendicatività, soprattutto sui social media, verso persone che sostengono una versione della pandemia diversa da quella ufficiale. Possiamo notare come il dileggio e il giudizio moralistico si abbattano su tali individui, con sequele di malauguranti auspici di contagio e sventura, anche per la restante parte di scettici non ancora colpita. Ognuno di questi soggetti, seguendo la teoria di Lerner, è giudicato meritevole del castigo della malattia.

Chi da tempo ha sviluppato un atteggiamento critico nei confronti della storia, può aver sperimentato in prima persona la difficoltà di conciliare la contraddizione tra i principi di onestà, rettitudine, rispetto delle leggi, costruzione del bene comune, comunità e il perseguire l’obiettivo di una sopravvivenza individualistica a discapito del prossimo. Contraddizioni che rispecchiano la difficoltà di cercare aspetti nascosti di una verità di ordine morale, filosofico e introspettivo, non basati sull’accettazione fideistica di informazioni, anche quando si presentano come “verità” scientifiche, da qualsiasi parte giungano, ma sulla verifica delle fonti, del proprio atteggiamento di fronte agli studi e alle ricerche scientifiche, alle notizie, alle ideologie, agli schieramenti.

Molti elementi concorrono a rendere il rapporto tra fatti e verità più complesso di quanto sia immaginabile. Innanzitutto: nell’attualità questa relazione si è arricchita di un ulteriore elemento poco maneggevole, alla verità dei fatti si è aggiunto il concetto di “verità” scientifica in cui le teorie, le sperimentazioni o i concetti di natura medico-scientifica, si fondano sui principi di non-contraddittorietà e falsificabilità sperimentale. L’impianto falsificazionista inoltre amplifica sempre più la distanza tra laboratorio e vita reale, misurata dal metro dell’impianto riduzionistico che persegue ciecamente una pretesa obiettività scientifica, tanto più esasperato quanto più sofisticata diventa la tecnologia e le “matematiche” utilizzate dalla ricerca. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia: “Il potere dell’uomo sulla natura e la distanza che egli riesce a frapporre tra sé e il mondo per dominarlo sono ciò che consentirà lo sviluppo delle scienze naturali: ma una volta posta la stessa distanza fra l’uomo che indaga e l’uomo indagato (fra il soggetto di conoscenza e l’oggetto di natura), il potere dell’uomo sulla natura si traduce nel potere dell’uomo sull’uomo” (Ongaro, 1982,. 156). Questa riflessione ci porta ad assumere una posizione critica rispetto al potere che la verità scientifica ha conferito ai tecnici della scienza, al meccanismo sociale e psicologico che permette loro di eleggere la propria voce come assoluta, per quanto teoricamente falsificabile, come anche a osservare le sinergie che traducono le loro traiettorie in meccanismi di potere sui sistemi sociali, sulle masse e sui singoli esseri umani.

La differenza tra i tempi di Ongaro Basaglia e quelli attuali risiede nel livello avanzato della specializzazione raggiunta dalla tecnologia della ricerca, che assolda un esercito di specialisti in ogni branca a difesa di interessi economici e politici, gli stessi che hanno determinato lo svuotamento rappresentativo della partecipazione popolare alla politica e alla sostanzialità del voto, che ha trasformato la democrazia rappresentativa in “democrazia televisiva”.

Conclusioni

La storia è piena di congiure, cospirazioni, o orditi segreti di chi il potere lo aveva e puntava a mantenerlo o espanderlo, e di chi il potere non lo aveva e desiderava ottenerlo. Agamben ci dimostra come la Storia sia stata da sempre contrassegnata da complotti: da Alcibiade, a Napoleone, fino a Mussolini. E, “come sempre nella storia, anche in questo caso vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti e cercano con ogni mezzo di realizzarli ed è importante che chi vuole comprendere quello che accade li conosca e ne tenga conto. Parlare, per questo, di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti” (www.quodlibet.it).

Ripartendo dalle nostre prime affermazioni, in questo articolo si è discusso di concetti che nascono da parole “non-nostre”, parole dell’umana vulnerabilità, dell’umano resistere tenendosi stretti – poiché ci sarebbe un Noi da recuperare dietro tutto questo. Noi che ci aiutiamo a sopravvivere facendo ciò che limitatamente all’essere umano può essere fatto, senza calpestarci verso l’uscita mentre la stanza è in fiamme; parole costruite e vendute in sacchetti di plastica, infilate di soppiatto alla cassa del supermercato; parole da marketing politico ormai assonanti ed egosintoniche, ma non per questo umane. E se il linguaggio crea il mondo, dovremmo costruire nuove bilance per pesare il peso delle parole. Se il linguaggio crea il mondo, attenzione a quello che ascoltiamo e che diciamo.

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