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Channel: Psicologia sociale – Rivista Piesse
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Ricerca sul desiderio di paternità

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1_11Edonismo, centralità dell’impegno lavorativo e desiderio di paternità

In questa ricerca del 1996 è stata studiata la relazione tra desiderio di paternità, edonismo e centralità dell’impegno lavorativo su un campione di 116 uomini celibi, senza figli, tutti lavoratori, di età compresa tra i 20 ed i 30 anni.
Si è riscontrato che la presenza di un alto livello di edonismo si manifesta in corrispondenza di un debole desiderio di paternità. Il desiderio di un figlio è inoltre correlato negativamente con un atteggiamento difensivo verso la paternità. Infine, sia la centralità dell’impegno lavorativo, sia atteggiamenti di autocritica ed autodistruzione si correlano con il desiderio di paternità in modo diverso in relazione allo stato socio-culturale.

Questo studio è stato pubblicato su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 1996, Vol. 2, No. 1, 67-84.


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Ricerca sul desiderio di maternità

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mamma_mIl desiderio di maternità in donne che lavorano

Questo articolo descrive una ricerca del 1995 svolta su un campione di 99 donne, tra i 20 e i 30 anni, impegnate in un lavoro a tempo pieno, nubili e senza figli, è stato osservato l’impatto del vissuto di burnout sul desiderio di maternità. Si è riscontrato che la presenza di un più alto livello di burnout, sperimentato dalla donna nel contesto lavorativo, è associato ad un debole desiderio di maternità. Il desiderio di un figlio risulta invece correlato positivamente con comportamenti indicanti la presenza di rapporti sociali, con l’atteggiamento ottimistico da parte della donna, nonché con la percezione serena e positiva di sé.

Questo studio è stato pubblicato su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 1995, Vol. 1, No. 2, 161-172


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Automatismi e processi inconsci

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Automatismi e processi inconsci: una tassonomia dei processi consci e inconsci

 

L’analisi del comportamento sociale dell’uomo, negli ultimi decenni, ha sempre più focalizzato
l’attenzione sui processi di natura inconscia e automatica attraverso i quali avviene l’elaborazione dell’informazione e la scelta e la messa in atto di comportamenti, pensieri ed emozioni a volte anche contrastanti con i propri interessi e i propri valori. Sebbene le radici di tali teorizzazioni siano antiche e già rintracciabili nel pensiero di Darwin (1859) e di Freud (1901/1914), è stato negli ultimi anni che è andato affermandosi un importante filone di ricerca che, attraverso metodologie innovative, ad esempio usando le tecniche di priming, ha messo in luce le caratteristiche dell’agire automatico ed i suoi effetti. Il presente articolo offre un’analisi di tali processi attraverso una tassonomia tesa a categorizzare le diverse tipologie di comportamenti consci e inconsci. All’interno di tale cornice una particolare attenzione sarà riservata all’esecuzione automatica di quei comportamenti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo classicamente considerati sotto il pieno controllo della consapevolezza.

Questo studio è stato pubblicato su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 2013, Vol. 19, No. 3, 173-210.


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L’atteggiamento verso il Sacramento della Riconciliazione

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Il questionario ASR di Atteggiamento verso il Sacramento della Riconciliazione

L’articolo esamina una serie di descrizioni di atteggiamenti verso il Sacramento della Riconciliazione. Le descrizioni rilevano in forma di questionario alcune dimensioni psicologiche di fondo che esprimono i molti atteggiamenti che i credenti possono avere verso il Sacramento della Riconciliazione. Il questionario coglie sei dimensioni fattoriali principali, due delle quali possono essere suddivise in altri due subdimensioni. Le dimensioni rilevate vedono il Sacramento della Riconciliazione come: Dono di Dio, Mediazione tra Dio e la creatura umana, fatto di Comunità, Cambiamento in termini di conversione, intervento che richiede Punizione e Correzione attraverso la penitenza, processo che toglie l’Inimicizia con la natura e che Placa Dio. Le 8 dimensioni sono misurate mediante altrettante scale di cui sono riportate le
caratteristiche psicometriche.

Questo studio è stato pubblicato su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 2000, Vol. 6, No. 2, 153-168.


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Questionario ASR

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hopiUna concezione relazionale di Dio rilevata mediante un’analisi a due dimensioni del questionario ASR

L’articolo riporta i risultati di un’analisi a due dimensioni del questionario “Atteggiamento verso il Sacramento della Riconciliazione”, ASR. Le due dimensioni
rappresentano due atteggiamenti verso il Sacramento della Riconciliazione e allo stesso tempo esprimono due concezioni relazionali di Dio: il Dio dell’Alleanza, DA, ed il Dio della Giustizia, DG. Le due dimensioni riflettono anche due visioni dell’esperienza religiosa personale: i credenti del Dio dell’Alleanza hanno una visione neotestamentaria dell’esperienza religiosa, i cui punti di riferimento chiave sono il Dio che si dona e chiama per nome, che ha reso possibile la mediazione tra la creatura umana e Dio, il Dio trinitario che è comunità e il Dio della conversione e dell’accoglienza.; i credenti del Dio della Giustizia hanno una visione repressiva della loro esperienza religiosa e se tale visione è molto marcata, si tratta di credenti che rappresentano da vicino la concezione religiosa come la intendeva Freud, una espressione nevrotica. Per i credenti del Dio della Giustizia l’esperienza di Dio tende ad essere quella del Dio che punisce, che usa la verga per correggere, che si manifesta nella inimicizia della natura verso la creatura umana, un Dio che deve essere placato.

Questo studio è stato pubblicato su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 2000, Vol. 6, No. 2, 169-177.


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Ricerca sugli Stati dell’Io

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Gli Stati dell’Io Sé a confronto con il Dio dell’Alleanza e il Dio del Giudizio

In uno studio sulla relazione tra maturità psicologica e concetto di Dio emerge che in parte il modo nel quale le persone si fanno un’idea di Dio dipende da come esse si percepiscono e dal loro livello di sviluppo psicologico. Alti livelli della concezione di Dio amorevole a accogliente e nel contempo di Dio come giusto e non punitivo si accompagna con buoni livelli di maturazione psicologica. Se Dio è concepito come giudice punitivo, allora sia gli uomini che le donne indicano la presenza di oggetti interni affettivamente negativi. Sembra che le donne con livelli alti e medi della dimensione del Dio dell’Alleanza e livelli medi e alti del Dio del Giudizio, mostrino buoni livelli di integrazione. Non così gli uomini: essi mostrano buoni livelli di integrazione senza segni di difensività se è alto il livello del Dio dell’Alleanza e basso o medio il livello del Dio della Giudizio; se i livelli del Dio del Giudizio sono alti, gli uomini mostrano la presenza di manovre difensive legate a strategie di controllo.

Questa ricerca è stata pubblicata su cartaceo nella Rivista Psicologia, Psicoterapia e Salute, 2000, Vol. 6, No. 3, 245-279.


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La ricerca di Stanley Milgram – Erica Da Sacco

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Il fenomeno dell’influenza sociale come obbedienza all’autorità

Lo studio di Stanley Milgram e la replica di Jerry M. Burger

In questo articolo di Erica Da Sacco viene affrontato il tema dell’influenza sociale in una sua particolare manifestazione: l’obbedienza distruttiva all’autorità. L’obiettivo è quello di mettere in luce come le persone possano essere condizionate nel mettere in atto comportamenti antisociali e aggressivi perché influenzate dalla presenza di una fonte autoritaria. A tal fine verranno illustrati l’esperimento di Stanley Milgram (1963, 1974) sull’obbedienza all’autorità e la replica compiuta a distanza di più di 40 anni da Jerry M. Burger (2009).


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Il nome e l’identità – Taisia Cannizzaro

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Il nome e l’identità: indagine empirica su nome, autostima e senso di autoefficacia sociale percepita

Il presente articolo illustra un’analisi della valenza psicologica del nome e del ruolo che questo riveste
sull’identità dell’individuo attraverso la descrizione di una ricerca svolta su un campione di 100
studenti universitari di nazionalità italiana, con un’età compresa fra i 19 e i 30 anni, volta ad indagare la
relazione che c’è fra la percezione del proprio nome personale, l’autostima globale e l’autoefficacia
sociale percepita.


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L’influenza del linguaggio non verbale nella comunicazione interpersonale – Alice Trani

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L’influenza del linguaggio non verbale nella comunicazione interpersonale. Un’indagine conoscitiva con adolescenti

Il presente articolo si propone di esplorare l’ambito del linguaggio non verbale e della sua influenza nella comunicazione interpersonale. L’obiettivo è quello di soffermarsi a studiare fino a che punto il linguaggio non verbale possa incidere sul messaggio che si sta trasmettendo nel corso di una interazione. In modo particolare, l’idea è quella di indagare sperimentalmente, con un campione di adolescenti, se gestire il proprio linguaggio non verbale possa dare direzioni differenti al contenuto stesso della comunicazione.

 


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La sindrome delle molestie assillanti – Erica Da Sacco

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stalk2La sindrome delle molestie assillanti, incidenza del fenomeno nelle professioni d’aiuto

Il presente articolo tratta il fenomeno dello stalking e come esso si manifesta all’interno di una particolare categoria sociale e professionale, quella delle professioni d’aiuto. L’obiettivo è quello di analizzare il fenomeno dello stalking nelle sue caratteristiche e implicazioni, con particolare attenzione a come tale fenomeno si possa manifestare all’interno di contesti professionali caratterizzati da relazioni di cura, sostegno e aiuto.


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Psiconcologia Francesca Rossi

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Psiconcologia: quando ad ammalarsi è un bambino scarica l'articolo

Il presente articolo si propone di esplorare la disciplina della psiconcologia, che si pone come interfaccia tra l’oncologia da un lato e la psicologia e la psichiatria dall’altro. Viene preso in considerazione il vissuto del malato, i cambiamenti che la realtà individuale e relazionale subiscono a causa della malattia e le conseguenze psichiche che ne derivano. L’obiettivo è quello di promuovere la necessità di un approccio multidisciplinare in cui, accanto alle risorse della chirurgia, della chemioterapia, della radioterapia e dei trattamenti di supporto, il sostegno psicologico dei piccoli pazienti e delle loro famiglie abbia lo spazio sufficiente ad affrontare non solo la malattia e il suo trattamento, ma anche il rientro nella vita normale una volta conseguita la guarigione.

Introduzione

Anche se meno diffusi che nell’età adulta i tumori sono dopo gli incidenti, la più frequente causa di morte dei bambini. Circa 1400 nuovi casi di malattia neoplastica all’anno vengono segnalati sul territorio nazionale.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di limitato rilievo. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia una prova esistenziale sconvolgente.

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

La neoplasia oggi e il contributo della psiconcologia

La parola cancro reca con sé ancora molti significati illogici, che evocano un presagio di sciagura e di catastrofi esistenziali. Per molto tempo, il cancro non è stato una malattia come le altre, da curare e da cui si può guarire, ma una sorta di anticamera di morte, sinonimo di grande dolore e d’incalcolabile sofferenza. Nonostante allo stato attuale la bibliografia in campo oncologico sia ampia, non appare sottolineato in modo sufficiente che di cancro non sempre si muore.

Infatti, oggi, grazie alla ricerca e alle sempre maggiori competenze e conoscenze sulle cause del cancro e sui modi con cui esso cresce e si propaga nell’organismo, è stata intrapresa la strada che renderà il cancro una malattia sempre più curabile, cioè una malattia per la quale esistono terapie efficaci, dove tenendo sotto controllo i sintomi si permetterà al paziente di vivere una vita il più possibile normale (Guarino, 2006).

Dunque di cancro si vive e spesso si guarisce, ma le possibilità di guarigione e l’esito positivo del decorso della malattia sono rapportati, non solo al coinvolgimento attivo del paziente ma soprattutto alla necessità di considerare il cancro in una visione ampia e multiforme del problema. La neoplasia si organizza, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una trasformazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e assumendo un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo. Quando arriva il cancro, occorre “allacciare le cinture”, come recita il titolo del film di Ferzan Ozpetek: perché la diagnosi di tumore irrompe nella vita di una persona come una tempesta in un mare calmo, come un fulmine a ciel sereno.

Il rischio è di venire completamente travolti da questo evento traumatico, che non costituisce una vicenda esclusivamente personale: esso riguarda infatti la totalità dei sistemi sociali in cui l’individuo è coinvolto ed in prima istanza la sua famiglia.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di limitato rilievo. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia una prova esistenziale sconvolgente.

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

Il sostegno psicosociale rappresenta un elemento costitutivo del trattamento del paziente oncologico e rientra nelle responsabilità di ciascuna figura terapeutica: del medico di medicina generale, del medico oncologo, dell’infermiere, dello psichiatra e dello psicologo, dell’équipe curante nel suo complesso.

Gli interventi psicosociali in oncologia sono approcci strutturati finalizzati a favorire il corso della malattia e a migliorare la capacità di adattamento psicologico e sociale dei pazienti” (Hurny, Adler, 1989, 20).

La ricerca in psiconcologia, mediante un’analisi del funzionamento sociale e relazionale dei pazienti, permette di indagare su come è stata alterata, a seguito dell’evento cancro, la struttura relazionale del paziente, che include la situazione familiare, la partecipazione ad attività socioculturali e l’organizzazione generale della vita.

Definizione e criteri fondamentali di psiconcologia. Principali campi di intervento.

La psiconcologia si pone come interfaccia da un lato dell’oncologia dall’altro della psicologia e della psichiatria ed analizza in un’ottica transculturale due rilevanti dimensioni legate al cancro (Holland et al., 1990):

  • l’impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente, la sua famiglia e l’équipe curante;

  • il ruolo dei fattori psicologici e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie.

La psiconcologia considera l’interdisciplinarietà e l’integrazione disciplinare come requisiti essenziali per la concretizzazione di un sistema di cura che sostenga la globalità dei bisogni del malato; promuovendo un approccio di tipo psicosociale al paziente.

I suoi obiettivi di ricerca e di applicazione clinica riguardano quattro principali settori (Grassi et al., 1996):

  • La prevenzione e la diagnosi precoce. Si tratta di un ambito di studi molto vasto, all’interno del quale collochiamo l’analisi delle variabili psicologiche e sociali capaci di condizionare a vari livelli l’esposizione degli individui a fattori di rischio per le neoplasie e l’analisi delle variabili che interferiscono nella prevenzione e nella diagnosi precoce dei tumori.

  • La valutazione della morbilità psicosociale in oncologia e la sua prevenzione. Qui si inseriscono le ricerche finalizzate ad indagare la prevalenza dei sintomi indicativi di sofferenza psicologica nei pazienti oncologici e nei loro familiari e le eventuali relazioni con diversi fattori: caratteristiche di personalità, strategie di coping, la storia psicologica precedente, il supporto sociale.

  • Gli interventi psiconcologici. Oltre che degli aspetti psicologici che contribuiscono a definire la qualità di vita della persona malata e dei suoi familiari, quest’ambito di indagine e di applicazione si occupa di studiare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici, psicofarmacologici e riabilitativi e di analizzarne le caratteristiche.

  • La formazione. Tale ambito riguarda da un lato gli operatori sanitari, con l’obiettivo di proporre nuovi modelli di relazione e più efficaci modalità di comunicazione con i malati e le loro famiglie, dall’altro la preparazione specialistica degli psicologi e degli psichiatri impegnati professionalmente in tale settore.

I principali campi di intervento sono: il paziente, la famiglia e gli operatori.

Le azioni rivolte al paziente riguardano alcuni punti di seguito elencati (Guarino, 2006):

– La comunicazione di prima diagnosi o di recidiva: rappresenta un momento particolarmente difficile da un punto di vista emotivo, sia per il paziente che per il medico. Il primo momento di disorientamento o incredulità può far emergere vissuti individuali o collettivi di “catastrofe”, di “condanna irreversibile”. In seguito, un senso di “rabbia” nei confronti del “destino” o degli operatori può condurre a momenti di ansia, confusione, scarsa aderenza ai trattamenti. La capacità del medico di valutare i momenti, le parole, le reazioni esplicite e no, l’iter e le modalità di comunicazione, dovrebbero avviare un processo di “alleanza terapeutica” atto a migliorare l’aderenza ai trattamenti e attivare le risorse emotive del paziente.

Il sostegno a fronte della trasformazione del corpo: la malattia, ma anche i trattamenti possono modificare l’immagine corporea, con ripercussioni psichiche individuali, familiari e sociali. L’intervento psicologico dovrà avvenire sia in maniera preventiva, con un’adeguata informazione, sia favorendo l’espressione e l’ascolto delle reazioni emozionali del paziente, sia con azioni di sostegno all’elaborazione e alla messa in atto di meccanismi di riorganizzazione.

Il sostegno durante la cure palliative: è importante che il passaggio dal trattamento antiblastico specifico al trattamento palliativo sia graduale, condiviso, conosciuto e accettato dal paziente. Il supporto trasversale all’interno dell’equipe oncologica e palliativista, il supporto dello psiconcologo anche nell’affrontare il dolore, l’attenzione al supporto spirituale saranno volti a confermare la continuità delle cure, a sostenere la famiglia, ad accompagnare il paziente fino agli ultimi momenti di vita.

Il secondo campo d’azione è la famiglia. L’intervento psiconcologico non può prescindere da una valutazione dell’impatto della malattia sul sistema familiare del paziente e verso i caregiver, al fine di attivare risorse di supporto adeguate e favorire un adattamento quanto più adeguato alla nuova situazione di vita (Buckman, 1994).

Le azioni rivolte alla famiglia riguardano:

– l’attivazione di percorsi di supporto verso la famiglia mirati a valutare la qualità del sistema di supporto familiare e sociale dei pazienti;

– fornire supporto psicoeducazionale per preparare la famiglia a svolgere adeguatamente il ruolo assistenziale; fornire consulenze mirate ai caregiver;

– fornire interventi psicoterapeutici a livello familiare, lungo l’intero percorso di cura;

– fornire indicazioni utili all’equipe al fine di favorire una buona alleanza terapeutica con le figure di riferimento coinvolte nel percorso di cura ecc.

Infine, la malattia neoplastica nella sua complessità di approccio genera negli operatori, sanitari e no, un’indispensabile necessità di training psicologico.

Lo psiconcologo, oltre a percorsi di sostegno per pazienti e familiari, individua momenti formativi per gli operatori, la cui risultante dovrebbe essere la migliore percezione del proprio lavoro e delle motivazioni, l’aiuto nella gestione di rapporti emozionalmente pesanti e complessi, il riconoscimento reale e tempestivo dei bisogni del paziente e dell’unità familiare e l’apprendimento di strategie d’intervento ecc.

Accanto a momenti formativi strutturati teorico-pratici è necessario garantire uno spazio periodico e permanente, per la discussione di casi clinici e per il supporto dello stress degli operatori, nell’ottica della prevenzione del burn-out.

Modelli di intervento psiconcologico e obiettivi principali

La specificità della psiconcologia consiste nel suo rivolgersi ad un paziente il cui disagio psicologico non dipende primariamente da un disturbo psicopatologico ma è generato dalla situazione traumatizzante della malattia. Ciò implica il riferimento ad alcuni concetti psicologici fondamentali (Guarino, 2006)

Il concetto di crisi, considerato come “momento di cambiamento”, nell’ambito del quale possiamo distinguere tre momenti:

1. l’esplicitazione del problema (qui troviamo: il cambiamento nel rapporto con se stessi e con gli altri, la consapevolezza della propria vulnerabilità e dell’eventualità della propria morte), che ha il valore di una richiesta di aiuto e testimonia il fatto che le circostanze oltrepassano le capacità di autogestione del problema da parte del soggetto;

2. la mobilitazione della rete sociale prossima al paziente (familiari, curanti);

3. lo sviluppo di un nuovo equilibrio attraverso l’individuazione di soluzioni adattive e l’accettazione del cambiamento.

Il concetto di coping, proposto dalla psicologia cognitiva anglosassone deriva dal verbo inglese «to cope», traducibile in italiano come «far fronte» e viene usato in ambito psicologico per indicare la capacità degli individui di mantenere l’adattamento psicosociale durante periodi stressanti (Holahan, Moos e Schaefer, 1996).

Gli interventi psicosociali sono “quei tentativi sistematici diretti ad influire sul comportamento di coping mediante strumenti educazionali e psicoterapeutici” (Massie et al, 1989, 460) e gli obiettivi generali sono: la diminuzione dei sentimenti di alienazione e di disperazione tramite il confronto con altri pazienti; la riduzione dell’ansia e dello stress relativi alla cura; il superamento della mancanza di informazione e/o della disinformazione; l’incremento dell’adattamento alla malattia, del controllo personale e delle capacità di problem solving.

Sulla base di tali obiettivi gli interventi vengono distinti in (Guarino, 2006):

interventi educazionali che consistono in approcci direttivi, che hanno come principale obiettivo quello di dare informazioni o chiarimenti sugli aspetti medici della malattia, diagnosi e cura, e sugli aspetti psicologici, relativi al coping e agli stati affettivi. Tali interventi possono essere puramente informativi, attraverso l’uso di diapositive, videocassette, dépliant e opuscoli, oppure includere tecniche cognitive e di problem solving finalizzate alla gestione dello stress e delle modalità di adattamento alla malattia. L’approccio educazionale si rivolge principalmente ai pazienti con diagnosi recente di cancro, ma può essere anche diretto ai familiari o al personale sanitario;

interventi psicoterapeutici sono rivolti ai pazienti e ai familiari e si avvalgono di metodi psicodinamici e di investigazione per esaminare e comprendere le reazioni emozionali. Mentre gli interventi educazionali possono essere forniti da diverse figure operanti in ambito oncologico (psicologi/psichiatri, infermieri, volontari ed ex-pazienti), gli interventi psicoterapeutici sono di competenza specifica di professionisti della salute mentale, psicologi e psichiatri, con formazione psicoterapeutica.

Dopo il cancro: interventi psicologici di prevenzione e aspetti psicosociali

Circa 25 milioni di persone nel mondo convivono con un tumore in fase di cura o di remissione oppure considerato cronicizzato o guarito. In Europa, l’attenzione è stata prevalentemente rivolta alla sopravvivenza a lungo termine e sono stati definiti “lungo sopravviventi” quanti hanno superato da almeno tre o cinque anni la fase dei trattamenti e dei controlli più stretti. La letteratura internazionale riporta che il 70-80% delle persone con un passato oncologico ha una qualità di vita non inferiore a quella delle persone che non hanno vissuto questa esperienza; tra esse, una percentuale elenca effetti positivi: rinnovata spiritualità, maggiore autostima e positività, maggiore valorizzazione delle relazioni con gli altri ecc. Tuttavia, il restante 20-30% riporta una lista di effetti negativi, tardivi o a lungo termine, in conseguenza di malattia e trattamenti (Tamburini et al., 2000, ).

Una diagnosi di tumore rappresenta certamente un trauma, una fonte di stress di grande entità e oltre a determinare una reazione immediata, per il suo protrarsi a lungo nel tempo può favorire l’instaurarsi di un disagio più duraturo, dando come esiti talvolta dei sintomi psicopatologici di vario tipo.

Si tratta, in effetti, di un evento in grado di superare le capacità adattive dei soggetti coinvolti e le loro usuali abilità di coping. Le ospedalizzazioni frequenti, le procedure mediche e i trattamenti dolorosi, le limitazioni fisiche e le restrizioni nella vita sociale, si pongono come ulteriori fonti di stress e pertanto di rischio psicopatologico.

I fattori di rischio sono quegli elementi del comportamento individuale, dell’ambiente sociale e della risposta interpersonale in cui la loro assenza non esclude la comparsa della malattia, ma la loro presenza aumenta notevolmente il rischio di malattia (D’Alessio et al., 1995).

Se, dunque, è utile conoscere i fattori di rischio e le loro possibili conseguenze, è altrettanto importante conoscere la competenza e la vulnerabilità del soggetto oncologico, al fine di aumentare la sua resilience, competenza intrinseca del paziente o favorita da fattori ambientali protettivi.

Con il termine resilience si fa riferimento alla “capacità di recupero come risposta interna di una persona ad affrontare le situazioni difficili della vita e la cui assenza viene generalmente definita sindrome di «Charlie Brown» che consiste in un sentimento di impotenza che fa sentire il soggetto incapace di controllare le situazioni e quindi alla continua ricerca di aiuto e sostegno” (Schettini, cit. in Iavarone e Iavarone, 2004, 49).

A livello individuale agire in un’ottica preventiva vuol dire innanzitutto riconoscere le potenzialità del soggetto e le sue risorse, sostenerle e rafforzarle: gli interventi saranno cioè mirati all’empowerment personale. Quando la terapia volge al termine, possono presentarsi manifestazioni di orgoglio e gioia, al confine dell’euforia, ma anche ansia e paura delle recidive (Eiser, 1994).

In questa fase di sospensione della terapia, la vita può raggiungere un certo equilibrio, ma ad esempio all’interno di una famiglia, la percezione reciproca dei membri di questa e molte loro abitudini, vanno ricostruite. La realtà della malattia continua comunque ad essere presente. Il rapporto con gli altri può essere difficile: parenti e amici possono allontanarsi di fronte alla paura della morte o per l’imbarazzo di non sapere cosa dire: questo può portare a un senso di delusione, di isolamento e di ritiro. Altri sentimenti frequenti sono il senso di inadeguatezza per il futuro e allo stesso tempo la difficoltà di integrare il passato.

Oggi di cancro si può vivere e sempre più a lungo. Ma come può essere vissuta la vita da chi ha alle spalle una diagnosi di cancro? La necessità di doversi occupare anche degli aspetti umani e psicologici della persona che si trova ad affrontare una delle esperienze tra le più destabilizzanti, sta diventando un obiettivo fortemente e concretamente condiviso da pazienti, medici e psicologi che riconoscono le potenzialità di questa preziosa integrazione della “cura della malattia” e della “cura della persona”.

Interventi di assistenza psicologica, programmi riabilitativi e strategie preventive, compresi adeguamenti negli stili di vita (nutrizione, esercizio fisico, astensione da fumo e alcool), devono accompagnarsi a servizi di tipo informativo e assistenziale anche riguardo ad aspetti lavorativi o assicurativi.

Apportare modifiche ristabilendo un’attenzione verso il proprio benessere fisico, psico-emotivo e relazionale, tenendo aperto il canale della comunicazione; riconoscersi in un corpo cambiato, rivivendo con serenità la propria sessualità, sono i primi passi per riconquistare la “normalità” perduta.

Il bambino malato e il suo vissuto nel reparto oncologico

I tumori infantili sono piuttosto rari, ma negli ultimi anni si osserva un notevole aumento del numero dei bambini e di adolescenti che si ammalano di tumore.

Contemporaneamente, però, la mortalità per questo tipo di patologia diminuisce sempre più grazie ai progressi dell’oncologia pediatrica, quella branca della medicina che si occupa dello studio e della cura dei tumori in pazienti di età compresa tra i 0 e 20 anni. La percentuale delle guarigioni supera oggi il 60-70%.

Negli ultimi trent’anni, l’acquisizione di nuovi farmaci, il miglioramento delle strategie terapeutiche e i progressi della terapia di supporto hanno migliorato la prognosi di molti tumori pediatrici. Una delle differenze tra il cancro dell’adulto e le neoplasie infantili è proprio la migliore risposta al trattamento da parte di quest’ultimo. Il tumore, dunque, non è più una malattia senza speranza di sopravvivenza per i bambini che ne sono colpiti, piuttosto è una malattia con rischio di morte, ma con possibilità di cura (Peyron, 1996).

Le fasi della malattia: problematiche psicologiche

Una diagnosi di tumore provoca una crisi esistenziale. La prima reazione è per lo più di shock e sgomento, spesso un vero e proprio trauma, seguito poi dal bisogno di riorientamento. I primi cenni di stress compaiono già con i primi sintomi e con i primi sospetti di malattia (Spencer et al., 2001).

Secondo la teoria di Piaget il concetto di malattia evolve con lo sviluppo del concetto di causalità. Per i bambini di 2-6 anni la malattia è dovuta a un fenomeno naturale o a oggetti vicini: il meccanismo causale sottostante perlopiù non è esplicitato oppure è espresso in termini magici e fiabeschi. Inoltre, la condizione di malattia può essere vissuta come un evento aggressivo esterno, talora conseguente a colpe reali o fantastiche: nel piccolo alberga la convinzione che ogni trasgressione, anche se fatta segretamente, è soggetta a punizione (Satta, 1989). Infatti, fino ai 6-7 anni qualsiasi affezione accompagnata da dolore fisico viene vissuta come proveniente dall’esterno, non localizzata all’interno dell’organismo.

Vi è nella mente di molti bambini la credenza, fermamente radicata, che le malattie siano autoindotte, ben meritata punizione per ogni sorta di cattiverie, disobbedienze, trascuranza delle regole, delle proibizioni, di illecite pratiche fisiche. (…) Mentre tali rappresentazioni errate, pur suscitando turbamento, possono restare di scarso significato per il bambino fisicamente sano, diventano importanti per il bambino gravemente malato, poiché minano la sua forza di combattere la malattia creando un atteggiamento falso, masochistico e morbosamente passivo verso la sofferenza” (Freud, Bergman, 1974, 62).

La malattia sconvolge l’esistenza del bambino a partire dalle sue abitudini quotidiane e dal rapporto con le figure di riferimento. I frequenti e lunghissimi periodi in ospedale, le restrizioni spesso conseguenti ai trattamenti, riducono le opportunità del bambino di socializzare, giocare, esplorare e sviluppare le relazioni con gli altri (Eiser, 1994).

Alcuni autori (Di Cagno et al., 1986) hanno identificato atteggiamenti più comuni nelle varie fasi della malattia. Ad esempio, abitualmente la comunicazione della diagnosi porta ad una regressione del bambino e, in particolar modo della madre, ad un rapporto simbiotico. Il piccolo paziente diventa sempre più insicuro a seguito dell’ospedalizzazione, dei trattamenti e del dolore fisico, cercando così una maggiore protezione nel caregiver. In questa fase, si instaura spesso una forte dipendenza che può manifestarsi con il rifiuto del cibo e con il bisogno di essere lavato, vestito, imboccato, ecc. (Di Cagno, Ravetto, 1980).

In base a ciò si è notato che bambini di età inferiore ai quattro anni sopportano meglio la malattia, in quanto la regressione conseguente è per loro più consona. Per i bambini di età maggiore, dopo un’aggressività iniziale, si manifestano l’accettazione e la regressione.

In tema di accettazione da parte del piccolo malato, ampiamente dibattuta, è l’informazione da dare al bambino circa la propria malattia e la sua evoluzione. Come affermato anche da Last e van Veldhuizen (1996), il diritto del bambino di essere informato, sebbene riconosciuto come principio dell’oncologia pediatrica, non è ancora entrato nella pratica clinica. Questi ricercatori hanno dimostrato che i bambini che hanno ricevuto, durante la fase iniziale della malattia, più informazioni riguardanti la diagnosi e la prognosi sono significativamente meno ansiosi e meno depressi. Come evidenziato da Barakat et al. (1995), il tentativo degli adulti di proteggere il bambino non informandolo è comunque fittizio.

I bambini percepiscono la gravità della situazione sentendosi ingannati e talvolta, continuando a fingere di non sapere nulla per proteggere i genitori. Nella fase della remissione dei sintomi vi è un calo dell’ansia e un ritorno alle attività abituali, ma spesso si sviluppano meccanismi di difesa verso il futuro, vissuto come incerto. L’equilibrio ottenuto con la remissione si spezza nel momento in cui la malattia ricompare (recidiva). Così la speranza di guarigione medica scompare, il bambino si sente ingannato e utilizza spesso come capro espiatorio le figure genitoriali. Nella fase terminale anche il bambino molto piccolo percepisce che sta per morire. Egli può dimostrare la sua consapevolezza sia direttamente sia attraverso il gioco, sperimentando una profonda perdita di controllo e ritraendosi dal mondo esterno. In questo momento l’irritabilità è una reazione comune, infatti il bambino può parlare molto poco e volere evitare ogni contatto fisico. Per questo è ancora più indispensabile la vicinanza della figura materna, che rassicuri il bambino che non verrà abbandonato e che sarà fatto il possibile per difenderlo dal dolore e dalla solitudine (Satta, 1989).

Lo sviluppo cognitivo del bambino durante e dopo la malattia

Il bambino con malattia oncologica è molto spesso costretto a lunghi periodi di ospedalizzazione, isolamento e deprivazione. Gran parte della maturazione cerebrale avviene durante il primo e il secondo anno di vita. La lunga ospedalizzazione in questo periodo può provocare una limitazione delle esperienze che impedisce al bambino quasi tutte le attività quotidiane esplorative sensomotorie necessarie alla sua età. Anche per i bambini più grandi può verificarsi una situazione di privazione collegata ad esempio alla scarsa frequenza scolastica (Adduci, Poggi, 2011).

I trattamenti a cui il bambino viene sottoposto, inoltre, possono avere importanti effetti collaterali che incidono anch’essi sulle sue funzioni cognitive. Nonostante il livello intellettivo resta preservato si possono osservare specifiche difficoltà attentive e delle funzioni esecutive, in bambini affetti da leucemia, trattati con chemioterapia. Ad esempio un trattamento di lunga durata con steroidi, può provocare deficit cognitivi e neuropsicologici, causando spesso difficoltà rilevanti che necessitano un intervento riabilitativo (possono trattarsi di problemi di: memoria, di comprensione di testi scritti, di calcolo matematico e di memoria di cifre.

Gli studi che analizzano il funzionamento cognitivo si concentrano su pazienti off- therapy e sopravvissuti, anche se tuttavia alcuni di essi hanno dimostrato che alterazioni delle funzioni cognitive sono osservabili già durante il trattamento (Scrimin, 2004).

In generale il QI nei sopravvissuti a lungo termine è entro i limiti normali, tuttavia la radioterapia cranica, l’età alla diagnosi e la presenza di recidive rappresentano fattori di rischio. Nello studio delle singole funzioni si è riscontrato che le aree maggiormente compromesse sono l’attenzione, la comprensione, l’abilità aritmetica, la memoria visiva e verbale, il ragionamento causale e la coordinazione visuo-motoria (Benedito Monleone et al., 2000).

I problemi neurocognitivi più comuni legati al tumore e ai suoi trattamenti sono i deficit dell’attenzione. Questo dato ha importanti implicazioni dato che i processi attentivi sono essenziali per l’apprendimento e secondo recenti studi sono associati anche a un peggiore adattamento emotivo e sociale (Lai, 2002).

L’impatto psico-sociale del cancro sui pazienti e le loro famiglie

La patologia oncologica colpisce non soltanto l’individuo che ne è affetto, ma anche i membri della famiglia. Infatti la famiglia è il luogo delle relazioni affettive più strette e la comparsa o la presenza di una malattia cronica di questa gravità la sconvolge immancabilmente. La situazione generata dalla malattia tumorale comporta una serie di crisi associate ai primi sintomi, alla diagnosi, alle cure, al ritorno a casa, alla fase terminale e alla morte. Da un lato la famiglia si confronta con la paura, con la tristezza, con l’alternarsi di momenti di speranza e di disperazione; dall’altro essa costituisce un’organizzazione dinamica e strutturata, caratterizzata da una ripartizione di ruoli e di responsabilità (Razavi, 2000).

All’inizio la diagnosi di cancro getta la famiglia in una crisi emotiva acuta. Questa crisi è scatenata principalmente dalla minaccia di perdere un congiunto e dalla rimessa in discussione dei fantasmi d’immortalità del paziente e della sua famiglia (Cohen et al., 1981).

La maggior parte delle famiglie riesce a far fronte alla diagnosi di tumore malgrado la sofferenza prodotta. La qualità dell’ambiente è importante: un ambiente familiare caratterizzato da coesione e da un basso livello di conflitti si accompagna a un livello di sconforto meno elevato e ad una migliore capacità di adattamento dei suoi membri rispetto a una famiglia caratterizzata da legami distanti e da un elevato livello di conflitti.

Il paziente oncologico in stato di sconforto, in un ambiente familiare caratterizzato da relazioni che non danno sicurezza, non si sente né accettato, né confortato. Sembra inoltre che i parenti in generale si concentrino sulle proprie emozioni, tenendo il malato a distanza o adottando comportamenti critici e di controllo nei suoi confronti. In un contesto di relazioni rassicuranti, invece, si possono sviluppare una modalità di comunicazione chiara e coerente, una condivisione della preoccupazione e una percezione comune della realtà. Queste caratteristiche favoriscono una relazione partecipativa di fronte ai cambiamenti che la malattia richiede (Razavi, 2000).

La figura dello psicologo nel reparto di oncologia pediatrica

L’assistenza e la cura in oncologia implicano l’individuazione di tutti i bisogni del paziente, che non sono esclusivamente medici, ma anche psicologici, relazionali, sociali e spirituali. Soprattutto in ambito pediatrico, anche se lo scopo principale è la guarigione dal tumore, non si può perdere di vista l’obiettivo a più lungo termine che è lo sviluppo, al più alto livello possibile, del bambino (Di Maggio, 2006).

È sempre complesso entrare in ospedale, in un reparto. L’unità operativa rimanda sempre l’immagine di ciò che è tecnico, oggettivo: i valori, gli esami, gli interventi chirurgici; bisogna essere pratici, veloci, non bisogna perdere tempo. Lo psicologo proviene da un’altra dimensione, il luogo dove il tempo deve esserci anche se non c’è, il luogo dove si crea lo spazio mentale, il luogo dell’attesa nella ricerca dei significati (Di Maggio, 2006).

Ferenczi afferma che “per la medicina, con la sua divisione in tanti settori specialistici, l’ammonimento della psicoanalisi di curare in ogni forma di malattia non solo la malattia, ma anche il malato, è stata una vera benedizione; il principio è sempre stato riconosciuto, ma raramente messo in pratica per mancanza di un adeguato sapere psicologico. Con una certa esagerazione si potrebbe dire che fino a oggi la medicina ha sempre curato il paziente come se questo non avesse niente nella testa e le forze razionali- superiori non intervenissero nella battaglia degli organi contro la malattia” (Ferenczi, 1972).

Il ruolo dello psicologo in un reparto non è per niente facile perché deve affrontare la realtà della malattia e la possibilità effettiva della morte, deve accettare con cognizione la propria inettitudine sulle malattie del corpo, deve sviluppare la capacità di tollerare le situazioni dolorose per continuare a pensare e non agire (Juraga, in Lugones, 2002).

La mente dello psicologo, ma anche la mente degli infermieri e di tutte le figure che operano in reparto, è continuamente esposta a elementi beta e quindi sempre pressata a un lavoro di rielaborazione e trasformazione in una sorta di permanente attività di digestione e di disintossicazione. Spesso infatti lo psicologo incontra, e si scontra talora, con lo stereotipo dello «psicologo immune» ovvero dello psicologo che non soffre, che non ha momenti di cedimento, che non si irrita. E tutto questo proprio «perché è uno psicologo». In realtà questa visione assomiglia molto di più a una sorta di figura idealizzata, una specie di Superman o di Wonderwoman senza macchia e senza paura, senza angosce e dubbi (Di Maggio, 2006).

Il lavoro dello psiconcologo è a più livelli e rivolto a diversi soggetti: l’individuo, il gruppo e le istituzioni. Egli comunica con sanitari e non sanitari, genitori ed eventualmente bambini (Oppenheim, 2003).

Nello specifico, lo psicologo svolge una funzione di: accettazione e adattamento alla diagnosi, facilitando la relazione terapeutica con l’equipe curante; di sostegno alla coppia e di facilitazione del dialogo con il bambino; di sostegno rispetto alla gestione dei rapporti familiari e sociali; di elaborazione del lutto; di collaborazione e di integrazione con l’équipe medica e infermieristica.

Lo psicologo contribuisce, dunque, alla realizzazione di un modello di cura che comprenda l’ascolto, maggiore attenzione alle esigenze personali e alla sofferenza emotiva del paziente, rendendolo più partecipe al proprio percorso terapeutico. Il lavoro col paziente e i familiari, d’altra parte, oltre ad offrire sostegno, favorisce la comprensione delle esigenze terapeutiche (e organizzative), con l’obiettivo di migliorare l’aderenza alle cure e mantenere, per quanto possibile, un’accettabile qualità della vita (Di Maggio, 2006).

La comunicazione: dalla diagnosi al percorso terapeutico in oncologia

Comunicare e comunicazione sono termini che etimologicamente rimandano alla parola latina communis, composta dal prefisso cum, con, indicante lo stare insieme, e munis, cioè svolgere una funzione. Com-munis rimanda a ciò che è comune e condiviso, in opposizione a ciò che è proprius, perciò non condivisibile per sua natura con altri. Nella sua accezione più ampia, come sottolinea Galimberti (1992), il termine viene impiegato in ambiti diversi, quali quelli della biologia, della cibernetica,della etologia, intesa come lo studio del comportamento animale nelle condizioni più prossime a quelle dell’habitat naturale, per indicare lo scambio di messaggi tra soggetti, organismi e macchine (Galimberti, 1992).

Quando si parla di comunicazione, ci si riferisce all’azione di mettere in comune, trasferire o trasmettere dei messaggi che portano ad una reciproca conoscenza e scambio di sentimenti e/o pensieri. Questa può essere esplicita o implicita: essa si realizza anche quando non vi è scopo precostituito, ossia quando non vi è consapevolezza dell’intento di comunicare (Nanetti, 2003).

Quando si parla di comunicazione in oncologia pediatrica si fa riferimento alle interazioni tra staff medico-infermieristico e genitori, tra équipe e bambini e tra genitori e bambini.

È necessario perciò considerare le capacità comunicative, così come l’organizzazione affettiva e le possibilità di comprensione della realtà di ognuno di questi attori.

In un reparto come l’oncologia pediatrica prima ancora dei contenuti risultano cruciali le capacità comunicative degli operatori: un’elevata competenza linguistica che permette di adeguarsi all’interlocutore; l’abilità nel controllare che gli elementi non verbali non creino dubbio o confusione; l’ascolto inoltre, connesso a un atteggiamento empatico, è uno dei mezzi più efficaci per trasmettere un messaggio di accoglimento fisico ed emotivo (Axia, Capello, 2004).

Annunziata (2004) definisce la conversazione come una situazione relazionale che il medico co-costruisce con il paziente, dove l’uno riconosce qualcosa all’altro e dove c’è uno scambio di competenze e ruoli: il medico ha la sua preparazione tecnico- scientifica che il paziente gli riconosce, il paziente ha la sua competenza sui sintomi, sul suo disegno di vita, che il medico deve riconoscergli.

La comunicazione della diagnosi ai genitori del bambino malato

Giungere all’identificazione della malattia rappresenta un momento di svolta per i genitori, tuttavia la comunicazione della diagnosi costituisce un momento particolarmente delicato. In quel momento il medico definisce la patologia, la prognosi e il programma di trattamento. Inoltre la comunicazione può avvenire secondo modalità differenti, in relazione al tipo di malattia, all’età, alla storia differente di ciascuno, alle modalità e ai tempi con cui si è instaurato il quadro clinico.

Per realizzare un colloquio efficace nel momento della comunicazione della diagnosi è necessario tenere conto dei principali vissuti e meccanismi difensivi, sollecitati nei genitori, dalla notizia.

Secondo Eiser (1994), pochi genitori in questo primo momento riescono a porre ulteriori domande, perché non sanno cosa chiedere o credono di non aver capito o, ancora, per paura di mostrare la loro ignoranza. In un secondo momento, invece, essi si preoccupano non solo delle probabilità di sopravvivenza ma anche del futuro possibile in caso di guarigione.

In particolare le madri sono interessate alle complicazioni a lungo termine e a gli effetti collaterali delle terapie, mentre i padri desiderano piuttosto conoscere i dati statistici sulla prognosi.

L’impossibilità medica, di spiegare l’eziologia della maggior parte dei tumori dell’infanzia genera ansie ulteriori e non permette di affrontare e superare i frequenti sensi di colpa. La diagnosi di cancro, infatti, sfida il ruolo di nutrizione e protezione dei genitori e implica perciò “la perdita della propria immagine di genitori in grado di tutelare la vita che hanno generato” (Massaglia, Bertolotti, 1998, 18).

Il percorso emotivo successivo alla comunicazione della diagnosi risulta caratterizzato da tre fasi (Guarino, 2006):

– Lo shock, che rende i genitori incapaci di affrontare la situazione di emergenza. Irrealtà, incredulità e rabbia sono le tre caratteristiche predominanti di questa fase.

– Dopo questo primo momento si realizza l’accaduto e vengono messe in atto strategie d’intervento. I meccanismi di difesa più frequentemente utilizzati sono: la negazione (ostinarsi ad affermare che il problema non esiste), la richiesta di pareri diversi o il tentativo di approfondimento personale.

– Il passo successivo è quello dell’accettazione. L’accettazione della diagnosi di cancro implica la morte del figlio idealizzato e con essa l’abbandono dei progetti su di lui: la dimensione del futuro diventa inimmaginabile, il presente viene completamente occupato da questa realtà. È l’inizio della fase di adattamento e riorganizzazione che conclude il lutto. La collaborazione attiva dei genitori riduce il senso di frustrazione e migliora l’efficacia delle cure.

La comunicazione della diagnosi al bambino malato. La carta di EACH

Comunicare la malattia, naturalmente in rapporto alla reale gravità della medesima, viene frequentemente vissuto come “dare (o ricevere) cattive notizie” e comporta dunque alti livelli di ansia per tutti i partecipanti all’incontro. La “comunicazione della diagnosi” rappresenta, per i pazienti e i familiari, il momento conclusivo di un iter più o meno breve, spesso carico di ansia per l’attesa dei risultati degli accertamenti. Chi ha il compito di definire la diagnosi e chiarire i vari ambiti terapeutici e prognostici può trovarsi in difficoltà ad affrontare tali ansie, o provare egli stesso emozioni profonde, non sempre consapevoli o riconoscibili. Tale momento si configura dunque come assai delicato, soprattutto in ambito pediatrico, ove quasi sempre il rapporto col paziente è mediato dai genitori e i sentimenti e le emozioni, che gli appartengono, a volte sembrano difficilmente accessibili. Letteratura ed esperienza clinica evidenziano quanto sia determinante una comunicazione sincera con il paziente e con i genitori e quanto ciò sia fondamentale per lo stabilirsi di un rapporto di fiducia e l’avvio dell’alleanza terapeutica. Il diritto dei genitori a essere informati riguardo la diagnosi e la prognosi della malattia del loro bambino è ormai consolidato, diversamente dal diritto del bambino stesso, nonostante sia stato riconosciuto dal 1988 con la stesura della Carta di Each – European Association for Children in Hospital.

La carta di EACH riassume in 10 punti i diritti del bambino in ospedale (Guarino, 2006):

  1. il bambino deve essere ricoverato in ospedale soltanto se l’assistenza di cui ha bisogno non può essere prestata altrettanto bene a casa o in trattamento ambulatoriale;

  2. il bambino in ospedale ha il diritto di avere accanto a sé in ogni momento i genitori o un loro sostituto;

  3. l’ospedale deve offrire facilitazioni a tutti i genitori che devono essere aiutati e incoraggiati a restare. I genitori non devono incorrere in spese aggiuntive o subire perdita o riduzione di salario. Per partecipare attivamente all’assistenza del loro bambino i genitori devono essere informati sull’organizzazione del reparto e incoraggiati a parteciparvi attivamente;

  4. il bambino e i genitori hanno il diritto di essere informati in modo adeguato all’età e alla loro capacità di comprensione. Occorre fare quanto possibile per mitigare il loro stress fisico ed emotivo;

  5. il bambino e i suoi genitori hanno il diritto di essere informati e coinvolti nelle decisioni relative al trattamento medico. Ogni bambino deve essere protetto da indagini e terapie mediche non necessarie;

  6. il bambino deve essere assistito insieme ad altri bambini con le stesse caratteristiche psicologiche e non deve essere ricoverato in reparti per adulti. Non deve essere posto un limite all’età dei visitatori;

  7. il bambino deve avere piena possibilità di gioco, ricreazione e studio adatto alla sua età e condizione, ed essere ricoverato in un ambiente strutturato arredato e fornito di personale adeguatamente preparato;

  8. il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche, emotive e psichiche del bambino e della sua famiglia;

  9. deve essere assicurata la continuità dell’assistenza da parte dell’équipe ospedaliera;

  10. il bambino deve essere trattato con tatto e comprensione e la sua intimità deve essere rispettata in ogni momento.

La diagnosi è certamente una linea di divisione che separa il prima e il dopo e catapulta il bambino in una realtà irreversibilmente alterata.

Se da un lato l’impatto che la comunicazione della diagnosi e della prognosi può avere sul bambino è un fattore da non trascurare, dall’altro è ormai provato che «non dire» non protegge il bambino, ma anzi lo rende più vulnerabile, perché lo lascia solo di fronte allo sconvolgimento e all’angoscia.

Barakat et al. (1995) sottolineano che il bambino malato che non chiede informazioni sulla sua situazione e il suo futuro, spesso, con questo atteggiamento sta proteggendo i suoi genitori dall’angoscia, anche se appare inconsapevole della sua condizione.

Nella situazione di non comunicazione ogni intervento terapeutico, in quanto improvviso e non spiegato, è sentito come intrusione aggressiva che scatena vissuti persecutori nei confronti dell’ospedale e dei medici.

A differenza, il personale medico e infermieristico che riesce a comunicare col bambino sostiene di poter seguire meglio i piccoli pazienti che conoscono la malattia (Massaglia & Bertolotti, 1998). Certamente il contenuto dell’informazione va adeguato all’età dell’interlocutore, alle caratteristiche della sua personalità alla fase e alle caratteristiche della malattia. Inoltre, nella comunicazione con il bambino, bisogna anche considerare la sua maturità cognitiva ed emotiva, la struttura e il funzionamento della famiglia, il background culturale e la storia di eventuali precedenti separazioni (Axia, 2004).

La comunicazione della diagnosi va pensata come un processo che richiede tempo: nell’informare il paziente, il medico non deve modificare o tradire la realtà, ma deve avere presente quali sono gli aspetti più utili e quali quelli più traumatizzanti per il paziente.

La verità parte da una realtà obiettiva, che è la malattia del paziente, ma la conversazione deve adattarsi alla personalità di quel paziente, riempiendo gli spazi lasciati vuoti dai dati “freddi” della patologia (Annunziata, 2004).

Gli sconvolgimenti emotivi, soprattutto nell’infanzia, sono difficili da combattere, perché alimentati dalla confusione tra pericoli reali e pericoli immaginari. Per questo è necessario lavorare su due fronti (Guarino, 2006):

  • da una parte la realtà può essere chiarita informando il bambino in maniera completa e onesta, nei limiti della sua comprensione sulla situazione cui andrà incontro;

  • dall’altra, il bambino deve essere guidato verso una disposizione d’animo tale da poter verbalizzare le fantasie terrorizzanti, così da potersi rassicurare, onde diminuire la confusione e ridurre il potere degli elementi inconsci deformanti.

Un bambino malato si sentirà pronto a raccontare le sue perplessità e le sue paure solo dopo che avrà visto un adulto affrontare per primo l’argomento con lui (Capurso e Rocca, 2001).

Le attività ludiche e gli interventi distrazionali in oncologia

Il gioco è un’attività particolarmente importante per il bambino, così come lo è il disegno, poiché attraverso questi strumenti può esprimere se stesso, le sue emozioni, i suoi vissuti. Questi strumenti vengono a rappresentare un materiale ancora più prezioso, quando si lavora con bambini che vivono disagi e sofferenze profonde. In questo il proporre attività ludiche nei reparti ospedalieri ha due importanti finalità: offrire la possibilità di trascorrere il tempo in maniera piacevole e usufruire dell’opportunità di esprimere pensieri, dubbi, preoccupazioni legate all’età, ma anche all’esperienza difficile e dolorosa che tali pazienti si trovano a vivere (Di Maggio, 2006).

Come spiega Gamba, “il gioco è un bisogno fisiologico, nella misura in cui lo si considera come una naturale espressione di quel lavoro di «digestione», di assimilazione e accomodamento che il bambino fa intorno alle sue esperienze (1998, 144). Inoltre il gioco può essere un’occasione di socializzazione: giocando può conoscere coetanei, ma anche avvicinarsi ai medici e agli infermieri, ma soprattutto nel momento del gioco il bambino può essere se stesso, perché è certo di non venir giudicato.

L’organizzazione del gioco in ospedale deve prendere in considerazione diverse aspetti (Guarino, 2006):

  • Spazio. L’ideale sarebbe avere delle vere e proprie ludoteche all’interno del reparto, spazi esclusivamente dedicati al gioco.

  • Tipologie di gioco. Si possono organizzare giochi di gruppo e di movimento anche con materiale sanitario, che ha una forte valenza educativa e può coinvolgere tutto il reparto.

  • Accortezze legate alla malattia. Lo stato di salute del singolo e le limitazioni cui deve attenersi regolano la tipologia dei giochi proponibili e il grado di coinvolgimento raggiungibile (Bronzino, Russo, 2001).

  • Figure professionali. Il gioco non deve essere considerato solo un’attività di svago, ma anche una possibilità educativa e per questo deve essere controllata dall’adulto. In questo contesto si inseriscono gli interventi distrazionali, cioè quelle attività organizzate e svolte da figure professionali, finalizzate a favorire la rifocalizzazione cognitiva del bambino davanti all’ansia, allo stress, alla paura o al dolore.

Questi interventi, che possono essere considerati come tecniche dinamiche e non interventi specialistici di psicoterapia, sfruttano diversi canali sensoriali e possono assolvere funzioni diverse a seconda del mezzo utilizzato.

Comicoterapia: l’utilizzo dell’ironia e della comicità in ambito ospedaliero, specialmente pediatrico, è una realtà ormai consolidata anche in Italia. Secondo Bruschettini et al. (2001) l’humor è un modo per guardare la realtà con occhi diversi e un modo per riconsiderare le nostre esperienze. In questo senso dovrebbe diventare uno stile di vita: la comicità proietta una luce nuova sui problemi della vita quotidiana, fornendo una nuova percezione di ciò che accade.

Arte-terapia: in questa attività la relazione paziente-operatore si realizza attraverso la mediazione di un prodotto grafico che traduce le sensazioni del suo autore. Inoltre, si facilita il contato con il proprio corpo e si permette al bambino di sperimentarsi attivo e competente.

Musicoterapia: l’uso creativo della musica e degli elementi musicali (armonia, melodia, ritmo, timbro) per affrontare i bisogni fisici, emotivi, psicologici e spirituali di persone di tutte le età.

Pet-therapy: indica una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo- animale in campo medico e psicologico. Nel contatto tra l’animale e la persona trattata avviene uno scambio di stimoli e di emozioni, facilitato dal fatto che non è necessario il linguaggio verbale. Nel caso di interventi con bambini le attività ludiche e ricreative organizzate in compagnia e con lo stimolo degli animali, il dare loro da mangiare, il prenderli in braccio per accarezzarli, hanno lo scopo di riunire i bambini, farli rilassare e socializzare.

Bambini guariti: la condizione di sopravvissuti

«E vissero felici e contenti». Non è sempre così, neppure dopo aver sconfitto draghi e streghe cattive. I giovani adulti sopravvissuti a un tumore infantile, secondo alcune ricerche, si prendono ancora poca cura della propria salute e fanno più fatica dei loro coetanei a trovare una posizione sociale, un buon lavoro, un amore duraturo. Colpa degli strascichi di terapie abbastanza pesanti da aver salvato loro la vita, colpa a volte, di un trauma mai superato e di un sistema sanitario distratto.

Nell’ambito della letteratura riguardante l’adattamento allo sviluppo della malattia, il tumore rappresenta un evento traumatico, e i sopravvissuti sperimentano ripetutamente condizioni di forte ansia relativa sia alla malattia che alla terapia medica. Si possono manifestare alcuni sintomi della PTSD (Sindrome post- traumatica da stress), dall’evitamento dell’esperienza tumorale, alla sua intrusione nelle attività quotidiane, fino ad arrivare all’ipervigilanza. La tendenza a fuggire l’esperienza tumorale può portare a costruire una visione breve del futuro, con atteggiamenti nei sopravvissuti a non considerare e non esplorare scelte alternative. Stuber et al. (1997) hanno riportato che il PTSD tra i sopravvissuti ai tumori pediatrici è stato identificato da valutazioni retrospettive della terapia descritta come “spaventosa” e minacciosa per la vita, dal livello generale di ansia, dalla storia di altre esperienze stressanti e dal sostegno sociale. Numerosi studi hanno indicato che i sopravvissuti al cancro pediatrico hanno subito delle discriminazioni a livello lavorativo, sono stati scartati dall’esercito e hanno avuto minore successo nel lavoro, soprattutto per quanto riguarda le donne (Zebrack et al.,2002). I sopravvissuti al cancro hanno frequentemente modificato i loro obiettivi scolastici e lavorativi, hanno ripetuto l’anno, hanno saltato giorni di scuola ed hanno avuto altri problemi scolastici e di apprendimento (Gray et al.,1992).

Altri ricercatori si sono incentrati sull’impatto a lungo termine che il trattamento tumorale ha sullo sviluppo dell’identità e sul concetto di sé. Madan- Swain et al. (2000) hanno evidenziato che i sopravvissuti adolescenti mostravano maggiori possibilità degli adolescenti in salute di palesare un’identità ostacolata, caratterizzata da un’accettazione a priori di valori e credenze proposti da adulti significativi senza una iniziativa indipendente nella scoperta di punti di vista diversi.

Cure palliative: quando muore un bambino

Gran parte della società in cui viviamo compie un grosso sforzo per ignorare la realtà della morte. Le domande dei bambini sulla morte sono, invece, frequenti e naturali; d’altra parte le favole, i cartoni animati e i giochi fanno spesso riferimento alla morte. Per assurdo, mentre la morte virtuale entra costantemente nella vita dei bambini, si fa di tutto per allontanarli dalla morte reale impedendo loro di partecipare e prepararsi emotivamente a questi momenti, dolorosi quanto inevitabili (Santrock, 2006).

I bambini sotto i 2 anni non sanno cosa sia la morte, ma rispondono in modo emotivamente intenso alle separazioni e agli stati emotivi negativi dei genitori. In età prescolare, invece, credono che la morte sia uno stato temporaneo e reversibile. Ed infine per i bambini in età scolare il concetto di morte si sviluppa parallelamente a quello di vita: la morte è da loro percepita come evento reale e permanente, anche se essi sono incapaci di rendersi conto della propria mortalità (Barakat et al., 1995).

La scomparsa di un bambino è una delle più grandi tragedie della vita di una persona e in particolar modo, ovviamente, di un genitore. Nel caso di una patologia oncologica essa sopraggiunge al termine di un periodo molto lungo, che ha richiesto adattamenti continui tanto al bambino quanto alla famiglia.

Durante la fase terminale, quando anche i bambini più piccoli sono consapevoli dell’avvicinarsi della morte, la comunicazione aperta e il coinvolgimento più possibile attivo, oltre al mantenimento di una buona rete di contenimento, possono aiutare il piccolo paziente ad affrontare il distacco imminente e il dolore totale. Con la locuzione “dolore totale” si fa riferimento alla sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica, emotiva, spirituale, culturale e sociale, sperimentata tanto dal paziente che dalla sua famiglia (Guarino, 2006).

È in questo momento che interviene l’équipe di cure palliative. Questa non può evitare il verificarsi della morte, ma è responsabile di rendere il più possibile sereno e libero da sofferenze questo passaggio, attraverso un efficace controllo dei sintomi fisici e ponendo attenzione ai bisogni esistenziali, emotivi e sociali del bambino e dei suoi familiari.

Le cure palliative nella fase avanzata di una malattia rappresentano una risposta ai due atteggiamenti estremi nell’approccio terapeutico: l’accanimento e l’abbandono terapeutico. La prima difficoltà per un operatore è accettare la realtà della mortalità di un bambino. E ad essa si aggiunge il dover accettare che la propria possibilità di curare sia limitata. D’altra parte, per il genitore, è ancor più incomprensibile e inammissibile accettare la morte del proprio bambino. Il rischio, amplificato dal dato della maggior curabilità dei tumori dell’età evolutiva a livello statistico, è in questi casi di rifiutare l’ineluttabilità della morte intraprendendo percorsi terapeutici fino agli ultimi giorni di vita, perdendo di vista «cosa è meglio per il bambino». Questo perché, nel pensiero comune, la morte precoce è una morte contro natura, è una mostruosità a cui non ci si può rassegnare in quanto rappresenta per noi il fallimento di uno dei compiti più importanti che ci spettano: prendersi cura e far crescere un bambino. Un bambino è il nostro investimento sul futuro, l’unica vera consolazione del nostro stesso dover morire. La sua morte perciò è per noi un doppio scacco (Moneti, 2004).

Morire non è, come crediamo spesso, un evento assurdo, privo di senso. Molte cose possono essere ancora vissute, su un terreno più sottile, più interiore: il terreno della relazione con gli altri. Ecco perché la morte mi colpisce, perché mi permette di puntare dritto al cuore dell’unica domanda: che senso ha la mia vita? Così, dopo anni di assistenza a coloro che definiamo «moribondi» e che invece sono vivi fino all’ultimo, mi sento più viva che mai e lo devo a coloro che ho accompagnato negli ultimi istanti e che, nell’umiltà in cui li ha precipitati la sofferenza, si sono rivelati maestri” (De Hennezel, 1996, 68).

Conclusioni

Dalla stesura della tesi emerge chiaramente che il cancro rappresenta a livello sociale l’archetipo della malattia mortale e pertanto determina un particolare disordine emotivo ed esistenziale non solo in chi ne viene colpito, ma anche nelle persone che svolgono una funzione di supporto e di assistenza. Tale malattia si configura come una profonda minaccia che pone pesanti preoccupazioni e incertezze sul futuro, soprattutto se l’innocente colpito è un bambino.

In questo caso non c’è genitore che, messo di fronte alla diagnosi di tumore, non si chieda se in qualche modo è responsabile della malattia del figlio, e questo vale soprattutto se si è perso tempo, magari sottovalutando segni o sintomi che col senno di poi sarebbero potuti essere interpretati come l’esordio.

La comunicazione della malattia, con il conseguente ingresso in ospedale, rappresenta per il bambino una fase molto critica, non solo perché si trova a dover affrontare qualcosa che non conosce, e di cui non sempre viene messo a conoscenza, ma anche perché improvvisamente la sua quotidianità viene sconvolta. I frequenti e lunghissimi periodi in ospedale, le restrizioni spesso conseguenti ai trattamenti, riducono le opportunità del bambino di socializzare, giocare, esplorare e sviluppare le relazioni con gli altri (Eiser, 1994).

Non bisogna dimenticare che un bambino malato è prima di tutto un bambino ed è per questo che l’importanza di un approccio globale, di un’attenzione al prendersi cura, e non solo a curare, è prioritaria in oncologia pediatrica. Questo significa che l’équipe medico-infermieristica e i genitori, insieme a tutti coloro che ruotano intorno a un bambino malato, devono cooperare per preservare il più possibile l’infanzia con tutte le sue caratteristiche (Guarino, 2006).

Guarire da un cancro in età pediatrica è possibile per sei bambini su dieci, in media, ma solo a condizione che tutto funzioni al meglio, non si commettano errori, si aderisca a regole, tempi e modi. Tutto ciò diventa possibile quando la fiducia dei genitori e del bambino nei confronti del team incaricato per le cure, si sviluppa secondo linee armoniche. Serve un team che si allei alla famiglia e rispetti il bambino, conosca il mondo delle emozioni che si scatenano nel processo di cura, sappia contenere e prevedere, sia aiutato a elaborare.

La qualità della relazione di cura può consentire al bambino di sentirsi una persona in uno scambio autentico fondato sulla sincerità e sulla fiducia con l’équipe curante o, al contrario, può facilitare il sentimento di essere ingannato, di essere considerato solo una “malattia da curare” e non un individuo nella sua interezza.


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La valenza della relazione interspecifica Sabrina Consumati

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relazione interspecifica

La valenza dell’interazione interspecifica: come l’incontro tra uomo e cane può contribuire al benessere psico-fisico della personascarica l'articolo

Il presente articolo propone una riflessione sulla valenza della compagnia del cane e sui possibili benefici ricavabili dalla relazione interspecifica uomo-cane. Attraverso l’approfondimento di alcuni dei potenziali effetti benefici della relazione uomo-cane dal punto di vista dell’uomo, si osserva come, tra le tante variabili presenti nella complessità dell’arco della vita dell’uomo e nella sua quotidianità, un sano legame interspecifico può potenzialmente rappresentare un contributo al benessere della persona a livello psichico, fisico e sociale.

 

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Ad oggi basta guardarsi intorno per notare un aumento delle famiglie che decidono di avere un cane. Nei centri commerciali, nei parchi, nelle strade sono molte le persone che passeggiano in compagnia di un quattrozampe. Sappiamo per certo che accogliere un animale nella propria vita comporta una serie di cambiamenti nell’organizzazione della quotidianità e soprattutto una forte limitazione alla propria libertà: le uscite, le feste, le vacanze ne sono necessariamente condizionate. Nella gestione degli impegni della giornata si deve ritagliare del tempo per accudire in modo opportuno e puntuale l’animale per venire incontro a quelli che sono i suoi bisogni primari, come l’alimentazione e la pulizia. Nonostante l’atmosfera frenetica dei nostri tempi, in cui sembra di non avere mai abbastanza tempo per portare a termine tutti i nostri compiti giornalieri, la percentuale di animali domestici nelle nostre case è sempre più in aumento. È chiaro che devono esserci dei fattori che riescono a compensare gli impegni che l’avere questa responsabilità comporta e che quindi motivano plausibilmente questa scelta.

Negli ultimi 30 anni si è assistito ad una crescita di interesse nei confronti del mondo non-umano anche da parte della stessa comunità scientifica che ha posto attenzione al fenomeno dell’interazione uomo-animale attribuendogli una dignità tale da diventare un vero e proprio oggetto di studio. Recentemente è nata una nuova disciplina scientifica che propone un nuovo modo di pensare la complementarità di uomo e animale: la Zooantropologia (ZA). L’oggetto di studio della ZA sono le caratteristiche dell’interazione uomo-animale ed i contributi che l’uomo può ricevere dalla diversità animale (Marchesini, 2005). Mentre prima l’animale era uno strumento atto ad aiutare l’uomo nella messa in pratica di alcuni lavori, oggi l’animale ha acquisito una vera e propria valenza referenziale. Un esempio pratico di questo è riscontrabile nella diversa visione che oggi si ha nei confronti del cane. Una volta le varie razze erano selezionate in base alla loro utilità: il Pointer, cane da punta, è stato selezionato specificatamente per avere una morfologia tale da facilitare la percezione dell’odore della preda, veniva quindi utilizzato nelle attività di caccia, così come anche razze quali il Bassotto, la cui particolare struttura fisica è stata selezionata per stanare animali come il tasso o la lepre, o ancora razze come i Collie, selezionati perché mantengano un naturale istinto al raduno del bestiame. Poche sono le razze il cui compito era solo l’essere “cane da compagnia”, ma nonostante questo ci accorgiamo che ogni razza ha una sua storia e che la detenzione di un cane era, nella quasi totalità dei casi, associata ad una necessità concreta dell’uomo. Ad oggi la scelta di possedere un cane non è più motivata dalle predisposizioni della razza funzionale per uno specifico lavoro: nella percentuale maggiore dei casi sono le caratteristiche fisiche ed estetiche che indirizzano la scelta dell’animale. L’idea del cane da lavoro, salvo alcuni ambiti cinofili, sta sempre più scemando ed il cane è generalmente visto come un animale da compagnia a prescindere dalle caratteristiche di razza. Assistiamo dunque ad un lento cambiamento del ruolo dell’animale all’interno delle famiglie: mentre prima il concetto di animale era inteso prevalentemente in senso utilitaristico e come proprietà, oggi viene riconosciuto come vero e proprio referente e come un compagno di vita che entra nella sfera dell’intimo e del familiare, dotato di una propria soggettività e verso il quale si hanno delle responsabilità.

Non sempre però le persone hanno piacere di entrare in contatto con un animale. A questo proposito la zooantropologia ha studiato e individuato le potenziali disposizioni che il referente uomo può avere nei confronti dello stimolo animale. Tra queste troviamo (Marchesini, 2005):

  • la zooapatia, cioè una forma di totale disinteresse verso lo stimolo animale, l’animale è percepito come qualcosa di estremamente irriverente;

  • la zoopoiesi, in cui si assiste ad una tendenza a negligere l’autenticità dell’animale, quindi quest’ultimo non è riconosciuto nella sua diversità e nelle sue caratteristiche specie-specifiche;

  • la zooempatia, propria di quelle persone che nutrono un interesse verso l’altro animale sostenuto dall’accettazione della diversità animale e dalla curiosità di conoscerla nel rispetto delle caratteristiche specifiche;

  • la zoomania, in cui l’interesse verso l’animale è talmente alto che la persona investe tutte le proprie energie affettive e/o relazionali verso il partner non umano;

  • la zoofobia, in cui lo stimolo animale è percepito come un potenziale pericolo;

  • la zoointolleranza in cui la persona percepisce le caratteristiche dell’animale come aberranti e intollerabili provando ribrezzo generale verso tutto il non-umano.

Alla base delle diverse disposizioni attraverso cui una persona può avvicinarsi allo stimolo animale sono stati indagati alcuni fattori di interazione che influiscono sul modo di percepire l’animale. Tra questi, gli studi della ZA hanno individuato: fattori innati, o specie-specifici, come ad esempio il comportamento epimeletico, che rappresenta un retaggio della natura dell’essere umano e si definisce come la propensione istintiva a prendersi cura di esseri allo stato di cuccioli o docili animali; fattori educativi, cioè quelle modalità di risposta allo stimolo animale che i genitori trasmettono ai figli; fattori esperienziali, che consistono nelle occasioni che la persona ha avuto di incontrare l’animale ed il vissuto che si porta dentro di queste esperienze; fattori culturali, legati alla trasmissione della rappresentazione dell’animale in termini di usi e costumi, ad esempio in molti paesi dell’Asia Orientale ed Oceania alcune razze canine sono allevate appositamente per la macellazione; fattori patologici, cioè situazioni che possono rafforzare o indurre disposizioni zoofobiche o zoointolleranti, ad esempio patologie che modificano il modo in cui la singola persona interagisce con l’animale, creando presupposti negativi nell’interattività con il referente animale e motivando la persona ad evitare o rifiutare l’incontro interspecifico.

Secondo Marchesini (2005) esistono tre strutture di relazioni previste dalla ZA: la pet-partnership o relazione collaborativa, che si basa sulla capacità dei due partner di operare insieme e richiede una forte intesa (es. unità cinofile antidroga e rispettivi conduttori); la pet-relationship o relazione di incontro-confronto, che è la base delle attività di ZA applicata all’ambito educativo o assistenziale (scuole, centri per anziani, ecc.) e ha il fine di ottenere specifici contributi referenziali; pet-ownership o relazione affiliativa, basata su un processo di adozione con condivisione degli spazi e di intimità. In questo contesto approfondiremo in particolar modo le ultime due.

Volendo indagare i contributi benefici di questa interazione interspecifica, è chiaro che la disposizione della persona nei confronti dello stimolo animale debba essere di carattere zooempatico. L’accettazione e la consapevolezza di avere di fronte a sé un essere non-umano apre la persona alla possibilità di sperimentare nuove disposizioni emozionali e cognitive solitamente poco o solo in parte sollecitate nell’ordinarietà delle relazioni inter-umane. Dal suo canto, riconoscendo l’altro animale come un vero e proprio referente, un’interazione corretta ed equilibrata implica anche che l’animale coinvolto accetti, ricerchi e gradisca l’interazione ravvicinata dell’uomo.

Per quanto riguarda la pet-relationship, sono state individuate diverse dimensioni di relazione (R) che caratterizzano questa interazione. Il referente umano può interfacciarsi allo stimolo animale attraverso il gioco (macroarea ludica di R), attraverso una predisposizione alla conoscenza attenta e interessata dell’alterità animale in cui l’interazione prende la forma di un interscambio conoscitivo (macroarea epistemica di R), attraverso una condivisione emozionale che tende all’interscambio di affetto, fiducia e sostegno reciproco (macroarea affettiva/affiliativa di R), attraverso il puro piacere di vivere l’incontro con il referente animale come momento di “libertà mentale” rispetto i problemi e le preoccupazioni della realtà quotidiana (macroarea edonica di R).

La relazione pet-ownership presenta invece delle caratteristiche di base che differenziano questo tipo di relazione dalle altre interazioni con gli animali. Volendo elencare i più importanti caratteri della pet-ownership, la zooantropologia ha individuato l’intimità, in quanto il rapporto pet-ownership si caratterizza per la continuità relazionale realizzata all’interno di una condivisione stretta dello spazio di vita quotidiano che si traduce in uno stato di intimità tra i due referenti, la reciprocità che rende la pet-ownership una struttura relazionale in co-sviluppo; la progressiva strutturazione intersoggettiva della relazione in cui vi è l’assunzione che dietro alla relazione pet-ownership ci siano due identità soggettive e il pet non sia semplicemente il rappresentante di una determinata specie, ma abbia un nome che lo caratterizza, asimmetricità in quanto c’è un rapporto di diretta dipendenza del pet dal pet-owner ed infine la plasticità, caratteristica che indica il polimorfismo che caratterizza la coppia uomo-animale nella relazione di Pet-ownership.

La Zooantropologia si è interessata allo studio degli aspetti generali della relazione Pet-ownership analizzandola in termini di modalità affiliative. Queste diverse dimensioni di relazioni possono risultare interessanti in quanto danno delle indicazioni su quella che può essere una struttura relazionale interspecifica equilibrata, nonché stabile, produttiva e duratura. Volendo elencare queste modalità affiliative (MA), troviamo (Marchesini, 2005, 387-397):

MA epimeletica che prende in considerazione la tendenza da parte della specie umana di prendersi cura del pet, ad esempio alimentandolo e prendendosi la responsabilità di soddisfare i bisogni primari dell’animale.

– MA ludica che si esplicita sia nel giocare in modo attivo con l’animale, sia nell’osservazione diretta dell’animale mentre gioca.

– MA di attaccamento che secondo Marchesini coinvolge in modo generale tutte le componenti dove il pet-owner vede nel pet la sua “base sicura”, in cui il soggetto trova delle conferme affettive autentiche e disinteressate, sentendosi rassicurato proprio nel suo valore individuale.

MA identitaria in cui la relazione si pone come una opportunità di crescita e di strutturazione del Sé. Ad esempio, nel contesto della vita quotidiana il pet può trasmettere al referente umano una interpretazione diversa della realtà contingente offrendo importanti feedback per leggere/correggere il suo stato emotivo.

MA emozionale che riguarda la capacità del pet di sollecitare nel referente uomo stati emozionali avvertiti come positivi attraverso una «osmosi emozionale». Il pet manifesta infatti nel qui ed ora le sue disposizioni emotive, generalmente incentrate soprattutto sulla gioia e sulla curiosità.

– Ma vicariante rientra in quelle tipologie di affiliazione che non rappresentano un modo opportuno per interfacciarsi all’alterità animale. Tale modalità si manifesta nel momento in cui l’animale viene utilizzato, nel vero senso della parola, come un operatore solipsistico, cioè come una sorta di rifugio o una via vicaria alle interazioni interumane da cui il soggetto si vuole sottrarre.

– MA surrogatoria che caratterizza i rapporti proiettivi e deficitari in termini di reciprocità. Esattamente come la MA vicariante, in questa situazione il referente umano di pone all’alterità animale attraverso una dimensione zoopoietica (come abbiamo precedentemente affermato implica la tendenza a negligere le caratteristiche specie-specifiche dell’animale). In questa modalità la surrogazione avviene o attraverso l’attribuzione all’animale di un valore strumentale, quindi l’animale è visto come un oggetto da mostrare agli altri, oppure come un’arma, o ancora attraverso l’antropomorfizzazione del pet, quindi attraverso una rappresentazione distorta della realtà animale in cui quest’ultimo viene investito di una dimensione relazionale priva di contenuti di diversità, ad esempio nel caso in cui il pet viene esplicitamente trattato come un figlio o un partner nel contesto sociale umano.

Come abbiamo detto in precedenza l’interesse della Zooantropologia è dunque quello di indagare la struttura dell’interazione uomo-animale e studiare i possibili contributi che questa interazione può dare al referente umano. Nel corso dell’ultimo secolo ci sono state diverse ricerche, che citeremo in seguito, circa gli effetti del contatto di un animale, in particolare del cane, sull’uomo. Marchesini afferma che l’animale ha delle caratteristiche particolari che possono potenzialmente indurre l’essere umano in una condizione cosiddetta di «fibrillazione di stato» che favorisce l’apertura dell’individuo stesso verso un cambiamento. Tra queste caratteristiche troviamo il coinvolgimento, cioè la capacità di attrarre l’attenzione e lo stato emozionale del referente umano, di metterli su di sé e di indurre la persona a mettersi in moto ed agire, l’influenza, ovvero la capacità di modificare il profilo della persona e influenzarne il cambiamento attraverso un accreditamento implicito, come conferme affettive, l’immediatezza cioè la capacità di superare le barriere di comunicazione e di interazione dell’essere umano attraverso un linguaggio totalmente privo di parole, la familiarità ossia la capacità di abbassare le tensioni legate all’apparenza sociale permettendo alla persona di poter esprimersi nella sua spontaneità, e la plasticità, cioè la possibilità dell’uomo di sperimentare e assumere diversi ruoli nell’incontro con l’alterità animale (Marchesini, 2005). Per avere una visione più globale e allo stesso tempo schematica dei potenziali effetti benefici dell’interazione interspecifica sull’uomo, dividiamo questi ultimi in benefici fisici, psicologici e sociali, riportando i risultati di numerose ricerche.

Per quanto riguarda i benefici di tipo fisico, interessanti sono i risultati di alcuni studi che riguardano la variazione della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di cortisolo in alcuni soggetti prima e dopo il contatto con un cane. Ballarini (1995) presenta l’esito di una ricerca condotta da Katcher (1981), Beck (1983) e Baun (1984, 1989), i quali hanno dimostrato che l’accarezzare un animale, o anche la sua semplice presenza, induce un effetto calmante e una riduzione della pressione sanguigna in chi compie l’azione. Una ricerca più recente è stata condotta da Odendaal (2000) e Odendaal e Maintjes (2003), questi studiosi si sono occupati dello studio delle variazioni nei valori di cortisolo ematico in un campione di proprietari di cani mentre accarezzavano il proprio cane, mentre accarezzavano un cane estraneo e durante la lettura tranquilla di un libro. I risultati emersi affermano che l’interazione con il proprio cane ha dato minori livelli di cortisolo ematico, segue l’interazione con un cane sconosciuto e infine la lettura di un libro. Si evince quindi come lo scambio interazionale con il cane può potenzialmente suscitare qualcosa nel referente umano. Non solo, in un’altra ricerca condotta da Cole e colleghi (2007) è stato osservato come il cane può avere un effetto calmante sulle persone. Prendendo in considerazione adulti ospedalizzati con una patologia di insufficienza cardiaca, è stato osservato come, durante le normali visite dei medici in ospedale, i livelli di epinefrina, norepinefrina e cortisolo, di per sé abbastanza alti in conseguenza alla condizione stessa, risultavano inferiori al valore medio in corrispondenza della presenza e dell’interazione dei soggetti con dei cani. Si può dunque dedurre che l’interazione interspecifica con un animale amichevole può influenzare le risposte endocrine e tamponare o ridurre lo stress favorendo sensazioni di calma e rilassatezza (Mugnai, 2014).

Sempre per quanto riguarda la sfera dei potenziali benefici fisici, interessanti sono i risultati di alcune ricerche che hanno indagato il ruolo dell’ossitocina durante l’interazione uomo-animale. L’ossitocina è un nonapeptide il cui rilascio, sia nel torrente circolatorio sia nel cervello, è generalmente causato da una intensa stimolazione sensoriale, ad esempio dalle contrazioni del travaglio, durante l’allattamento o un rapporto sessuale. È stato osservato che una stimolazione sensoriale meno intensa come un contatto affettuoso all’interno di una relazione di fiducia reciproca può dare ugualmente esito al rilascio di ossitocina nel cervello. Le terminazioni nervose ossitocinergiche si proiettano in quelle aree del cervello coinvolte nella regolazione delle interazioni sociali e del senso del benessere. Hadlin e colleghi (2011) hanno condotto una ricerca i cui risultati hanno messo in evidenza come sia negli essere umani sia negli animali un contatto fisico come delle carezze comportava un aumento di ossitocina a livello plasmatico. Inoltre, questi studiosi hanno osservato come l’aumento maggiore si presentava quando i padroni interagivano con il proprio cane rispetto l’interazione con un cane sconosciuto. Secondo Mugnai, i recenti risultati scientifici suggeriscono che gli effetti dell’interazione uomo-animale sono sovrapponibili agli effetti dell’ossitocina: essendo stato appurato che l’ossitocina può potenzialmente dare luogo ad una riduzione dei livelli di cortisolo, nonché ad un abbassamento della pressione sanguigna, si può ipotizzare che l’ossitocina sia quel meccanismo neurobiologico principale all’origine degli effetti dell’interazione uomo-animale (Mugnai, 2014).

Per quanto riguarda i potenziali benefici psicologici, possono essere proposte diverse considerazioni. Il rapporto con il cane ci pone nella condizione di dover “comunicare” nel senso più ancestrale del termine. Come sappiamo, l’animale non è in grado di comprendere o esprimere un linguaggio verbale, per lui le singole parole che utilizziamo non hanno di per sé alcun significato comunicativo e, di conseguenza, ci induce ad entrare in uno flusso comunicativo basato sullo scambio empatico e non verbale e questo esercizio ci permette di acquisire una maggiore sensibilità emotiva. Inoltre, la continuità della relazione interspecifica, soprattutto nel contesto quotidiano, si concretizza in una serie di attività di routine quali le passeggiate, le cure, l’alimentazione, che possono potenzialmente accrescere in chi si occupa dell’animale un senso personale di utilità, autostima e responsabilità, quindi anche di autoefficacia, incrementata soprattutto dal feedback positivo dell’animale e dalle sue conferme affettive e sociali. Per quanto riguarda la dimensione affettiva infatti, i due partner relazionali si sostengono a vicenda interscambiando attenzioni, segnali di fiducia e di affidamento. Ciò crea uno stato di sicurezza emozionale e di riconoscimento come individui soggettivamente speciali e degni di amore e interesse che, avendo attenzione a non cadere in affiliazioni di tipo vicariante, può nutrire il senso di autostima di un essere umano (Marchesini, 2015).

L’intimità che può potenzialmente venire a crearsi tra i due referenti, a patto che di base ci sia una disposizione zooempatica da parte dell’uomo ed un approccio amichevole da parte dell’animale, genera una familiarità tale da far sperimentare all’uomo una relazione diversa dalle più comuni relazioni interumane. Mentre nel dialogo intraspecifico l’uomo può falsificare i suoi sentimenti attraverso l’uso dell’autodescrizione verbale, nella relazione interspecifica l’animale diviene lo specchio dei suoi atteggiamenti e del suo stato emotivo. Il feedback dell’animale non sarà mai contrassegnato da un risentimento e quest’ultimo non serberà rancore per dei conflitti irrisolti. L’animale esprime le proprie emozioni nel qui ed ora, vivendo il presente attraverso emozioni positive, improntate sulla curiosità e sulla spensieratezza. La capacità dell’animale di attirare l’attenzione su di sé e sintonizzarsi sulle emozioni dell’uomo può dare vita ad un contagio emotivo che, come detto in precedenza, a sua volta per «osmosi emozionale» può indurre nella persona l’attivazione di quadri emozionali positivi.

Inoltre, interessante è anche il fatto che l’uomo nella relazione con l’animale può sentirsi libero di esprimere liberamente la propria spontaneità. Questa caratteristica di «accettazione incondizionata» dell’animale è meno presente nelle normali relazioni interumane. Le relazioni umane sono infatti condizionate da dinamiche guidate da norme che definiscono i comportamenti attesi e quelli socialmente non accettabili. Gran parte del comportamento della persona nel contesto della società, quindi delle relazioni con le altre persone, è una risposta a quella che viene descritta come «desiderabilità sociale», cioè a quella condotta che “l’altro da me” si aspetta dal soggetto. (Padon, 2011). Nella relazione interspecifica l’uomo sa che l’animale non si crea delle aspettative sociali nei suoi confronti, di conseguenza il suo comportamento non sarà oggetto di osservazioni, né di valutazioni critiche. Il referente uomo può dunque scrollarsi di dosso il peso delle convenzioni e delle norme sociali sperimentando un senso di accettazione incondizionata e disinteressata in cui può esprimere liberamente la sua naturale spontaneità.

Infine, per quanto riguarda i benefici di tipo sociologico, interessante è il fatto che il cane sia stato definito da alcuni studiosi come Mugford e MrComisky (1975) in termini di “lubrificante sociale”. (cit. in Ballarini, 1995). È stata infatti constatata la capacità del cane di fungere da facilitatore sociale delle interazioni interumane. A questo proposito alla fine del ‘900 Messent ha condotto una ricerca in cui ha osservato sette soggetti e la percentuale di interazioni che questi avevano percorrendo lo stesso percorso nell’Hyde Park di Londra, una volta in compagnia di un cane e una volta senza l’animale. Queste osservazioni hanno permesso di constatare l’incredibile effetto della presenza del cane sulla reazione dei passati. Questi ultimi infatti rivolgevano attenzione al cane, e quindi al padrone, o per interesse personale o in seguito all’interazione tra i rispettivi animali nel caso in cui anche loro erano in possesso di un cane. È stato osservato anche che la conversazione in questi momenti assume generalmente come sfondo l’affettività ed il dialogo è piacevolmente disinteressato, accompagnato da sorrisi e toni tranquilli e divertiti. In questi termini il cane può potenzialmente svolgere un preponderante ruolo di facilitatore delle relazioni sociali interumane. Spesso infatti nelle passeggiate quotidiane si incontrano altri proprietari ed il cane diventa oggetto di interesse e facilita la comunicazione. Inoltre, gli incontri e le frequentazioni che derivano dalla quotidianità favoriscono l’insorgere di relazioni affettive e il formarsi di gruppi sociali, nonché un potenziamento della propria prosocialità (Ballarini, 1995).

Tenendo conto di quanto appena argomentato, è possibile avere una visione generale delle beneficialità potenzialmente insite in una corretta ed equilibrata relazione uomo-cane.

A questo punto possono essere interessanti alcune considerazioni relative alla valenza della referenza animale rispetto le diverse età evolutive dell’uomo.

Per un bambino l’esperienza di interazione con un cane può favorire la promozione delle sue competenze relazionali: come abbiamo detto in precedenza, il cane non ha la capacità di interpretare il linguaggio verbale, di conseguenza per entrare in comunicazione con lui il bambino è sollecitato a mettere in pratica l’abilità di leggere e rispondere al referente attraverso un linguaggio che va al di là della parola, costituito principalmente dal linguaggio del corpo, dalla gestualità e dalle emozioni. Questa interazione dunque può rivelarsi potenzialmente utile per lo sviluppo e l’arricchimento dei meccanismi di relazione e del comportamento sociale, contribuendo a sviluppare nel bambino la capacità di individuare e interpretare correttamente i segnali non verbali coinvolti nelle interazioni sociali umane, nonché la capacità di leggere e sintonizzarsi sulle emozioni dell’altro.

Un’altra competenza sociale fondamentale è l’abilità di comprendere gli stati mentali propri ed altrui, cioè quella che viene definita come «Teoria della mente» (Liverta, Marchetti, 2001). Tale teoria fa riferimento ad un insieme complesso di competenze che permette di attribuire stati interni, quali emozioni, desideri, intenzioni, a se stessi e agli altri. Questa abilità stimola la capacità di interpretare e prevedere il comportamento dell’altro, al fine di acquisire informazioni utili e funzionali per orientare il feedback di risposta più adeguato (Santrock, 2013). L’utilizzo da parte dell’adulto di un lessico psicologico per descrivere ai bambini pensieri ed emozioni indurrebbe nel bambino una tendenza a riflettere e considerare gli stati mentali dell’altro e a valutare come questi possano essere la causa del suo comportamento. I bambini sono generalmente attratti e incuriositi dalla presenza dell’animale. Per questo, uno dei modi attraverso cui la valenza della referenza animale può incidere sullo sviluppo del bambino è il linguaggio di un adulto riferito agli stati mentali dell’animale in situazioni di interazione tra bambino e animale (Macchitella et al., 2011). Questo processo di focalizzazione che il cane suscita nel bambino può rivelarsi anche un incentivo per allenare e mettere in pratica le sue prime forme di comunicazione. Il linguaggio emerge per la prima volta nel bambino accanto ad altri gesti comunicativi. Ad esempio, verso i dodici, tredici mesi i bambini iniziano l’attività di pointing, indicando con il dito un oggetto e guardando alternativamente l’oggetto e l’adulto di riferimento. Ciò rappresenta un importante tappa del percorso evolutivo del bambino. Il cane, che come sappiamo è un importante stimolo che suscita interesse e curiosità, può potenzialmente motivare il bambino ad allenare e sperimentare queste prime forme di comunicazione.

Non solo, per un bambino un cane, anche con la sua sola presenza quotidiana, diviene parte integrante della famiglia. Le attenzioni e le cure che i genitori, in particolare la madre, rivolgono all’animale possono rendere quest’ultimo un oggetto familiare agli occhi del bambino. In questi termini il cane può assumere il ruolo di «oggetto transizionale» che trasmette sicurezza al bambino e lo aiuta a differenziare se stesso dall’altro-da-me.

Un’altra esperienza di relazione con il cane potenzialmente importante per il bambino è il momento ludico. Il gioco rappresenta per il bambino un potente mezzo per conoscere il mondo e comunicare emozioni e bisogni. Non solo, il gioco rappresenta anche un importante fattore di sviluppo che permette al bambino di sperimentare e consolidare nuove competenze, sia cognitive, sia emotive, sia socio-affettive. Attraverso il gioco il bambino inizia a comprendere il mondo che lo circonda, cosa si può fare e cosa no, imparando a comportarsi nel rispetto delle regole (Zaccagnino, 2009). Nella relazione con il cane il bambino può sperimentare le regole del momento ludico condiviso con un essere non-umano. Ad esempio, sotto la supervisione di un adulto, il bambino attraverso il gioco con la palla può sperimentare ciò che si può fare (lanciare la palla al cane, aspettare che la riporti e che la lasci) e cosa non si può fare (togliere la palla dalla bocca del cane, tirare la coda/orecchie al cane). Ancora una volta quindi l’esperienza con il cane, gratificata anche dal feedback positivo del cane stesso, può rivelarsi una palestra per allenare il senso di consapevolezza di sé e del mondo esterno, nonché non incentivo allo sviluppo fisico, cognitivo e sociale.

Interessante è osservare come una sana ed equilibrata relazione interspecifica può essere un importante contributo al benessere della persona nel periodo adolescenziale.

Sappiamo che l’adolescenza è un periodo di grandi cambiamenti che costringono l’individuo ad abbandonare le sicurezze dell’infanzia. Secondo Gambini (2011), l’adolescenza è momento delicato in quanto non solo avvengono diversi cambiamenti da un punto di vista fisico e sociale, ma avviene anche un destrutturazione dell’identità stessa del ragazzo, segnando il passaggio da una identità principalmente formata sul giudizio degli altri significativi ad una identità meno dipendente dall’opinione altrui. L’adolescente si trova nella condizione di ristrutturare la sua personalità e ricercare una condizione psicologica basata sulle proprie capacità, le proprie motivazioni ed i propri valori, così da trovare in sé e non più negli altri, la fonte della propria sicurezza. Come abbiamo già argomentato in precedenza, il cane ha la capacità di dare vita ad una atmosfera calda e familiare, in grado di accogliere il suo referente umano senza che questo si senta in dovere di risponde a delle aspettative specifiche. L’adolescente, la cui disposizione è prettamente zooempatica, può sperimentare se stesso in un terreno nuovo, diverso dalle comuni relazioni interumane le cui dinamiche sono dettate da regole e norme ben precise, mettendo così in gioco la sua spontaneità senza la paura del giudizio. Il feedback che l’adolescente riceve dall’animale è chiaro, autentico e può fungere da specchio per le azioni dell’adolescente. Secondo Ardone e Chiarolanza (2007), tra i bisogni prioritari dell’adolescente si collocano l’autonomia, la competenza ed il bisogno di connessione. L’adolescente ha necessità di sapere che può prendere delle decisioni autonomamente, sperimentando la positività delle proprie scelte, quindi anche la positività del suo agito e delle sue competenze. Inoltre, per l’adolescente sono fondamentali i sentimenti di appartenenza e i legami significativi. Pur facendo attenzione a non cadere nell’isolamento sociale e nella patologia, il cane può rilevarsi un valido promotore della soddisfazione (almeno parziale) di questi bisogni. Ad esempio, per l’adolescente zooempatico il prendersi cura di un cane attraverso l’attenzione della sua salute, della sua igiene, della sua alimentazione può rivelarsi un momento di metacognizione: sono piccoli compiti in cui il ragazzo può sperimentare la propria competenza e le proprie capacità, alimentando anche quello che è il proprio senso di autostima ed autoefficacia. Scegliere cosa fargli mangiare, dove portarlo ad espletare i suoi bisogni, gestire la cura del pelo, gestire il gioco con il cane, sono esempi in cui l’adolescente può fare esperienza della propria autonomia decisionale. Non solo, la cura puntuale e attenta di un cane, nei limiti in cui un ragazzo può occuparsene, rappresenta anche un valido incentivo per lo sviluppo del proprio senso di responsabilità. L’adolescente quindi può sperimentare diversi aspetti di se stesso ed allenare importanti capacità all’interno di un microsistema (relazione uomo-cane) che un giorno potrà essere proiettato in un macrosistema composto da esperienze diverse e più complesse.

Per quanto riguarda la relazione con il cane vissuta dal punto di vista dell’adulto è possibile constatare che l’adulto è colui che si assume la percentuale maggiore di responsabilità nel momento in cui si decide di accogliere un animale in casa. Di conseguenza, l’adulto è anche colui che trascorre la maggior parte del tempo con l’animale. In linea generale possiamo pensare alla relazione adulto-cane come una sintesi di tutti i potenziali benefici della relazione con l’animale. Abbiamo visto come la condivisione del tempo con un cane può stimolare quadri emotivamente positivi nella persona e come la sua presenza può avere un effetto anti-stress sul referente umano. Il cane infatti, nei limiti del rispetto della sue caratteristiche specie-specifiche, può assumere il ruolo di «valvola di sfogo» in una società che allontana sempre di più l’uomo dalla sua natura ancestrale: la natura, la comunicazione emotiva, la libera espressione di se stessi e la spontaneità. Abbiamo visto come i feedback positivi ricevuti dall’animale in risposta alle cure e alle attenzioni da parte dell’uomo, all’interno di un clima intimo e di fiducia reciproca, può avere un effetto terapeutico sull’individuo. Per un adulto, ad esempio, giocare con un cane esprimendo la sua spontaneità può essere un fattore stimolante per “liberare la mente” dai rigidi schemi della società, nonché un mezzo di distrazione dai problemi quotidiani, aumentando perfino gli eventuali momenti di gioia. Inoltre, la responsabilità della cura di un cane e la puntualità che questa richiede può rivelarsi una palestra per le proprie abilità e competenze di cargiver in vista di un futuro figlio.

Riguardo la valenza dell’animale in relazione ad un individuo anziano, sappiamo che, oltre i cambiamenti fisici e fisiologici che questa fase evolutiva comporta, l’invecchiamento implica una profonda modificazione sul piano sociale e una trasformazione e rinegoziazione dell’immagine di sé. Ciò che caratterizza in modo peculiare questo periodo è quello di essere l’ultimo, lo stadio finale dell’esistenza. L’invecchiamento è un processo di graduale avvicinamento alla fine della vita in cui la persona rileva delle carenze graduali sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista cognitivo. In alcuni casi a questo si può aggiungere un senso di solitudine e di inutilità e può accadere che ci si lasci andare a stati depressivi. I disturbi psicologici dell’anziano fanno spesso parte di un quadro complesso in cui tali disturbi si intrecciano con elementi di origine socio-ambientale. Relativamente alle possibilità della singola situazione, la presenza di un cane può essere di supporto per la persona anziana, sia perché può diminuire la sensazioni di essere soli, sia perché può stimolare l’anziano a mettere in pratica le sue capacità di caregiver, migliorando quindi il proprio senso di autoefficacia e di utilità. Come già detto in precedenza, il cane è in grado di stimolare quadri emozionali avvertiti come positivi per la persona, dunque la sua presenza per un anziano può comportare un miglioramento dell’umore, nonché di occasioni di incontro e condivisione (Marchesini, 2015).

Volendo osservare più da vicino la potenziale valenza dell’incontro uomo-cane, possiamo considerare due interventi i cui destinatari sono persone con problemi di tipo sociale, psicologico e affettivo.

Il primo interessante intervento trova il suo contesto nelle carceri ed è relativo ad una nuova prospettiva di umanizzazione della pena dei detenuti. Spesso infatti lo sconto della pena è generalmente associato ad una punizione esemplare per far sì che la persona si astenga dal commettere un altro reato per non incorrere in una ulteriore penalizzazione. Per i detenuti che si trovano in una situazione di particolare durezza esistenziale e solitudine affettiva, come quella di un carcere, la presenza di un animale può rivelarsi molto importante. Nell’ottica della rieducazione, del recupero e della promozione del reinserimento sociale, essi possono contribuire ad umanizzare la pena, evocando nei detenuti risorse spesso disconosciute dagli altri come da loro stessi. Come abbiamo già visto in precedenza, la presenza di un pet può essere un antidoto alla solitudine, può accrescere l’autostima, responsabilizzare, inoltre favorisce la capacità di osservazione, promuove l’affettività e può stimolare l’umano nell’autoregolazione delle emozioni. Un comportamento come quello del prendersi cura di esseri bisognosi diventa, per chi è recluso, un’occasione di riscatto, un’esperienza relazionale significativa che può stimolare le doti empatiche del detenuto. Per tanto, permettere alle persone recluse di occuparsi di un animale evitando la pena aggiuntiva della privazione del vitale contatto intimo e affettivo con un altro referente, può rivelarsi un potente strumento in grado di arginare la demotivazione radicale che spesso con facilità si instaura in carcere (Manzoni, 2009).

Infine, l’ultimo intervento che ritengo interessante citare riguarda la valenza della referenza animale nel contesto universitario. Tutti ben conosciamo gli effetti dello studio universitario: lo studente è continuamente messo alla prova attraverso esami, prove scritte ed orali, preparazione di tesi, e sappiamo quanto queste situazioni possono essere causa di tensione e stress per l’individuo. Spesso lo stress può incidere negativamente anche sui risultati degli esami, poiché l’ansia e la tensione a volte raggiungono livelli tali da inficiare sulla concentrazione e sull’attenzione dello studente. In Scozia è stato promosso un progetto per diminuire lo stress da esami: nella Aberdeen University, per attutire l’ansia, gli stati emotivi negativi, la tensione, è stata allestita una così detta puppy room, cioè una stanza in cui gli studenti posso passare del tempo accarezzando e giocando con dei cuccioli di cane di svariate razze. L’entusiasmo coinvolgente dei cuccioli funge da potenziale e forte anti-stress, in virtù delle caratteristiche precedentemente esposte, che aiuta i ragazzi a rilassarsi e allentare la tensione accumulata prima degli esami, il tutto nel rispetto anche del benessere dei cuccioli stessi che sono seguiti e salvaguardati da figure professionali. L’affetto incondizionato e travolgente dei cuccioli invade di positività la sfera emotiva degli studenti, i quali possono sentirsi immediatamente sollevati, ritrovare un equilibrio psico-fisico soddisfacente, sentirsi divertiti e di buonumore (www.thenationalstudent.com, 2013).

Conclusioni

Alla luce di quanto descritto, si può constatare l’esistenza di un potenziale referenziale insito nel referente animale. L’incontro tra due esseri diversi, quali l’uomo ed il cane, può dare vita ad uno scambio empatico in cui l’uomo può sperimentare l’autenticità di una interazione interspecifica completamente disinteressata. Come precedentemente sottolineato, ciò può avvenire nel momento in cui i presupposti siano la consapevolezza di avere di fronte a sé un essere diverso dalla propria specie (disposizione zooempatica) e laddove tale incontro sia motivato da una reciproca curiosità ed interesse.

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SITOGRAFIA:

http://www.thenationalstudent.com/Student/2013-04-04/Puppy_room_to_relieve_exam_stress_at_University_of_Aberdeen.html

 


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Dallo stress lavorativo al mobbing: qual è la linea sottile che li unisce? Viviana Ferraro

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Il presente articolo tratta il fenomeno dello stress in ambito lavorativo strettamente legato al fenomeno del mobbing. L’obiettivo di questo articolo è quello di analizzare come lo stress correlato all’attività lavorativa possa rappresentare un pericolo alla mente e al nostro corpo. Quando si parla di mobbing trattiamo un particolare stress psicosociale legato da effetti indesiderati sulla salute fisica e mentale.

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Introduzione

Lo stress può condizionare la nostra vita, ma può anche aiutarci nella stessa, perché rappresenta l’elemento essenziale che ci spinge a cercare una condizione di equilibrio. Lo stress in particolare quello circoscritto in ambito lavorativo verrà trattato in questo articolo da un punto di vista psicologico e sociale. Grazie ad approfondimenti di ricerche di autori famosi e articoli di riviste che constatano quanto un malessere del genere possa danneggiare il diretto interessato e coloro che si trovano attorno a lui. Verrà trattato in maniera specifica anche il mobbing come fenomeno sociale e come particolare stress psicosociale.

Lo stress e le sue caratteristiche

Prima di poter affrontare la tematica dello stress lavorativo (stress lavoro correlato) bisogna introdurre la parola “stress” all’interno di un quadro complessivo che illustri quest’ultima come un fenomeno adattivo nonché disadattivo con i suoi elementi e le varie tipologie che lo contraddistinguono. Nella sua etimologia, il termine stress, richiama sia l’azione di sottoporre qualcuno a qualcosa oppure l’esito finale della pressione stessa. Nonostante ciò, si usano vari termini come “stressors” per indicare un processo che chiama in causa diversi eventi o fattori di richiesta; “strain” per categorizzare le reazioni fisiologiche, comportamentali e psicologiche adottate dalla persona; “coping strategies” per indicare un insieme di sforzi e strategie adottate dalla persona e gli “stress outcomes” che sono le conseguenze dello strain sia organizzativo che sociale (Sarchielli, Fraccaroli, 2010). Ciò nonostante, in seguito alle ricerche di Selye con il termine stress si intende la risposta aspecifica con la quale la persona si adatta ai vari tipi di cambiamento o reagisce a un ambiente troppo affaticante per le sue risorse (Farnè, 2001). Bisogna precisare che gli studi sul fenomeno stressogeno iniziarono con la psicofisiologia di Cannon (1914), il quale elaborò il concetto di reazione di allarme in biologia che si verifica quando un soggetto affronta un pericolo esterno. Il termine stress che fu acquisito dalla psicologia ha percorso diversi orientamenti (Ege, Lancioni, 1998):

– lo stress come risposta; concepito come la risposta di adattamento allo stimolo esterno.

– lo stress come interazione; si riferisce alla situazione stressante e alla personalità del soggetto che l’affronta.

– lo stress come stimolo; concepito come lo studio della risposta alla situazione percepita come minacciosa.

La prima distinzione tra eustress e distress, fu data da Selye che evidenziò come il primo concetto sia relativo ad una condizione benefica, mentre nel secondo caso si riferisce ad un’angoscia ansiogena. Tuttavia, dipende molto dall’interpretazione che il soggetto dà alle emozioni, che possono essere intese sia come negative o positive (Sarchielli, Fraccaroli, 2010). Lo “stress buono” (eustress) indica un’alterazione non patologica dell’omeostasi individuale che svolge una funzione adattiva, utile nello spingere l’individuo a far fronte agli ostacoli utilizzando le proprie risorse. Mentre, “lo stress cattivo” (distress) viene indicato come un turbamento patologico dell’omeostasi individuale oppure un modo sbagliato di affrontare lo stress, e può avere conseguenze dannose per l’individuo causando l’insorgenza di malattie (De Filippo, 2009). Gli effetti negativi o positivi possono dipendere dal rapporto di due fattori: la gravità dell’evento stressante e dal modo con cui la persona può affrontare lo stress. Se questo rapporto risulta sproporzionato può diventare dannoso (Wilkinson, 1999). Infatti quando si è sottoposti a un livello eccessivo di stress, non solo l’organismo subisce un attacco dall’interno, ma diminuiscono anche le sue capacità di difesa dal mondo esterno. La mente e il corpo di una persona diventano maggiormente vulnerabili (Lewis, 1996).

Effetti sull’individuo

Essere soggetti a rapidi e a innumerevoli cambiamenti può risultare un’importante causa di stress, più sono rapidi tali eventi e maggiore sarà anche la probabilità di accusare sintomi di stress a livello emotivo o fisico. Per valutare l’evento stressante , è necessario tener conto alcuni fattori che ne amplificano la portata come, l’imprevedibilità, l’intensità, la gravità, l’inevitabilità, la desuetudine e la ineluttabilità. Tuttavia, è importante nella valutazione dell’evento stressogeno anche l’età è molto importante (Wilkinson, 1999). Tra gli effetti sull’individuo evidenziamo quelle che sono le reazioni emotive, come gli aumenti della tensione, l’irritabilità e il malumore. Anche la capacità di affrontare semplici problemi può subire variazioni, queste ultime possono variare anche per il cibo (Wilkinson, 1999). Anche le reazioni d’ansia insorgono frequentemente soprattutto quando il soggetto si rende conto di non essere più all’altezza di affrontare alcune responsabilità e incorre in errori, ritardi o dimenticanze significative. Tutti questi sintomi sono transitori quando la situazione si mantiene a livelli minimali, ma possono strutturarsi in sintomi quando il livello di stress e la sua durata non ne consentono il recupero (Cassitto, 2005). Le più comuni reazioni emotive del soggetto sono: paura costante; incapacità di prendere decisioni; tensione e nervosismo; maggiore predisposizione al pianto; paura di sbagliare; frustrazione e aggressività; avere pensieri negativi per il fatto di non sentirsi bene; sensazione di vuoto mentale; sensazione di trovarsi sotto pressione; istinto di fuggire; aumento dell’irritabilità; sentirsi inutile di fronte alla situazione e agitazione e difficoltà di concentrazione (Ege, Lancioni, 1998). In sintesi, è noto che in situazioni di stress sia negativo che positivo, l’individuo reagisce come un tutto modificando sia la tonalità dell’umore, sia il comportamento e il sistema neurovegetativo. Tuttavia, la risposta allo stress non coinvolge sempre questi aspetti contemporaneamente, questo dipende molto dal soggetto e dalla loro modalità di funzionamento (Cassitto, 2005). Oltre alle reazioni emotive, le reazioni fisiologiche possono colpire l’organismo, infatti sotto stress aumenta la produzione di ormoni come l’adrenalina, il cortisone e la noradrenalina con ripercussioni sul battito cardiaco, sulla pressione arteriosa ed il metabolismo. Con il passare del tempo, il cortisone si accumula nel corpo, indebolendo le difese dell’individuo rendendolo meno preparato di fronte le malattie, contemporaneamente viene rilasciata dall’organismo anche una quantità di endorfina, che provoca nel soggetto una sensazione di rilassamento, e con il passare del tempo può provocare effetti secondari, come l’indolenzimento articolare (Ege, Lancioni, 1998). Quando nell’organismo si scatena una reazione fisica, il polso e la pressione arteriosa aumentano. Le reazioni fisiologiche più comuni della risposta da stress sono una varietà di sensazioni spiacevoli, come la tensione muscolare; il battito cardiaco rapido; bruciori di stomaco; sudorazione; debolezza negli arti; mal di schiena; difficoltà di digestione. Queste sono solo alcune manifestazioni patologiche associate ad eventi di vita stressanti (Wilkinson, 1999). Lo stress provoca anche una riduzione di globuli bianchi facilitando la comparsa di altri disturbi, soprattuto in area cardiaca e gastrica. Lo stomaco, infatti, riduce la sua attività durante situazioni stressogene. A stomaco pieno e durante stress fisici di forte rilievo si potrebbe verificare un blocco digestivo, mentre a stomaco vuoto si verificano forti contrazioni con un senso di secchezza alla bocca. Il cuore è un organo che risente molto dedli stimoli stressogeni, l’adrenalina ne aumenta la frequenza raggiungendo 140-230 battiti al minuto facendo sì che la pressioni si alzi, creando condizioni di svantaggio per l’organismo. In questo periodo il cuore si indebolisce gravemente e l’aumento della pressione arteriosa contribuisce ai quei disturbi noti come l’infarto e l’arteriosclerosi (Ege, Lancioni,1998). Lo stress come già detto precedentemente può portare a problemi del sonno, alla cosiddetta “insonnia primaria” che si caratterizza da una latenza di addormentamento molto lunga (superiore ai 30 minuti), infatti la persona fa fatica sia ad addormentarsi che a mantenere il sonno. Durante le poche volte in cui la persona riesce ad addormentarsi di nuovo e si risveglia subito dopo, riferisce, che di sentirsi affaticata e accusa stanchezza (Sanavio, Cornoldi, 2005). Molto frequenti nelle persone affette da stress sono le reazioni comportamentali, ci sono alcune persone che preferiscono estraniarsi e rimanere in solitudine, altri, invece, preferiscono trovare aiuto negli amici o familiari. Un soggetto stressato sente il bisogno di continue rassicurazioni, cade in preda ad incertezze, cambia spesso umore e piange senza un motivo. Anche la sfera intima può subire delle modifiche, ad esempio. non si prova più interesse per l’altro sesso oppure s’intrattengono relazioni casuali. Le persone sotto stress negano di aver cambiato il proprio comportamento, cosa che invece risulta evidente ai loro conoscenti e ai loro familiari. A volte utilizzano dei falsi rimedi che possono dare dei sollievi temporanei, ma spesso possono risultare invani. Può capitare che queste persone adottino altri comportamenti che possono essere considerati nocivi per la persona stessa, come bere alcool in maniera eccessiva oppure fumare. Anche la sfera alimentare è alterata dalla normale regolazione dell’appetito che viene azzerata oppure sostituita da reazioni impulsive in cui il soggetto, ad esempio, si alza di notte per mangiare in maniera da colmare il senso di vuoto e angoscia che impedisce il sonno (Cassitto, 2005). In questa sfera rientrano le somatizzazioni di secondo tipo relative al comportamento e al linguaggio non verbale, come l’anoressia e la bulimia; grattarsi senza aver prurito; mangiare le unghie, sistemarsi continuamente i capelli; muovere ritmicamente le dita e sfregare spesso il naso (Ege, Lancioni, 1998).

I principali modelli del processo stressogeno

Sono stati elaborati vari modelli teorici che hanno cercato di comprendere le variabili che intervengono in un’esperienza stressante e il modo in cui tali variabili sono tra loro connesse. Vediamo ora uno per uno alcune delle varie teorie che hanno contribuito al tema dello stress:

  • I primi studi iniziali sono quelli di W. Cannon che circoscrive lo stress secondo un approccio medico, di tipo bio-psicosociale. Lo stress viene studiato da un punto di vista fisiologico. Secondo Cannon (1936) non appena viene ricevuto un segnale di pericolo, l’individuo mette in atto una risposta di fuga o attacco (fight or flight), cessata la minaccia, ritorna in uno stato di omeostasi (Compare, Grossi, 2012).

  • Le prime ricerche furono di Hans Selye (1936), che durante i suoi esperimenti sugli animali scoprì che una varietà di stimoli ambientali nocivi (stressors), come l’esposizione ad alte temperature, lesioni fisiche, produceva lo stesso tipo di reazioni somatiche nell’organismo, come ulcere nello stomaco e nell’intestino (Fraccaroli, Balducci, 2011). Lo stress da Selye (1946) viene concettualizzato come una parte di una sindrome generale di adattamento (General Adaption Syndrome –GAS), fenomeno composto dalla reazione di allarme, dalla resistenza e dall’esaurimento finale, che descrive le fasi attraverso cui passa l’organismo nel tentativo di far fronte alla minaccia esterna (Rossati, Magro, 1999). Vediamo qui di seguito le varie fasi e le loro caratteristiche:

  1. La prima fase detta di allarme, provoca all’organismo uno stato di allerta con conseguente attivazione di processi psicofisiologici, come il battito cardiaco. Questa fase è sostenuta da attivazioni neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui le secrezioni di adrenalina e noradrenalina permette una reazione del sistema nervoso autonomo. La conduzione nervosa viene facilitata da questi due ormoni, i quali permettono la rapidità di risposta dell’organismo all’ambiente. È grazie al midollo surrenale che immette tali ormoni in circolo nel flusso sanguigno, comporta l’immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressorio. In questa fase si distinguono due momenti opposti chiamati rispettivamente shock e contro shock, in cui una iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo, corrisponde un secondo momento reattivo, contro shock (Favretto, 1994).

  2. La fase successiva è chiamata resistenza che vede l’organismo tentare di adattarsi alla situazione. Questa condizione ha un andamento di maggiore durata in quanto gli ormoni vengono sostenuti da fenomeni endocrini. Un’accentuazione della sindrome generale di adattamento può indurre le potenzialità di risposta dell’individuo attivando in questo modo la terza e ultima fase (Favretto, 1994).

  3. La terza fase, quella di esaurimento, l’individuo non riesce più a difendersi e di conseguenza viene a mancare la sua naturale fase di adattamento. La fase di esaurimento può portare i valori di un individuo al di sotto della norma fino alla vera e propria morte (Favretto, 1994). In ogni caso, la reazione di stress è una reazione fisiologicamente utile in quanto adattiva, ma può diventare patogena se lo stressor agisce con particolare intensità e per periodi protratti (Pancheri, 1980).

  • Anche Lazarus e Folkman contribuirono al concetto di stress psicosociale. Ad introdurre il concetto di coping e di valutazione cognitiva spostando il focus alla relazione ambiente –individuo fu Lazarus, il quale enfatizzò anche le relazioni affettive nella risposta di stress. Infatti, secondo lo studioso in corrispondenza di uno stimolo ambientale si verificano dei processi psicologici che associano lo stimolo ad un significato personale. In sintesi, la mente umana effettua un costante controllo dell’ambiente circostante che comprende, oltre la percezione degli stimoli attraverso i processi sensoriali, anche una loro valutazione cognitiva. Quest’ultima si suddivide in due tipi, la prima riguarda la minacciosità dello stimolo ambientale (valutazione primaria), se lo stimolo non viene considerato pericoloso, il processo valutativo si ferma e non si verifica nessun tipo di risposta. Al contrario, se lo stimolo verrà considerato pericoloso il processo seguirà in quella che viene denominata valutazione secondaria. Nel momento in cui quest’ultima avrà esito negativo o incerto, si attiva allora la risposta di allarme e le reazioni psicofisiche relative. La valutazione cognitiva viene effettuata attraverso i valori propri della persona e di come quest’ultima percepisce sé e il mondo a cui appartiene. Tuttavia, non tutti gli individui rispondono allo stesso modo al medesimo stimolo ambientale, è per questo motivo che si dà ampio spazio alle differenze individuali. Il modello transazionale di Lazarus e Folkman (1984) che definiscono lo stress come una condizione data da un’interazione (transazione) in quanto una persona è un agente attivo in grado d’influenzare gli eventi mediante strategie cognitive, emotive e comportamentali. Questa teoria ha un duplice effetto sia sul effetto che ha sul benessere della persona che sulla valutazione dell’evento (Fraccaroli, Balducci, 2011). È in questa teoria che compare per la prima volta il concetto di stress psicologico e vengono distinte le strategie di “coping emotion-focused”, che riguardano la regolazione della risposta emotiva e le strategie di “coping problem-focus” centrate sul problema (Compare, Grossi, 2012). La prima forma di coping riguarda i tentativi fatti da attività cognitive, le quali mirano a regolare le relazioni affettive quali l’ansia e la tensione alla risposta da stress. Il coping focalizzato sul problema, riguarda il modo per gestire la minaccia e le azioni per cercare di ridimensionarla (Fraccaroli, Balducci, 2011). In sintesi il modello dei due autori prevede una serie di fasi che sintetizzeremo n questo modo (Toneguzzi, 2006):

  1. Una valutazione primaria: il soggetto valuta lo stressor, il suo senso e il grado di pericolosità;

  2. Una valutazione secondaria: il soggetto valuta come e quanto può fare fronte allo stressor;

  3. Coping: il soggetto agisce per fronteggiare lo stressor;

  4. Rivalutazione: il soggetto valuta gli effetti della sua risposta allo stressor.

  • La teoria che chiarificò, invece, il ruolo sull’attivazione emozionale fu Jason Mason (1975) che attraverso una serie di ricerche sulle scimmie e successivamente sull’uomo, egli dimostrò come la produzione di ormoni da parte della ghiandola surrenale a seguito della stimolazione dell’ipofisi, fosse non solo dall’ esposizione dell’evento stressante, ma fosse innescato dalla reazione emozionale indotta dagli stimoli stessi. La sequenza è quindi la seguente: stimolo – reazione emozionale – produzione ormonale. Infine, Mason dimostrò come a livello fisiologico lo stress è una risposta multi-ormonale che permettono un miglior adattamento dell’organismo in condizioni particolari (Pancheri, 1980). In questa prospettiva, sia l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che l’attivazione della midollare del surrene che seguono all’esposizione a stimoli fisici di varia natura sarebbero una diretta conseguenza dell’eccitamento emozionale che accompagna o precede immediatamente la stimolazione fisica (Toneguzzi, 2006).

Un particolare tipo di stress: lo stress lavoro correlato

Lo stress lavoro correlato è una particolare tipologia di stress che alcuni lavoratori possono subire durante il loro consueto orario lavorativo riportando delle conseguenze anche al di fuori della sfera prettamente professionale.

L’Accordo Europeo sullo stress dell’8 ottobre del 2004 afferma che “Potenzialmente lo stress può riguardare ogni luogo di lavoro ed ogni lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di lavoro. Ciò non significa che tutti i luoghi di lavoro e tutti i lavoratori ne sono necessariamente interessati” (Gottardi, 2008, 20-21).

L’obiettivo dell’accordo è quello di offrire ai datori di lavoro e ai lavoratori stessi un quadro di riferimento per gestire e prevenire eventuali problemi di stress lavoro correlato, non è invece quello di attribuire le responsabilità all’individuo. Nell’accordo, lo stress viene considerato come: “una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro” (Deitinger et al., 2009). La finalità dell’accordo è quello di far accrescere la consapevolezza e la comprensione dello stress lavoro correlato da parte dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei rappresentanti (Gottardi, 2008).

Lo stress lavorativo può nuocere a chiunque e a qualsiasi inquadramento professionale in ogni settore e in qualsiasi dimensione di un’organizzazione, incide non solo sul benessere dell’individuo, ma rappresenta una minaccia per la stessa azienda. Lo stress rappresenta un “killer emergente” difficile da identificare e gestire, correlato alle mutazioni del mondo del lavoro e alla crescente globalizzazione (Pellegrino, 2009). Una definizione di stress sul lavoro è quella del NIOSH (1999) che definisce il fenomeno come insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono adeguate alle esigenze del lavoratore (De Falco et al., 2008). Lo stress lavorativo si presenta in una dimensione trasversale che coinvolge tutte le professioni e tutti i livelli professionali. Nell’Unione Europea lo stress è al secondo posto tra i problemi di salute connessi all’impiego lavorativo ed interessa il 28% dei lavoratori. Secondo i dati ufficiali dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, il costo finanziario dei problemi correlati allo stress lavorativo ammonta a circa 20 miliardi di euro l’anno. Questi dati dimostrano che il 50%-60% dei giorni lavorativi persi sono collegati allo stress (Pellegrino, 2005). Inoltre lo stress lavorativo oltre s ridurre la qualità della vita dell’individuo peggiora anche la sua efficacia professionale; infatti in questo caso l’individuo stressato può commettere maggiori errori professionali, è più vulnerabile allo sviluppo delle patologie somatiche e così via (Pellegrino, 2009).

Sono stati emessi vari decreti legislativi, inerenti in particolare alla valutazione del rischio da stress lavoro correlato. Tra le novità introdotte dal decreto legislativo 81/2008 un ruolo in primo piano assume la definizione, mutuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, del concetto di “salute” intesa quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità” che rappresenta la premessa per la garanzia di una tutela dei lavoratori anche attraverso un’adeguata valutazione del rischio stress lavoro correlato. Anche in tale decreto viene ribadito l’importanza rivestita dalla formazione che deve essere sufficientemente adeguata. Oltre a ciò, di fondamentale importanza è la valutazione dei rischi, elemento centrale per un’adeguata attività di prevenzione (Deitinger et al., 2009). Di seguito riportiamo i vari fattori di rischio per la sicurezza e la salute dei lavorator:

  • I fattori di rischio psicosociale

Da alcuni anni in Europa, gli studi relativi alle problematiche connesse alla salute e sicurezza dei lavoratori che tradizionalmente ponevano l’attenzione sulla salute fisica dell’individuo, hanno ampliato il loro interesse verso le dimensioni psicologiche, sottolineando come la centralità della persona sia uno dei presupposti necessari per il benessere non solo dell’individuo, ma anche dell’organizzazione (Nardella et al., 2007). Entrando nello specifico andiamo a vedere quali sono i vari rischi psicosociali e cosa intendiamo con quest’ultimi. In generale vi è la tendenza di differenziare tra quelli di tipo tradizionale, ossia rischio fisico, biologico o chimico, e i nuovi rischi, ossia quelli psicosociali. Quest’ultimi vengono definiti come quegli aspetti di progettazione del lavoro, di organizzazione e di gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali, che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici. La caratteristica principale dei rischi psicosociali è la loro trasversalità, infatti possiamo trovarli in ogni settore lavorativo. Ci sono molti rischi relativi alla natura e alle caratteristiche del lavoro e possono emergere varie problematiche sia in condizioni di sovraccarico o sotto carico di lavoro. In particolar modo questi rischi rientrano nella categoria del contenuto del lavoro (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002). Ovviamente non riusciremo a trattare tutti i tipi di rischi psicosociali, ma ne evidenzieremo solo alcuni per dare una panoramica generale di ciò che stiamo trattando. Riallacciandoci in particolar modo alle caratteristiche del contenuto del lavoro analizziamo il sovraccarico e il sotto carico lavorativo. Nel primo caso si tratta di un sovradimensionamento del carico lavorativo rispetto alle competenze possedute, ad esempio non si riesce a svolgere a sufficienza a tutti i compiti. Anche in situazioni di sotto carico di lavoro possono avere effetti negativi sulla salute, come ad esempio l’assenza di richieste esterne (Fraccaroli, Balducci, 2011). I lavoratori che denunciavano livelli elevati di stress e malattie ad esse correlate avevano una probabilità 4,5 maggiore di denunciare problemi quali “lavorare in base a scadenze” e “avere troppo lavoro.” I dirigenti spesso fanno fronte al carico eccessivo di lavoro estendendo il proprio orario lavorativo ad orari di lavoro lunghi, se protratti nel tempo possono risultare dannosi. Infatti, si è dimostrato un aumento della fatica provocato da lavori con orari lunghi, come ad esempio prolungare la giornata lavorativa a 12 ore con una notevole perdita di sonno (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Altri aspetti sono causati dall’orario di lavoro a turni, in particolare quello comprendente le turnazioni notturne (Fraccaroli, Balducci, 2011).

Infatti, è proprio questo che condiziona il numero di ore lavorate. Livelli molto elevati di soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata è segnalato da coloro che lavorano meno di 30 ore alla settimana (Piron, 2014).

Le turnazioni notturne, hanno effetti sui ritmi circadiani del sonno. In uno studio condotto da Kobayashi et al. (1999) sugli infermieri del turno di notte, hanno riscontrato bassi livelli di attività di cellule killer e di cortisolo durante il turno di notte, stabilendo quindi che il turno di notte fosse in particolar modo stressante e potesse essere dannoso per la biodifesa. Altri fattori che possono incidere il benessere dei lavoratori sono la rigidità intesa come mancanza di flessibilità, come il turno di lavoro e l’imprevedibilità dell’orario di lavoro, ad esempio il lavoro a chiamata (Kobayashi et al., cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011).

Sono presenti anche rischi psicosociali inerenti al “contesto di lavoro.” Il fatto stesso di lavorare nell’ambito di un’organizzazione, può essere avvertito come una minaccia. Gli studi condotti sulle percezioni e sulle descrizioni dei lavoratori dipendenti in merito alle loro organizzazioni indicano la presenza di tre diversi ambiti di cultura e funzione organizzativa: l’organizzazione come ambiente di mansioni, di soluzione dei problemi e di sviluppo. Le prove raccolte indicano che nei casi in cui si ritiene che l’organizzazione sia carente in relazione a questi ambienti, allora è probabile che venga associata ad aumentati livelli di stress (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Anche il ruolo nell’organizzazione viene visto come un rischio psicosociale che può ricollegarsi al conflitto o all’ambiguità di ruolo. Quest’ultimo è quando un lavoratore non dispone di informazioni sufficienti in relazione al proprio ruolo di lavoro. L’ambiguità di ruolo si manifesta attraverso uno stato generale di confusione in relazione agli obiettivi adeguati, una mancanza di chiarezza in ordine alle aspettative ed uno stato generale di incertezza sull’ambito e sulle responsabilità di impiego.

Kahn et al. (1964) hanno rilevato che i lavoratori che avevano sofferto di ambiguità di ruolo avevano più probabilità di provare una minore soddisfazione nei confronti del lavoro, un livello maggiore di tensione e un basso livello di autostima (Kahn et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Secondo French & Caplan (1970) l’ambiguità di ruolo era da ricollegare a sintomi simili. Hanno dimostrato che l’ambiguità di ruolo era connessa ad un aumento della pressione sanguigna e a frequenze del polso più elevate. Mentre il conflitto di ruolo, avviene quando all’individuo viene richiesto di svolgere un ruolo in conflitto con i propri valori, oppure quando i vari ruoli svolti sono incompatibili tra loro. Per French e Caplan (1970) la frequenza media del battito cardiaco era strettamente connessa al livello di conflitto di ruolo percepito. Tuttavia, sono stati individuati altri aspetti potenzialmente pericolosi come il sovraccarico di ruolo, l’insufficienza di ruolo e la responsabilità verso gli altri. Ad esempio, l’insufficienza di ruolo si riferisce all’incapacità da parte dell’organizzazione di utilizzare appieno le capacità e la formazione acquisita dai singoli lavoratori (French, Caplan cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro,2002)

La responsabilità per altre persone è stata identificata come fonte potenziale di stress associata alle questioni di ruolo. Wardell et al. (1964) hanno dimostrato che la responsabilità di altre persone rispetto alla responsabilità per cose, ha una probabilità di determinare rischi di cardiopatie coronariche decisamente maggior (Wardell et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

French e Caplan (1970) hanno evidenziato che la responsabilità per altre persone era connessa al fumo eccessivo e ad un aumento della pressione sanguigna diastolica e dei livelli di colesterolo nel sangue. Interessante sono state alcune ricerche condotte da French e Caplan (1970) che evidenziano come maggiori opportunità di partecipare al processo decisionale produca livelli di soddisfazione e sentimenti di autostima più elevati (French, Caplan cit. Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Secondo autori come Margolis e Kroes (1974) la mancata partecipazione risulta essere legata allo stress correlato al lavoro e a cattive condizioni di salute fisica (Margolis, Kroes cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Anche i buoni rapporti tra lavoratori e componenti dei gruppi di lavoro (Cooper 1981) sono fondamentali per la salute individuale e dell’organizzazione (Cooper cit. Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Un’indagine realizzata dal Ministero del Lavoro giapponese (1987) ha evidenziato che il 52% delle donne intervistate aveva provato ansia o stress, a causa di rapporti interpersonali insoddisfacenti sul lavoro (61%) (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Karasek e colleghi (1982) in uno studio condotto su oltre 1.000 lavoratori svedesi, hanno dimostrato che l’appoggio offerto dai superiori e dai colleghi attenuava gli effetti esercitati dalle richieste di lavoro sulla depressione e accresceva la soddisfazione per il proprio impiego. Anche la mancanza di una progressione di carriera secondo le proprie previsioni potrebbe essere fonte di stress, in special modo in quelle organizzazioni che attribuiscono una grande importanza al rapporto tra progressione di carriera e competenza o valore. (Karasek et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Marshall (1977) ha individuato due gruppi principali che possono arrecare stress: la mancanza di sicurezza del lavoro e l’obsolescenza (paura di esubero e di pensionamento anticipato forzato); secondo l’incongruenza di posizione (promozione insufficiente o frustrazione per aver raggiunto il limite massimo di carriera) (Marshall cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Roberston e Cooper (1983) sono dell’idea che queste paure possano produrre stress nel caso in cui i lavoratori non siano in grado di adattare le proprie aspettative alla realtà della situazione in cui si trovano (Roberston, Cooper cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Queste sono solo alcune delle dimensioni fondamentali dei rischi psicosociali che sono alla base della percezione che una persona ha del livello di stress che le situazioni di lavoro comportano.

  • I fattori di rischio individuali e ambientali

Oltre ai rischi psicosociali svolgono un ruolo principale anche i fattori individuali, che si suddividono in caratteristiche demografiche e caratteristiche disposizionali. Nelle prime ricordiamo l’età, il genere e le caratteristiche etniche culturali. In alcune ricerche condotte nelle comunità hanno evidenziato differenze di genere sostanziali per alcuni esiti emotivi, come ansia e depressione (American Psychiatric Association cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011). Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazioni agli stati di malattia (Piron, 2014). I dati epidemiologici suggeriscono che le donne vivono più a lungo, ma in peggiori condizioni di salute. La categoria più a rischio di incorrere in patologie legate allo stress pare essere quella delle donne lavoratrici sulle quali grava anche la maggior parte del lavoro domestico (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro cit. in Piron, 2014). È stato documentato che le malattie lavoro-correlato sono diverse tra uomini e donne, questo è dovuto soprattutto alle differenze del lavoro dei due generi. I problemi prevalenti tra lavoratori maschi sono gli infortuni, i danni uditivi da rumore, i tumori professionali, le sindromi osteoarticolari da lavoro muscolare pesante. Tra le donne, invece, sono più comuni le sindromi osteoarticolari da lavoro ripetitivo (ad esempio, tunnel carpale), malattie della cute oppure malattie infettive. Per il genere femminile, lo stress è spesso doppio, perché a quello da lavoro si aggiunge, come detto in precedenza la cura familiare. Secondo i dati Istat chiamati le statistiche di Genere (2007), mentre i lavoratori maschi dedicano in media 2 ore al giorno per assistere ai familiari, le donne ne dedicano 5 e mezza (Figà, Talamanca cit. in Inail, 2009).

A livello europeo, durante il corso degli anni vi è stata una crescente attenzione alla relazione tra età e condizioni di salute e sicurezza lavorativa, questa attenzione è stata diretta in particolare ai giovani lavoratori e a quelli anziani. I primi risultano maggiormente esposti ai lavori a turni, a un orario di lavoro irregolare e maggiormente esposti a fattori di rischio di tipo fisico, come le vibrazioni, rumore, temperature estreme o lavoro in posizioni scomode. Le persone più anziane, invece tendono soprattutto dopo i 45 anni un calo piuttosto marcato ai turni, inoltre dopo i 55 anni i lavoratori più anziani, riportano meno spesso di accedere a iniziative formative, di avere la possibilità

di imparare nuove cose (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 55).

È il range dei 40–50 anni, che presenta le condizioni peggiori, praticamente i lavoratori di mezza età sono quelli che hanno indicatori di stress molto elevati, rispetto ai giovani e ai più anziani (Warr cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 55).

Anche le caratteristiche etniche e culturali incidono sulla forza lavoro e sullo stress lavoro correlato, in una recente rassegna in cui sono stati condotti studi in vari paesi europei (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 56).

Anche l’Italia, suggerisce che i lavoratori immigrati sono esposti a condizioni di lavoro più sfavorevoli rispetto agli italiani; effettuano più spesso lavori a turni, svolgono compiti monotoni e fisicamente più impegnativi, l’orario è più lungo e la remunerazione è la più bassa. Inoltre, le relazioni sono peggiori, con un rischio elevato di riportare mobbing e discriminazione. Altro fattore importante da considerare, è che la maggior parte delle conoscenze sui fattori di rischio per lo stress, è derivata da indagini condotte su lavoratori che si trovano all’interno di una cultura occidentale, quindi non è chiaro se gli stessi fattori siano salienti per i lavoratori di altre culture (Warr cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 58).

Gli stressor extra organizzativi si sforzano di mettere in evidenza le interazioni tra i vari tipi di stressor allo scopo di riconoscere le loro numerose combinazioni, tra queste rientrano i fattori ambientali sia fisici che sociali. La semplice esposizione a tali stimoli ambientali non determina necessariamente reazioni negative di stress. Fra gli stimoli ambientali più spesso considerati, ricordiamo il rumore. Esso, oltre a procurare eventuali danni uditivi, può determinare numerosi effetti extra uditivi, influenzando negativamente la prestazione, agendo sul livello di attivazione psicofisiologica sui processi cognitivi e attivando reazioni negative sul piano emozionale e comportamentale. Tutto ciò dipende dall’ampiezza dello stimolo rumoroso ma anche dalla modalità di comparsa. Nei rischi psicosociali ambientali rientrano anche la densità soggettiva (numero di persone per unità di spazio) e l’esperienza soggettiva di affollamento risultano associate a effetti di stress. Si considerano stressor ambientali anche la temperatura (caldo, freddo, umidità), numerosi agenti tossici o inquinanti di natura chimica. Interessante aggiungere la qualità dell’ambiente fisico e sociale, considerate fonti di tensione, che si accumulano nel tempo, dovute alla presenza della propria comunità di evidenti segnali di degrado urbano e sociale. Recentemente l’attenzione si è focalizzata sui tipi di “life events”, come ad esempio la separazione di una persona cara, un lutto o un divorzio. Uno specifico interesse è stato posto sui grandi eventi della vita, come un grave evento di perdita, come un lutto, che assume una connotazione stressante in maniera diretta e indiretta, stimolando sentimenti di ansia, depressione, sensi di colpa oppure aggressività. Tra i grandi eventi critici potrebbe essere inserita anche la disoccupazione, soprattutto quando si presenta in maniera imprevista e improvvisa. (Sarchielli, Fraccaroli, 2010).

Per quanto riguarda i fattori disposizionali, sono i cosiddetti fattori di vulnerabilità individuale, i quali si caratterizzano in comportamento di tipo A, il quale è stato descritto per la prima volta da due cardiologici sulla base di osservazioni condotte su una serie di pazienti coronarici, verso la fine degli anni ’50. I due medici definirono tale caratteristica come un insieme di comportamenti e stati affettivi, osservabili in quelle persone impegnate a raggiungere sempre nuovi obiettivi nel minor tempo possibile. Il comportamento di tipo A ha le seguenti caratteristiche: impazienza, competitività, aggressività oppure rabbia. Al polo opposto del comportamento di tipo A si colloca invece il comportamento di tipo B, caratteristico di quelle persone che affrontano la vita e gli impegni in maniera più rilassata. Tale comportamento ha diverse caratteristiche, le quali sono associate con esiti desiderati dalle organizzazioni, quali ad esempio il lavorare più a lungo, d’altra parte le stesse caratteristiche possono avere anche carattere egoistico o incapacità di ascoltare gli altri (Friedman, Ulmer, 1984). Altre due caratteristiche che presentano una sovrapposizione con il comportamento di tipo A sono l’overcommitment (iper coinvolgimento da lavoro) e il workaholism (la dipendenza da lavoro). Il primo fa parte di uno specifico modello dello stress quello dello squilibrio tra sforzo e ricompensa (reward). Siegrist (1996) parla di un individuo che fornisce una prestazione lavorativa che richiede un certo sforzo individuale (dispendio di energie psicofisiche, ecc) in cambio di soddisfazione. Quest’ultima si articola in tre tipi: 1) il denaro; 2) la stima personale; 3) le opportunità di avanzamento e carriera. Secondo lo studioso i lavoratori esposti a condizioni di squilibrio tra sforzo e ricompensa potrebbero cercare di modificare a loro favore la situazione, ad esempio riducendo lo sforzo oppure battendosi per una maggiore ricompensa. Secondo l’autore nessuna di queste opzioni può essere scelta, e così portano il lavoratore ad uno stress cronico notevolmente deleterio per la salute. La prima circostanza difficile per le persone in grado di modificare il loro squilibrio è la dipendenza (in questa circostanza le persone accettano condizioni di lavoro spiacevoli, pur di non lasciare il loro lavoro), altra circostanza in cui si verifica squilibrio tra sforzo e ricompensa è quella della scelta strategica, in questo caso i lavoratori scelgono condizioni svantaggiose per un certo periodo di tempo, in quanto mirano ad incrementare le loro opportunità di carriera. L’ultima circostanza in cui si verifica questo squilibrio è l’iper coinvolgimento. Vi sono delle ragioni individuali alla base dello squilibrio riconducibili a un pattern cognitivo motivazionale particolare, come il bisogno di controllo e di approvazione dagli altri. Il workaholism, invece, può essere definito come una spinta interna irresistibile a lavorare in maniera eccessivamente intensa. Tale fenomeno è considerato come una dipendenza patologica, pur non essendo presente nei manuali diagnostici. Una delle due componenti del workaholism è il lavorare eccessivamente, costituita da condotte quali continuare sistematicamente a lavorare dopo che i colleghi hanno smesso, essere sempre di fretta. Mentre il lavorare compulsivamente è l’altra componente, quella cognitiva-emotiva; essa è fatta da cognizioni e sentimenti quali ritenere di essere obbligato a lavorare intensamente. Tutto questo può condurre a problematiche psicosomatiche e la vita familiare di queste persone ne risente in maniera negativa, così anche la vita sociale (Sigriest, cit in. Fraccaroli, Balducci, 2011, 61-62).

I principali modelli di studio

Ora cerchiamo assieme di delineare i modelli principali che trattano il rischio psicosociale all’interno di un’ottica stressogena. Tra questi ricordiamo:

  • Il modello transazionale di Cox e Mackay (1976) poggia sull’idea che lo stress si sviluppi da un particolare tipo di relazione complessa e dinamica tra il lavoratore ed il suo ambiente. Per questi due studiosi, lo stress è un fenomeno percettivo individuale presente nei processi psicologici e considerano con attenzione anche i feedback del sistema. Nel sistema convivono diversi elementi: 1) le domande rivolte alla persona da parte del suo ambiente; 2) le reali capacità e abilità possedute dal soggetto; 3) la capacità percepita dalla persona nei confronti delle sue capacità (Gabassi, 2006). Cox assieme a Mackay abbraccia molte idee di Lazaus (1966) che fu uno dei primi studiosi ad enfatizzare il fenomeno dello stress. Secondo quest’ultimo infatti, lo stress si verifica quando ci sono richieste sulla persona che mettono alla prova o superano le sue risorse di adattamento. Lo studioso mette l’accento sul fatto che lo stress non si trovi solo nell’ambiente o dalle condizioni esterne, ma anche dalla vulnerabilità individuale della persona. Lazarus concentra la sua attenzione sulla valutazione che la persona deve avere sulla sua situazione che può procurare un eventuale stress e sul conflitto che ne può derivare. Cox e colleghi suggeriscono che lo stress deve essere spiegato attraverso una serie di transazioni. Nel sistema ci sono diversi elementi: un primo è rappresentato dalle domande rivolte alla persona da parte del suo ambiente. I due autori sottolineano una distinzione tra richieste esterne ed interne, infatti oltre alla domanda esterna, la persona avverte anche esigenze psicologiche e fisiologiche. Un secondo elemento è costituito dalle reali capacità e abilità possedute dall’individuo e ad esse corrisponderà un ulteriore elemento che prenderà il nome di “perceived capability” cioè la percezione della persona delle proprie capacità. Lo stress può insorgere quando c’è uno squilibrio tra domanda percepita e percezione delle proprie capacità. L’individuo dispone di strategie cognitive e comportamentali per far fronte alle situazioni stressanti; l’utilizzo inadeguato di esse può prolungare l’esperienza disfunzionale a cui è sottoposto l’individuo. Anche per questi autori, è importante la valutazione cognitiva della situazione stressogena; quando l’individuo ravviserà uno squilibrio tra richieste e abilità personali, realizzando le sue limitazioni allora sperimenterà stress (Favretto, 1994). L’atto di consapevolezza che ne deriva può non essere compiutamente riconosciuto. Gli autori esaminano le reazioni allo stress come un processo di valutazione che progressivamente giunge a consapevolezza al quale possono associarsi esperienze emozionali (sensazioni di disagio, insonnia) oppure vere e proprie risposte da stress come il commettere errori. Le risposte psicofisiologiche attuate dal soggetto, se protratte nel tempo, possono costituire una minaccia per la salute. In questo processo, la percezione diviene un fattore importante per un esame reale della situazione stressogena e per effettuare una forma di controllo sulla stessa (De Falco et al., 2008 ).

  • Il modello di Cooper si basa sull’idea che sono i fattori fisici ambientali che possono incidere sulla concentrazione, sul rendimento e sull’efficienza dei lavoratori; ma per tutto ciò bisognerebbe tener conto dell’importanza della “reattività soggettiva.” Tra i principali fattori descritti nel modello troviamo (Favretto, 1994):

  • L’esposizione al rumore può infastidire il lavoratore riducendo la sua tolleranza ad altri stressor e agendo negativamente sulla motivazione;

  • Le vibrazioni sono fonte di stress, in quanto sono capaci di provocare alterazioni delle funzioni psicologiche e neurologiche;

  • Le variazioni di temperatura, ventilazione e umidità;

  • Una scarsa illuminazione o una luce abbagliante producono problemi alla vista, mal di testa e affaticamento;

  • Se le condizioni igieniche sono scarse e il lavoratore è esposto a rischi di infortunio e malattia aumentano le minacce per la salute.

Il modello di Cooper sottolinea l’importanza delle caratteristiche del compito, denominate “task demands.” Queste sono rappresentate dalle responsabilità e dal carico di lavoro in “work load quantitativo” (avere troppe cose da fare) e “work load qualitativo” (avere compiti troppi complessi da seguire).

Inoltre il modello di Cooper distingue tre cause di stress connesse al ruolo dell’individuo nell’organizzazione: 1) l’ambiguità di ruolo, riguarda mancanza di chiarezza cieca gli obiettivi e le aspettative dei colleghi di lavoro rispetto al ruolo lavorativo; 2) il conflitto di ruolo, interessa a quei lavoratori ai quali vengono richieste delle mansioni o delle competenze incompatibili con il ruolo nell’organizzazione.

Inoltre nel conflitto di ruolo può essere individuata un ulteriore distinzione 1) il conflitto ruolo/persona, dove il lavoratore preferirebbe svolgere un incarico in maniera differente da quanto viene proposto; 2) il conflitto intramandatario, al lavoratore viene assegnato un compito, ma non il personale sufficiente per portarlo al termine; 3) il conflitto intermandatario, si chiede al lavoratore di comportarsi in modo tale da risultare gradito da alcuni colleghi e sgradevole ad altri; 4) il sovraccarico di ruolo, al lavoratore viene assegnato un carico di lavoro eccessivo; 5) la responsabilità nei confronti delle cose e delle persone (quando il soggetto ricopre una posizione di rilievo nell’organizzazione), e in particolare quest’ultimo tipo di responsabilità a essere distressogena, capace cioè di provocare l’insorgenza di disturbi (Gabassi, 2006).

Il modello di Cooper indica l’esistenza di cinque tipi di stressor potenziali (Rossati, Magro, 1999):

  • L’incongruenza di posizione, subentrano relazioni difficili con il contesto sociale di appartenenza;

  • La densità sociale, un spazio insufficiente del ciclo vitale e non adeguato può contribuire a diminuire prestazioni lavorative;

  • Le personalità abrasive, esistono individui, che all’interno delle organizzazioni, costituiscono motivo di stress per i colleghi;

  • Lo stile di leadership, se la leadership è di tipo autoritario, i lavoratori sono privati di fornire suggerimenti e di esprimere opinioni, e quindi non si sentono coinvolti e provano frustrazione e disagio;

  • Le pressioni del gruppo, si può verificare una condizione di distress quando l’individuo viene condizionato dalle regole impostate dal gruppo di lavoro che necessariamente non condivide.

Infine, nel modello di Cooper relativa importanza si danno ad altri fattori che comprendono il benessere del lavoratore, la struttura organizzativa e il clima. La percezione da parte dell’individuo di un clima aziendale rassicurante porta a una valutazione positiva da parte del lavoratore. Il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, il clima organizzativo sono tutte fonti oggettive, tuttavia, le persone sono portatrici di singolarità; caratteristiche di personalità e comportamentali (Gabassi, 2006).

  • Il modello di karasek e Theorell, quest’ultimi sostengono che la condizione di disquilibrio sul posto di lavoro dipendono dal rapporto tra domanda/controllo. Per questi autori, con il termine “domanda” intendono il carico di lavoro e, quindi, l’impegno in termini psicologici e fisici richiesti dal compito svolto; il “controllo” rappresenta la capacità dell’individuo, il livello discrezionale che esercita nello svolgere il suo lavoro (De Falco et al., 2008). In un ambiente, che gli autori definiscono di tensione (strain), in cui siano presenti un alto grado di richieste ma con un basso livello di controllo, problemi di salute e di stress sembrano essere più frequenti rispetto agli ambienti, denominati attivi (active), con un alto livello di domande e un altrettanto alto livello di controllo. In un ambiente dove prevale la tensione, le persone tendono ad essere più rigide, meno flessibili e più inclini alla malattia (Avallone, Pamplomatas, 2005).

In sintesi, tale modello prevede due fattori fondamentali: 1) la domanda, cioè il carico di lavoro, le richieste che provengono dalle caratteristiche psicologiche, fisiche, ambientali che circondano alla mansione. La domanda può essere letta in impegno psicologico e fisico; 2) il controllo, include in ambito lavorativo la capacità dell’individuo di svolgere il proprio compito. L’alta o bassa domanda, o il basso o l’alto controllo danno origine a (Favretto, 1994):

  1. Lavori ad alto strain: sono quei lavori che creano un’alta “tensione” psicologica negli individui, dovuta ad un alto carico lavorativo; tale tensione si può manifestare in sintomi di depressione e ansietà, esaurimento e vari disturbi psicosomatici. Questo tipo è caratteristico di quei lavori dove ad un alto livello di domanda corrisponde un basso grado di controllo;

  2. Lavori attivi: questi lavori hanno un elevato livello di controllo accompagnati da un elevato livello di domanda psicologica. In questo tipo di situazione il lavoratore ha piena possibilità di esprimere le proprie capacità;

  3. Lavori a bassa domanda e ad alto controllo: sono quei lavori che non danno nessun problema di tensione psicologica agli individui. In questi lavori la domanda è poco pressante e di un alto controllo. Questi lavori piuttosto rilassanti tengono l’individuo al riparo dalle tensioni e al rischio di malattie psicosomatiche;

  4. Lavori passivi: questi lavori sono accompagnati da una bassa domanda e da un basso controllo. In tali lavori non si creano stresso tensione psicologica, ma determinano una minor capacità di apprendimento.

Infine, citiamo una coppia di autori che hanno contribuito ai principali modelli di cui abbiamo parlato fino ad ora si tratta di Harrison e Caplan, i quali hanno seguito le orme di Lewin, il quale ha esplicitato nel suo modello della teoria del campo che l’importanza non è data soltanto dalla persona con le sue caratteristiche, ma anche delle caratteristiche dell’ambiente lavorativo (Favretto, 1994). Il modello dei due autori ha il merito di equilibrare la valutazione personale e soggettiva degli eventi stressanti con le dimensioni organizzative. Caplan sostiene che dapprima sia possibile misurare oggettivamente sia la persona che l’ambiente e in un secondo momento la percezione che il soggetto ha di sé e dell’ambiente che lo circonda. Caplan nomina la corrispondenza tra la definizione oggettiva e soggettiva della persona “capacità di autovalutazione” o “coscienza delle proprie caratteristiche” e la corrispondenza tra ambiente soggettivo ed oggettivo o “contatto con la realtà” o “coscienza delle caratteristiche dell’ambiente. Il modello prende in considerazione quattro punti (Favretto, 1994):

  • le caratteristiche dell’ambiente lavorativo;

  • le caratteristiche della risorsa (competenza e professionalità, attitudini);

  • la valutazione soggettiva delle richieste oggettive dell’ambiente;

  • la valutazione soggettiva delle doti personali.

Lo stress e il mobbing

Tra il fenomeno del mobbing e quello dello stress intercorre un rapporto di causa-effetto: il mobbing provoca lo stress, che una volta sviluppatosi amplifica ed incide sul mobbing. Quest’ultimo è indipendente dallo stress lavorativo quando è determinato in maniera intenzionale da un soggetto nei confronti di un altro che lo subisce. Invece, è dipendente dallo stress quando la persona accumula molta tensione e senza saperla controllare la dirige verso un’altra persona. Lo stress è determinante per il mobbing e può essere indipendente da esso quando si manifesta per motivi quotidiani slegati dal lavoro, invece, è dipendente quando una persona si trova a causa del mobbing sempre in continua tensione. In questo modo si annullano i momenti di tranquillità e spesso le vittime non sono consapevoli della loro condizione di malessere (Ege, Lancioni, 1998). Lo stress causato dal mobbing ha delle caratteristiche molto particolari in quanto crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima. Lo stress da mobbing ha effetti molto gravi soprattutto se le vittime sono ignare di esserlo; esse si trovano spiazzate di fronte ad eventi imprevisti e si attribuiscono responsabilità che non gli competono. Ma nel momento in cui la vittima individua e comprende la vera causa del suo stato, lo stress permette di trovare le forze e le idee necessarie per affrontare e sconfiggere il mobber (Bartalucci, 2010). In termini generali, per mobbing si intende un fenomeno complesso che riguarda le relazioni nel mondo del lavoro e che si esprime in una clima di violenza psicologica e morale esercitata da una o più persone verso un singolo individuo. È possibile affermare che il mobbing ha acquisito una certa valenza, guadagnando l’attenzione dei mass-media, trovando la dovuta considerazione sul piano sociale (Pastore, 2006). Il primo a parlare di mobbing fu Leymann negli anni ’80, il quale lo applicò a un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai e impiegati svedesi sottoposti a intensi traumi psicologici (Cassilli, 2000). Ege ricercatore tedesco specialista in relazioni industriali e del lavoro, è fondatore di un’associazione PRIMA “Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale”, che si prefigge di divulgare, assistere, formare ed intervenire sul mobbing. Per questo studioso il mobbing è “un’ azione (o una serie di azioni) che si ripetono per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber per danneggiare qualcuno (che chiameremo mobbizzato), quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene letteralmente accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale” (Ege, 1996).

La situazione italiana

Il mobbing in Italia assume delle connotazioni e caratteristiche molto profonde. È per questo motivo che Ege (1997) parla di un “mobbing culturale,” che attraverso aspettative e valori propri di una società influenzano questo fenomeno. Questo significa che il mobbing risulta strettamente legato all’ambiente culturale in cui ha luogo (Bartalucci, 2010). A differenza dei paesi nordici, in Italia non c’è ancora una cultura capace di identificare questo fenomeno (Ascenzi, Bergagio, 2000).

In Italia, spesso il mobbing non viene riconosciuto come problema a sé, ma viene identificato come una routine. Il lavoratore mobbizzato non percepisce il problema e pensa che le azioni vessatorie facciano parte della normalità e della routine quotidiana. Il lavoratore italiano si rende conto di tale situazione solo dopo la fase del conflitto, quando iniziano a subentrare sintomi psicosomatici. In pratica, nel mobbizzato italiano l’allarme che dovrebbe scattare alla fase del conflitto risulta, invece, sfociare in quella della malattia (Ege, 1997).

Il mobber italiano, mette in atto alcune azioni tipiche, quali l’isolamento, il sabotaggio e il pettegolezzo. Inoltre, il mobber italiano utilizza strumenti esterni in maniera da sembrare estraneo alla vicenda. La vittima del mobber inizialmente pensa che il problema sia del tutto casuale e quindi scarica la sua rabbia sul mezzo esterno, in questo modo il mobber acquista tempo. In Italia, il mobbing viene vissuto come un problema scomodo per il personale e non per l’azienda (Ege, 1997). È nel 2003 che in Italia, l’Inail riconosce il mobbing come causa di infortunio o di malattia professionale. Tuttavia, l’Italia non ha una specifica legislazione sul mobbing, anche se sono state apportate delle leggi a difesa del lavoratore, come l’art. 32 della Costituzione Italiana, che tutela la salute come diritto fondamentale (Scanni, 2004). Il mobbing interessa in Italia circa 1,5 milioni di lavoratori e tenendo conto delle persone in ogni caso coinvolte, come i familiari delle vittime, si può infatti parlare di oltre 4 milioni di persone interessate. Queste stime sono state curate da Harald Ege, che ha condotto un’indagine conoscitiva su 301 casi di persone mobbizzate in tutta Italia, nel 1998. Le più recenti ricerche fatte in Italia sugli atti di terrorismo nei luoghi di lavoro, consentono anche di vedere più in dettaglio l’andamento del fenomeno in rapporto ai vari settori produttivi ed alle aree geografiche. Oltre ai vari settori produttivi, si può notare che il pubblico impiego sembra essere il più esposto visto che registra il 42% dei casi di mobbing. A seguire troviamo il settore industriale e quello dei servizi con il 18% e per ultimo il settore dell’agricoltura con appena il 2% (Ascenzi, Bergagio, 2000). In Italia, lo studio della violenza psicologica è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare di mobbing solo dal 1999, anno dei primi due convegni nazionali sul tema: uno a Milano organizzato dalla Clinica del Lavoro e uno a Roma organizzato dall’ ISPEL, istituto superiore per la prevenzione e sicurezza (Bartalucci, 2010). Ad esempio il CDL è un centro interdisciplinare costituito da medici del lavoro, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e tecnici di psicodiagnostica. Gli accertamenti consistono in una serie di valutazioni di medicina del lavoro, psicologiche e psichiatriche, secondo un protocollo valutativo appositamente sviluppato. Al CDL si rivolgono persone provenienti da tutta Italia che subiscono molestie morali, inoltre i richiedenti vengono ricoverati in day hospital su richiesta del medico di base; il paziente viene sottoposto a una serie di colloqui approfonditi e test psicologici che aiutano i medici a fare una diagnosi e di valutare se effettivamente sussiste una situazione di disagio provocata da mobbing. Dopodiché al paziente viene data una valutazione psicologica e viene proposto un trattamento farmacologico o psicoterapeutico. In alcuni casi l’intervento della struttura finisce qui e in altri prosegue. In quel caso la struttura può segnalare tale situazione di persecuzione al medico competente che le aziende devono avere quando esiste un qualche rischio per la salute dei dipendenti. Il CDL suggerisce anche provvedimenti preventivi e può richiedere all’unità sanitaria locale un’ispezione all’interno dell’azienda, usato solo nei casi estremi, solo quando non c’è alcuna possibilità di mediazione. Infine, il lavoratore quando si rivolge all’attività giudiziaria per ottenere un risarcimento può utilizzare le valutazioni psicodiagnostiche e le diagnosi formulate dal CDL durante il ricovero in day hospital come documentazione di una malattia connessa al mobbing. Al CDL di Milano lavorano un neuropsichiatra, uno psicologo e un medico del lavoro, oltre ad una caposala che cura l’organizzazione, una testista (cioè esperta di test) che ha studiato psicometria, un’infermiera professionale e diversi tirocinanti che collaborano part-time. L’assistenza di questa struttura è interamente gratuita, trattandosi di un centro del sistema sanitario nazionale. Si avvale di programmi di formazione, specie per i medici e dirigenti d’azienda (Gilioli, 2000). In Italia, i centri operanti sono circa una quindicina, ma non tutti svolgono le stesse finalità, alcuni offrono servizi di counseling alla persona, altri invece preferiscono stilare una diagnosi tra la salute del soggetto e la situazione lavorativa riferita. Bisogna anche precisare che dal 1999 a Roma è stato istituito presso il laboratorio di psicologia in Roma, il centro di ascolto per il mobbing (Fattorini, Gilioli, 2000). Da ricordare che dal 1999 è presente presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Roma uno sportello unico contro gli abusi sui posti di lavoro, con l’intento di offrire consulenza a coloro che ne hanno bisogno, grazie all’aiuto di un avvocato e di uno psicologo (Ascenzi, Bergagio, 2000). Insomma, ci furono varie iniziative italiane indette anche dalle varie regioni del paese, ognuno con un obiettivo.

La situazione nel resto del mondo

Si parlerà qui di seguito delle varie iniziative introdotte nei paesi europei e di come quest’ultimi hanno reagito di fronte a tale fenomeno.

Nel lontano 1989 la Commissione Europea aveva introdotto alcune misure per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. La direttiva CEE n.391 del 12 giugno 1989 conteneva alcune direttive sulla salute dei lavoratori e attribuiva ai datori di lavoro la responsabilità di garantire che i lavoratori non soffrissero di danni per colpa del lavoro, anche come conseguenza del mobbing. Si delinearono in quegli anni alcune azioni e iniziative degli Stati europei atte a prevenire e contrastare il mobbing. Altre organizzazioni europee hanno studiato questo tipo di fenomeno. Nel 2001, il Parlamento Europeo ha ritenuto che il mobbing costituisse un grave problema per la vita lavorativa delle persone e quindi rafforzare le misure per fare fronte a tal fenomeno. Il Parlamento europeo esorta gli stati membri a rivedere la propria legislazione vigente in relazione alla tematica mobbing e le molestie sessuali sul posto del lavoro, raccomandando che :

  • Le organizzazioni private e pubbliche, nonché le parti sociali debbono attuare dei mezzi di prevenzione;

  • Individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime;

  • L’importanza dell’informazione e della formazione dei vari dipendenti, del personale e del medico del lavoro sia nel settore pubblico che privato;

  • L’importanza di introdurre un sistema per scambiare esperienze.

Potremmo inserire anche un esempio relativo ad alcuni dati riportati dalla ricerca condotta nel 2000 dall’ European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, ha mostrato come il 9% dei lavoratori europei (circa 12 milioni di persone) avrebbero sofferto di mobbing sia nel settore pubblico che privato negli ultimi 12 mesi. Ovviamente il risultato viene considerato con cautela visto che ancora oggi si presentano difficoltà nel definire il costrutto di mobbing e della conoscenza che si ha su tale fenomeno da parte dei rispondenti dell’indagine stessa (Giorgi, Majer, 2009).

In tale contesto abbiamo parlato di paesi europei, ma anche negli altri paesi del mondo ci sono state altre iniziative come in Canada, negli Stati Uniti, in Giappone, il mobbing e la violenza sul lavoro sono temi molto dibattuti e questo ha portato allo sviluppo di una certa consapevolezza negli individui. Nel 1993, in Australia è stata fondata un’organizzazione no profit e volontaria la Beyond Bullying Association, l’associazione aveva tra i vari scopi quelli di incrementare la consapevolezza del fenomeno e delle conseguenze che quest’ultimo può comportare; la promozione di ricerche per migliorare la qualità della vita; supporto alle vittime di mobbing e una notevole sensibilizzazione rivolta ala comunità e al governo. Iniziative di questo genere sono state messe in atto anche da Canada, nella zona del Quebec, dopo vari episodi spiacevoli di violenza lavorativa, e nel 2004 è stata promulgata una legge il cui intento è quello di rendere consapevoli i datori di lavoro e i dipendenti dalle molestie morali sul luogo di lavoro. Importante contributo è stato dato dal Giappone, che già dagli ’80 quando si iniziò ad usare la parola “Karoshi” tradotto sarebbe “morte da superlavoro” il quale viene visto lo stadio finale di una malattia di tipo sociale che porta alla distruzione dell’equilibrio psichico umano portando l’individuo ad uno sforzo esagerato spingendo il cuore a cedere oppure provocando un’emorragia cerebrale (Giorgi, Majer, 2009). La Svezia è stato il primo paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing nel 1993 e nel 1997 ci furono altre modifiche specifiche. Dal 2002 in Belgio viene varata una legge specifica per regolamentare il problema. Il datore di lavoro ha l’obbligo di eleggere con i rappresentanti dei lavoratori un consigliere per la prevenzione. Presso i servizi pubblici viene istituita una commissione d’avviso composta dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. In Francia, nel 2000 è stata varata la prima legge sul mobbing, la quale prevede sanzioni sia a discapito del mobber e sia coloro che falsamente dichiarano di essere stati mobbizzati. Nel 1998 è stato istituito in Germania, grazie al sindacato un telefono verde per aiutare le vittime esposte ad azioni mobbizzanti, queste solo alcune delle iniziative avvenute in Europa (Scanni, 2004). Ed è in questo paese che esistono in alcune aziende tedesche delle stanze chiamate del conflitto, Konfliktzimmer,” in cui i dipendenti possono riunirsi per discutere e chiarire i problemi. Può anche essere interpellato un “Konfliktmanager,” ossia uno specialista del conflitto, un mediatore, interno o esterno all’azienda (Ege, 2001).

Le varie forme di mobbing

In natura esistono varie tipologie di mobbing, e chi si occupa di tale fenomeno deve saperle riconoscere, tra queste ricordiamo:

  • Mobbing verticale, consiste in violenze psicologiche messe in atto da un superiore ai danni della vittima. Tali azioni possono essere dirette o indirette, con l’obiettivo di escludere il lavoratore dall’azienda in cui opera (Bartalucci, 2010). Il mobbing verticale può essere ascendente e discendente, nel primo caso quando le azioni mobbizzanti vengono esercitate dai colleghi subordinati, mentre nel secondo caso la violenza viene esercitata da un superiore della vittima. Un esempio di mobbing verticale è l’abuso del potere, vale a dire tutte quelle situazioni in cui viene attuato un uso non etico del potere da parte di un superiore, che utilizza, a tal fine, la posizione che occupa nella gerarchia aziendale (Giorgi, Majer, 2009);

  • Mobbing orizzontale, consiste in violenze messe in atto da colleghi di paro grado alla vittima. Anche qui le motivazioni che portano a tali azioni mobbizzanti possono essere molteplici, come l’invidia, la competizione e altro (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing collettivo/organizzativo, si riferisce alle situazioni in cui le procedure organizzative vengono percepite sistematicamente come oppressive ed umilianti al punto che i lavoratori si sentono mobbizzati da esse. Anche in questa forma di mobbing i comportamenti negativi sono frequenti, persistenti e tormentano, creano frustrazione nei dipendenti (Giorgi, Majer, 2009);

  • Il doppio mobbing, il primo studioso che trattò per la prima volta il fenomeno fu Ege (1997). Tale fenomeno riguarda il coinvolgimento della famiglia della vittima. La famiglia è certamente la prima istituzione sociale alla quale l’individuo appartiene e verso la quale sviluppa l’attaccamento, ma il tipo di legame esistente nelle varie famiglie può essere diverso. E il ruolo diverso assunto dalla famiglia nei confronti dei propri membri può ripercuotersi anche in una situazione di mobbing. Un coinvolgimento emotivo forte, può portare tutta la famiglia a vivere in maniera personale, le situazioni che riguardano un singolo membro. È naturale che un mobbizzato cercherà conforto all’interno del proprio nucleo familiare, in questo modo troverà sostegno e appoggio, che risulterà indispensabile per ricaricarsi dalle proprie insoddisfazioni interne. Il mobbizzato sopporta a lungo le vessazioni e le violenze psicologiche inflitte a lavoro, ma essendo il mobbing un fenomeno lungo si ripercuoterà anche nella famiglia della vittima (Favretto, 2005);

  • Il bossing, è una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda stessa ai danni dei dipendenti divenuti in qualche modo scomodi. Una strategia molto diffusa da bossing è quella di far circolare una lista nera, su cui sarebbero scritti i nomi delle persone non indispensabili. La lista non deve mai sembrare “ufficiale” ma sempre “segreta.” Le liste nere dovrebbero essere più di una, ed in ognuna comparire nomi e combinazioni di nomi diversi. Lo scopo è quello di affiancare alla tensione, anche l’insicurezza e la paura, in modo che nessuno sappia più con esattezza come vanno le cose e se possa o no ritenersi al sicuro (Ege, 1997). In questi tempi di crisi, molte aziende sono costrette a ridurre il personale, o a ringiovanirlo. Il bossing si configura in questi casi proprio come una precisa strategia aziendale con delle vere e proprie caratteristiche. Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing riguarderanno più specificamente l’attività lavorativa, si manifesteranno sotto forma di trappole, diffusione di informazioni false o incomplete e sabotaggi, affinché gli errori commessi dal lavoratore possano essere fatti ricadere su di lui e costituiscano una prova costruita da esibire in giudizio (Giorgi, Majer, 2009);

  • Mobbing leggero o pesante, nel primo caso le azioni mobbizzanti risultano sottili, ma non per questo meno pericolose. Nel secondo caso, invece, molto più pericolose e palesi (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing involontario, può derivare da uno stato di stress, viene definito come mobbing passeggero, che si concluderà con la fine del periodo stressogeno (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing del cliente, in questo caso i lavoratori diventano le vittime dei clienti per cui prestano servizio (Bartalucci, 2010);

  • Serial mobbing, è quello che avviene più frequentemente, è quando un impiegato cerca di mobbizzare i suoi impiegati uno dopo l’altro (Bartalucci, 2010).

Gli attori del mobbing

Anche se, siamo in presenza di varie tipologie di forme, in questi contesti a recitare sono sempre le stesse figure: l’aggressore (il mobber) e la vittima. Tuttavia, bisogna specificare che sia il mobber che il mobbizzato non si trovano quasi mai soli ma li circondano altre persone che chiameremo spettatori e altre con nomi più specifici (Giorgi, Majer, 2009). L’aggressore è stato definito da Ege (1996) con 14 profili diversi tra di loro: l’istigatore, il casuale, il conformista, il collerico, il megalomene, il frustrato, il criticone, il sadico, il leccapiedi, il pusillanime, il tiranno, il terrorizzato, l’invidioso e il carrierista (D’angio, Antigiovanni, 2002). Il mobber, è colui che agisce in maniera sistematica violenze psicologiche su un subordinato mediante critiche, aggressioni verbali e altro ancora, soltanto con l’obiettivo di far si che il mobbizzato si licenzi (Giorgi, Majer, 2009). Le azioni mobbizzanti possono essere molteplici ed è difficile riconoscerle poiché bisognerebbe avere informazioni più dettagliate sull’ambiente lavorativo in genere comunque le violenze possono essere (Menelao et al., cit. in Bartalucci, 2010) :

  • Palesi e violente se subentrano aggressioni verbali o fisiche;

  • Sottili e silenziose;

  • Disciplinari se consideriamo le lettere di richiamo;

  • Logistiche se pensiamo alle persone trasferite in sedi periferiche;

  • Mansionali, se la vittima si occupa di compiti al di sotto delle sue capacità;

  • Paradosssali, se la vittima si occupa di funzioni superiori alle proprie capacità professionali.

Ogni lavoratore, indipendentemente dalle caratteristiche della propria personalità e del proprio carattere può essere soggetto a molestie morali. Tuttavia, possiamo evidenziare potenziali bersagli, ad esempio lavoratori con un elevato coinvolgimento lavorativo, soggetti con ridotte capacità lavorative o problematiche personali (Gilioli et al., 2001). Tuttavia, il mobbizzato è colui che sistematicamente è oggetto di molestia, al fine di essere isolato e umiliato anche per quello che concerne la vita privata. Questo processo viene considerato una discriminazione e può avere conseguenze sulla salute dell’individuo e sulla sfera sociale (Giorgi, Majer, 2009). Nonostante ciò, lo stesso Ege (1996) individua 18 tipologie di possibili mobbizzati; la vittima può essere permalosa, ambiziosa, sicura di sé, molto severa, ma può interessare anche soggetti troppo sensibili o sinceri, eccessivamente paurosi oppure persone che si lamentano spesso. Sullo sfondo esercitano una consistente importanza anche altre figure altrettanto importanti, gli spettatori neutrali chiamati “bystander” oppure quelli che vengono chiamati “side-mobber” oppure “whistleblower” che si schierano dalla parte del mobber. I bystander sono colleghi, superiori consapevoli del fenomeno mobbing, ma incapaci di aiutare e di esprimere solidarietà verso la vittima, sentendosi a volte impotenti di fronte la situazione e riportando conseguenze negative anche sulla loro salute (Giorgi, Majer, 2009). I side-mobber sono coloro che invece affiancano attivamente il mobber nell’azione vessatoria influenzandone la strategia mobbizzante. I whistleblower sono coloro che aiutano la vittima e di solito sono gli stessi colleghi che lavorano nel medesimo luogo lavorativo e che mettono a repentaglio la loro stessa posizione lavorativa, oltre a questa figura esiste anche quella del mandante, che pianifica le azioni mobbizzanti che verranno in seguito eseguite dal mobber che si identifica con il mandatario. In questo caso il mobbizzato può percepirsi vittima di due forme di mobbing parallele: la prima esercitata dal mobber vero e proprio, mentre la seconda dai vertici aziendali (Giorgi, Majer, 2009).

Conseguenze sulla salute.. e non solo..

Il fenomeno mobbing provoca molti danni quando si presenta in un posto di lavoro, chi li subisce è la vittima, l’azienda e in minima parte il mobber. Le conseguenze per la vittima sono molteplici, a volte irreversibili, si trattano di somatizzazioni, disturbi e malattie varie (Ege, Lancioni, 1998). Il benessere della vittima si riduce notevolmente anche a causa delle preoccupazioni; la paura di incontrare il mobber il quale provoca nelle vittime stati di ansia e allerta. La vittima perde la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti continui e si concentra totalmente alle problematiche lavorative. Spesso in questi stati la vittima per dimenticare si lascia sopraffare da sostanze esterne come droghe, alcool, caffè, in maniera da ridurre il senso di malessere diffuso nella vittima (Bartalucci, 2010). La maggior parte delle malattie che colpiscono le vittime da mobbing sono malattie per lo più psicosomatiche. Con quest’ultime intendiamo quelle condizioni patologiche che si situano tra la psiche e il soma. La “somatizzazione” è un processo che è alla base del disturbo psicosomatico, può essere definita come l’espressione di contenuti psichici in sintomi fisici, coinvolgendo il sistema endocrino e immunitario. Numerosi studi hanno evidenziato la correlazione del mobbing con la diminuzione dello stato di benessere, l’aumento dell’ansia, la depressione, l’uso di psicofarmaci, la diagnosi di patologie psichiatriche e, in definitiva, con l’aumentato numero di assenze dal lavoro per malattia. Anche la sfera del sonno è ampiamente influenzata nel lavoratore sottoposto a mobbing. Nei disturbi psicosomatici si attua un espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo, quindi tutte le emozioni troppo dolorose per la vittima trovano sfogo nel soma (Compare, Grossi, 2002). Per la vittima quindi, il mobbing significa prima di tutto problemi di salute legati alla somatizzazione della tensione nervosa, dopo un certo periodo più o meno lungo, presenta una serie di caratteristiche comuni, per cui appare plausibile parlare di sindrome da mobbing. La patologia psicosomatica domina il quadro di esordio clinico, spesso accompagnata da disturbi d’ansia ed agitazione. Dai 6 ai 24 mesi la patologia si altera verso disturbi d’ansia con deflessione del tono dell’umore, o verso veri e propri disturbi depressivi (Ege, Lancioni, 1998). Anche il ruolo del sonno ha una notevole influenza nelle prestazioni e nella vita lavorativa della vittima di mobbing e possono essere interpretati come segni eccessivi di stress legati a condizioni fisiche e psichiche negative, per lo più associate a stati d’ansia o depressione. Essi si possono manifestare inizialmente, e nelle forme transitorie o più lievi, in una o più delle tre forme più comuni di insonnia ovvero in sindromi più marcate, gravi e persistenti, come incubi o ipersonnie (Costa cit. in SIMLII, 2005). Le conseguenze sociali possono essere notevoli se si pensa che la persistenza dei disturbi psicofisici porta ad assenze di lavoro protratte nel tempo con “sindrome da rientro al lavoro” finché non si arriva alle dimissioni o al licenziamento. Oltre a ciò, il soggetto trasmette il suo stato d’animo e le sue sofferenze all’interno dell’ambito familiare a volte provocando separazioni e divorzi, problemi con i figli e nelle relazioni sociali. Le aree maggiormente colpite sono (Gilioli et al., 2001):

  • Difficile recupero dell’inserimento occupazionale;

  • Coinvolgimento del nucleo familiare;

  • Coinvolgimento del tessuto della vita di relazione coadiuvata dalla caduta del ruolo lavorativo e dello stato sociale.

Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori, ma anche alle aziende stesse. Infatti, l’abbassamento dei livelli di produttività e la necessità di aiutare i dipendenti demotivati dal loro lavoro provoca per le aziende un innalzamento di costi aggiuntivi (Bodini, 2001). Tuttavia, le aziende rischiano di pagare dai 10 mila ai 50 mila euro a coloro che hanno subito azioni mobbizzanti, ma le perdite dell’azienda non si esauriscono al solo risarcimento dopo che la vittima ha esposto denuncia legale, ma bisogna considerare anche i danni che il mobber compie nei confronti della vittima e dell’azienda stessa, come azioni di sabotaggio soprattutto su quest’ultima inducendo in questo modo la vittima a compiere degli errori e poi perché il tempo che il mobber impiega a dar fastidio alla vittima viene tolto alle sue mansioni lavorative (Gorret, Anche gli stessi mobber posso riscontrare alcune difficoltà, la più grave potrebbe essere quando la grave situazione creata dal mobbing costringe l’azienda a chiudere un reparto o a diminuire il personale e di conseguenza anche lo stesso mobber ne sarà coinvolto (Ege, Lancioni, 1998).

Prevenzione e interventi al mobbing

In questi casi l’importanza è data molto alla parola “formazione” a tutti i livelli. In questo caso con ciò intendiamo una corretta informazione, prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli, sia aziendale che prevede una formazione e gestione dei conflitti e poi a livello professionale rivolgendosi a quei professionisti, come psicologi, medici, avvocati che possono risultare punti di riferimento a quelle persone vittime di mobbing. Anche la formazione individuale è importante ed è rivolta ai singoli soggetti (Ege, 2001). L’importanza è data all’informazione, in maniera che tutti possano essere informati sul problema (Ascenzi, Bergagio, 2000). Qualora si sospetti di essere vittime di mobbing sono presenti in Italia alcuni centri specializzati, i quali forniscono (Lazzari, 1996):

  • Consulenze;

  • La possibilità di intermediare con l’azienda presso la quale la persona lavora;

  • Colloquio preventivo gratuito con esperti in materia;

  • La richiesta di una pensione d’ invalidità nei casi in cui sia riconosciuta il nesso tra la condizione lavorativa e la malattia conseguita.

Il rimedio contro il mobbing deve essere come il mobbing, e deve possedere le tre caratteristiche principali (Casilli, 2000):

  • Deve essere somministrato sul luogo del lavoro:

  • La difesa del mobbizzato deve protrarsi nel tempo;

  • Deve basarsi su una strategia pianificata.

L’importanza è data dall’auto-formazione che si basa su principi cardini quali non chiudersi mai in se stessi; prendere coscienza che non si è in difetto; porsi delle domande; cercare appoggio negli affetti vicini e per ultimo affrontare il mobber (Ascenzi, Bergagio, 2000). Bisogna considerare che ci sono varie strategie che possono risultare benevole per fronteggiare tale fenomeno, sia strategie aziendali che individuali. La formazione e l’informazione sono la chiave essenziale per poter prevenire, curare e intervenire sul mobbing, infatti si è constatato che le aziende che aiutano a far conoscere tale fenomeno ha ottenuto enormi vantaggi sia per se stesse che per coloro che lavorano (Ege, 1996). Per aiutare le aziende l’associazione PRIMA ideata dal Dott. Harald Ege, organizza dei corsi rivolti ai consulenti del personale e degli addetti alle risorse umane su come gestire i conflitti da mobbing, offrendo anche servizi di monitoraggio (Gorret, 2003). In un intervento mirato bisognerebbe creare quella che comunemente viene considerata “la cultura del litigio,” in maniera da intervenire e gestire le situazioni critiche. Per attuare la cultura del litigio è de-emozionare il conflitto, ossia togliervi ogni elemento emozionale che può risultare scomodo e fuori luogo in determinate circostanze. Nelle aziende dove manca la cultura del litigio, il conflitto tradizionale logora e distrugge le energie dei contendenti, le quali sono rivolte le une contro le altre. Nella cultura del litigio, invece, le risorse dei contendenti lavorano insieme ed in sinergia, venendo impiegate per la creazione di nuove e creative soluzioni. Il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale. Se si collabora con i colleghi (team feeling) i problemi possono essere risolti e i conflitti possono essere addirittura evitati, per questo motivo secondo il Dott. Ege bisognerebbe instaurare in ogni azienda una cultura del conflitto (Ege, 2001). Vi siete mai chiesti che cosa fa la vittima mobbizzata per prima cosa? Coloro che subiscono mobbing si recono dal medico di famiglia speranzosi di raccontargli il loro stato psicofisico. Lo stesso lavoratore non sempre mette la sua sofferenza in rapporto con i problemi occupazionali ed è quindi il primo a voler indagare le possibili cause organiche del suo star male. Oppure, non ritiene di doverne parlare. Parla quindi di disturbi del sonno, di tensione, di ansia, di paura o di depressione. Se il paziente spontaneamente racconta al proprio medico di base anche le sue vicende occupazionali, aspetta al medico stesso di offrire uno spazio di accoglimento che consenta alla persona di poter manifestare il proprio disagio. In questo caso l’aiuto del medico è fondamentale in maniera da suggerirgli soluzioni alternative (Fattorini, Gilioli, 2000). Da dieci anni circa sono nate anche delle associazioni di autoaiuto e auto ascolto per le vittime di mobbing, molte di queste associazioni hanno creato anche delle help lines sulla base del modello del telefono amico, anche se in Italia non siamo ancora a conoscenza di servizi telefonici per lavoratori mobbizzati (Casilli, 2000). In associazioni come PRIMA ci sono vari corsi individuali per allenare la persona al conflitto, come (Ege, 2001):

  • L’Autodifesa Verbale insegna le strategie per difendersi dagli attacchi verbali;

  • L’M-Group è una sorta di “campo di battaglia” dove si mettono in pratica le strategie, le tecniche e i modelli difensivi appresi, osservandone il funzionamento e gli effetti. In ogni caso e utile per gestire al meglio le proprie risorse personali;

  • L’Egoismo Sano è un corso che permette di imparare a gestire autonomamente ed in prima persona la propria vita, divenendo padroni di se stessi, incoraggiando a riconquistare se stesso e la padronanza dei propri pensieri ed atteggiamenti, rendendosi indipendente dalle limitazioni;

  • Pigrizia Positiva è un corso che insegna, in modo costruttivamente provocatorio, a diventare “pigroni ad hoc”, ad essere volutamente pigri per difendersi dallo stress e godersi la vita. Bisogna risparmiare la nostra energia vitale nelle piccole e grandi cose di ogni giorno in maniera da riconoscere gli sprechi della vita moderna.

CONCLUSIONI

Il presente articolo ha voluto delineare il nesso che unisce il fenomeno dello stress con quello del mobbing. Abbiamo cercato di introdurre un nuovo tipo di stress psicosociale delineandone le caratteristiche principali, gli effetti sulla salute e quelli sociali, i protagonisti che operano in tali contesti e per finire i vari interventi a livello aziendale e individuale che possono aiutare le vittime di mobbing a vedere la realtà che li circonda con occhi diversi e a sviluppare le loro risorse individuali al fine di aiutarle ad arginare e contrastare i vari problemi inerenti al fenomeno.

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Conformismo e obbedienza. Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo, la critica di Haslam e Reicher Cosimo Delcuratolo

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Il presente articolo tratta il tema del conformismo e una sua particolare espressione: l’obbedienza all’autorità. L’obiettivo è quello di mettere in luce le caratteristiche individuali e di gruppo che favoriscono il cambiamento del comportamento, dei pensieri e dei sentimenti rispetto ad una norma sociale e le condizioni che favoriscono l’obbedienza. Inoltre, attraverso gli studi di Haslam e Reicher, mostrare come, contrariamente all’idea che persone comuni possano commettere atrocità senza esserne consapevoli, le malvagità “non sono eventi che accadono così semplicemente, facilmente o senza riflessione, ma sono piuttosto l’esito di un lungo processo di socializzazione, apprendimento e trasformazione personale, che richiede energie, impegno e applicazione” (Ravenna, 2011, 104). Ciò significa che le persone hanno il potere di resistere al conformismo e all’autorità esterna e che “chi compie il male lo fa consapevolmente non ciecamente, attivamente non passivamente, creativamente non automaticamente” (Haslam, Reicher, 2012, 4). I due ricercatori, infatti, hanno criticato l’approccio troppo situazionista adottato dagli studi sull’obbedienza degli ultimi decenni e hanno proposto un approccio misto, in cui vengono considerate sia condizioni legate alla situazione sia inclinazioni personali.

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Il presente articolo tratta il tema del conformismo e una sua particolare espressione: l’obbedienza all’autorità. L’obiettivo è quello di mettere in luce le caratteristiche individuali e di gruppo che favoriscono il cambiamento del comportamento, dei pensieri e dei sentimenti rispetto ad una norma sociale e le condizioni che favoriscono l’obbedienza. Inoltre, attraverso gli studi di Haslam e Reicher, mostrare come, contrariamente all’idea che persone comuni possano commettere atrocità senza esserne consapevoli, le malvagità “non sono eventi che accadono così semplicemente, facilmente o senza riflessione, ma sono piuttosto l’esito di un lungo processo di socializzazione, apprendimento e trasformazione personale, che richiede energie, impegno e applicazione” (Ravenna, 2011, 104). Ciò significa che le persone hanno il potere di resistere al conformismo e all’autorità esterna e che “chi compie il male lo fa consapevolmente non ciecamente, attivamente non passivamente, creativamente non automaticamente” (Haslam, Reicher, 2012, 4). I due ricercatori, infatti, hanno criticato l’approccio troppo situazionista adottato dagli studi sull’obbedienza degli ultimi decenni e hanno proposto un approccio misto, in cui vengono considerate sia condizioni legate alla situazione sia inclinazioni personali.

Che cosa si intende per conformismo

“Il conformismo può essere definito come il cambiamento di un comportamento di un individuo per adeguarsi alle pressioni di un gruppo mediante l’adozione delle norme che gli sono proposte o imposte” (Pedon, 2011, 110). Mucchi Faina precisa che si tratta di aderire ad un’opinione o ad un comportamento prevalente anche quando questi sono in contrasto con il proprio modo di pensare (Mucchi Faina, 1998, 8). L’elemento centrale del conformismo, dunque, è la rinuncia del soggetto a pensare in modo autonomo, ad agire personalmente e ad esercitare liberamente la propria volontà e responsabilità (Bajzek, 2008, 246-247). Quando parliamo di conformismo, allora, “facciamo riferimento a quell’influenza pervasiva che gli altri esercitano sulle nostre menti quando con essi abbiamo delle interazioni” (Attili, 2011, 203).

Sebbene nelle culture individualiste occidentali, a differenza di quelle orientali, il termine conformismo abbia assunto un significato negativo, gli studi sul tema hanno posto in evidenza che si stratta di un processo di adattamento alla realtà indispensabile al vivere sociale. Nail ha individuato tre tipi di conformismo. Egli chiama accondiscenza o acquiescenza il conformarsi ad un’aspettativa o ad una richiesta senza realmente credere in ciò che si sta facendo. Ad esempio si indossa la cravatta ad un ricevimento sebbene ci dia fastidio farlo. È un tipo di conformismo che Nail definisce finto e apparente, perché il comportamento è eseguito unicamente per compiacere gli altri. Quando ci si conforma in risposta ad un ordine o ad un comando esplicito per ottenere una ricompensa o evitare una punizione, il conformismo viene definito obbedienza. Quando, invece, il conformismo è sincero e interiore, allora lo si definisce accettazione o adesione interiore. L’accettazione, qualche volta, segue l’accondiscendenza: possiamo, dopo un po’ di tempo, arrivare a credere intimamente a qualcosa di cui inizialmente dubitavamo (Nail, MacDonald, Levy, 2000, 455-458).

Mucchi Faina specifica che nel conformismo si distinguono tre diversi elementi: una certa tensione nel soggetto tra posizioni precedenti e pressioni alle quali è sottoposto; adesione del soggetto a ciò che gli viene consigliato; negazione di alcuni aspetti del precedente comportamento e affermazione di se stesso attraverso l’adozione di comportamenti nuovi (Mucchi Faina, 1998, 11).

Esiste, poi, una particolare forma di uniformità, basata sull’adeguamento alle tradizioni o alle consuetudini, che non può essere confusa con il conformismo. Questo tipo di uniformità, pur avendo molte caratteristiche in comune con il conformismo, presenta, anche, due sottili ma importanti differenze. “La persona che assume una condotta convenzionale si regola soprattutto guardando al passato: fa che ciò che si è sempre fatto, nel modo di sempre, usuale ordinario; chi manifesta conformismo appare invece prevalentemente condizionato dal presente, attento all’attualità, alla moda, ciò che prevale qui e ora. Ne consegue, è questa l’altra differenza, che mentre il primo si distingue per la sua rigida staticità, il secondo è spesso caratterizzato dalla mutevolezza, dal cambiamento. Il conformismo è una tendenza ad adattarsi, mentre la convenzionalità fa rimanere immobili” (ivi, 12).

Gli studi classici sul conformismo

I ricercatori che studiano il conformismo e l’obbedienza cercano di ricostruire in laboratorio dei “mondi sociali” in miniatura, sviluppando micro culture che semplificano e simulano caratteristiche importanti dell’influenza sociale quotidiana. Alcuni di questi esperimenti hanno rivelato risultati preoccupanti. La loro risonanza, dovuta anche al fatto di esser stati replicati da altri ricercatori, è stata così grande, che si sono guadagnati il nome di esperimenti “classici”. Si tratta dei primi e forse più famosi esperimenti di psicologia sociale: gli studi di Muzafer Sherif sull’emergenza delle norme in gruppi esposti a situazioni percettive ambigue, e quelli di Solomon Asch sul conformismo in giudizi percettivi non ambigui (Mannetti, 2002, 285).

Sherif e l’effetto autocinetico

È possibile osservare la nascita di una norma sociale e studiare in laboratorio i fattori operativi che spiegano il conformismo? Per rispondere a questa domanda Sherif utilizzò un’illusione ottica denominata effetto autocinetico. In una stanza completamente buia, fissando un punto luminoso si produce la sensazione che esso, benché immobile, cominci a muoversi in modo irregolare. Tale illusione percettiva è nota ad astronomi e marinai abituati ad osservare le stelle di notte, ma era sconosciuta ai soggetti coinvolti nell’esperimento, i quali vennero semplicemente informati che, trascorso un breve periodo di tempo, la luce avrebbe cominciato a muoversi.

L’esperimento consisteva nel presentare, in una successione di 100 volte ripetuta per quattro sessioni in giorni diversi, lo stimolo luminoso, a singoli individui e a gruppi. I soggetti avevano il compito di indicare l’ampiezza percettiva del movimento dello stimolo luminoso. Nell’esperimento individuale i risultati evidenziarono che ogni individuo, nel corso delle prove, sviluppava un proprio criterio di riferimento, una norma soggettiva attorno alla quale venivano ancorati i successivi giudizi: questi, inizialmente diversi, progressivamente convergevano intorno ad uno standard di valutazione. Poiché non vi erano parametri sicuri, la stima dell’entità del movimento era molto diversa da soggetto a soggetto. In tal senso, si parla di norma soggettiva. L’esperimento di gruppo prevedeva sia l’utilizzo di soggetti che avevano già partecipato singolarmente alle quattro sedute, sia soggetti che affrontavano il compito sperimentale per la prima volta. La differenza è importante: i primi erano già pervenuti ad una norma personale, mentre i secondi non disponevano di alcun punto di riferimento. Nel primo caso i soggetti gradualmente abbandonavano la norma soggettiva sviluppata nel precedente esperimento in favore di un giudizio condiviso, di una posizione comune, di una norma di gruppo. Nel secondo caso la convergenza verso l’accordo era ancora più evidente e rapida. La norma di gruppo, inoltre, permaneva anche quando i soggetti venivano nuovamente sottoposti a giudizi individuali o ad ulteriori esperimenti (Costarelli, 2012, 91-95).

“Questo esperimento dimostra che le persone, quando sono poste di fronte ad uno stimolo ambiguo e non strutturato, sviluppano comunque una norma di riferimento interna e stabile rispetto alla quale valutano lo stimolo. Non appena si scontrano con le differenti valutazioni proposte dagli altri, abbandonano velocemente lo standard di riferimento personale per adeguarsi al giudizio degli altri” (Pedon, 2011, 109).

L’effetto autocinetico fu utilizzato, alcuni anni dopo, anche da Robert Jacobs e Donald Campbell in altri esperimenti di laboratorio per verificare la trasmissione delle false credenze da una generazione ad un’altra. Le persone – si chiesero i due ricercatori – continuerebbero a comportarsi in tal modo anche con una norma di gruppo completamente artificiale? Essi stabilirono una tale norma artificiale includendo nel gruppo un complice, il quale forniva una stima molto più elevata del solito (15-18 pollici invece della “norma” di 3.5 pollici) sulla distanza percorsa dal puntino di luce in movimento e poi se ne andava. Successivamente essi sostituirono i membri del gruppo uno alla volta, fino a quando ciascuna posizione all’interno del gruppo non fosse stata cambiata più volte. I due studiosi della Northwestern University trovarono che i gruppi continuavano con la norma artificiale fino a cinque generazioni di partecipanti. “Questi soggetti erano diventati complici inconsapevoli nel perpetuare una frode culturale” (Myers, Twenge, Marta, Lanz, 2013, 200).

Asch e le ragioni del conformismo

Mentre i soggetti degli esperimenti autocinetici di Sherif nella stanza oscurata dovevano affrontare una realtà ambigua, un problema percettivo meno ambiguo, invece, emerge dal racconto di Salomon Asch quando descrive un episodio accadutogli da bambino durante la Pasqua ebraica. “Chiesi a mio zio, che era seduto vicino a me, perché la porta fosse rimasta aperta. Egli rispose: «Stasera il profeta Elia visiterà tutte le case ebree e prenderà un sorso di vino dalla tazza a lui riservata». Ero stupito da questa notizia e ripetevo «ma davvero viene? E prenderà veramente un sorso?». Mio zio disse: «Se tu guardi molto attentamente, quando la porta è aperta, vedrai – guarda la tazza – che il vino diminuirà un pochino». Ed è quello che successe. I miei occhi erano inchiodati alla tazza di vino, ero determinato a vedere se ci sarebbe stato un cambiamento. E a me sembrò […] che in realtà qualcosa fosse successo al bordo della tazza, e che il vino fosse un pochino diminuito” (Aron, Aron, 1989, 27).

Anni dopo, Asch ricreò in laboratorio la sua esperienza di fanciullo. Furono reclutati sette soggetti per partecipare ad un presunto esperimento sui giudizi percettivi. In realtà, soltanto uno era il “soggetto ingenuo” che sedeva al penultimo posto in una fila di sette persone. Lo sperimentatore spiegava che il loro compito consisteva nel confrontare la lunghezza di alcune linee verticali. In ogni presentazione c’era una linea tipo e il compito dei soggetti era quello di identificare quale delle tre linee poste a confronto era della stessa lunghezza di quella tipo. Le risposte venivano fornite a turno e ad alta voce. La sequenza prevedeva dodici valutazioni. Si trattava di un compito abbastanza semplice, ed infatti durante le prime due prove tutti fornirono la risposta naturalmente corretta; ma, dalla terza prova in poi, i complici del ricercatore cominciarono a fornire una risposta palesemente errata e in più si mostravano concordi nel loro errore, rispondendo in modo sicuro e calmo. Ad Asch interessava solo il comportamento del soggetto naïf: come avrebbe reagito di fronte a queste persone apparentemente del tutto irreprensibili che contraddicevano in modo così evidente l’evidenza dei suoi stessi occhi? I risultati furono sorprendenti: almeno i tre quarti dei soggetti naïf fornirono almeno una risposta sbagliata nelle prove cruciali quando i collaboratori deviavano. In altre parole, Asch trovò che i soggetti ingenui fornivano la stessa risposta sbagliata della maggioranza nel 36,8% dei casi e che il 75% dei soggetti adottava la posizione della maggioranza almeno una volta durante le prove (Asch, 1989, 356-359).

Ciò che Asch aveva dimostrato era che gli individui sono evidentemente disponibili a negare un giudizio chiaramente vero per adeguarsi alla maggioranza (Hewstone, Martin, 2015, 312). Concluse: “Il fatto che persone giovani, intelligenti e ben intenzionate siano disposte a chiamare bianco il nero è una situazione preoccupante. Fa sorgere dubbi sui nostri sistemi di educazione e sui valori che guidano il nostro comportamento” (Asch, 1955, 5).

Successivamente Asch decise di introdurre delle varianti ai suoi esperimenti, di agire, cioè, sull’elemento che fino ad allora si era rivelato decisivo: rompere il consenso prodotto dalla maggioranza dei complici. In un primo esperimento, all’interno del gruppo fu introdotto un secondo soggetto ingenuo, eliminando in tal modo l’isolamento del primo. La prova fornì risultati molto interessanti: il livello di conformismo calò immediatamente dal 36,8% al 9,5%, sottolineando, in tal modo, l’importanza della presenza di un “sostegno sociale”. In un secondo esperimento, ad uno dei collaboratori fu chiesto di fornire sempre la risposta corretta, in contrasto con la maggioranza; ciò produsse un conformismo ancora più basso, addirittura intorno al 5%. Altre varianti furono, poi, introdotte nell’esperimento, ma il risultato rimase sempre lo stesso: l’unanimità della maggioranza si era rivelata essenziale per ottenere il cosiddetto effetto Asch (Asch, 1989, 375-376).

Confermato ciò, rimaneva però un interrogativo importante a cui dare risposta: che cosa aveva provocato il drastico calo del conformismo: l’effettiva presenza del sostegno sociale o la semplice rottura del consenso maggioritario? La risposta arrivò da un terzo esperimento nel quale uno dei collaboratori, pur fornendo ugualmente risposte sbagliate, aveva il compito di deviare dalla maggioranza. In alcune condizioni la risposta sbagliata si collocava tra la risposta della maggioranza e quella esatta; in altre condizioni era ancora più sbagliata di quella della maggioranza. Entrambe le condizioni ridussero il livello di conformismo ma, in modo interessante, l’ultima condizione ebbe degli effetti addirittura più forti della prima. Dunque, fattore cruciale per la riduzione del conformismo era stata la rottura dell’unanimità e non la semplice presenza di un “alleato”. “Ricerche successive hanno confermato i risultati di Asch sull’importanza del dissenso nel ridurre il conformismo benché per alcuni tipi di comportamenti – particolarmente quelli che implicano opinioni soggettive anziché giudizi oggettivi – sia evidentemente necessario anche che tale dissenso sostenga la posizione del soggetto” (Brown, 2005, 130-131).

In altre parole, quando gli stimoli sono di tipo oggettivo (percezioni visive e informazioni) la rottura del consenso sociale e quindi l’incoerenza della posizione maggioritaria, non più capace di essere compatta nella sua influenza sul singolo, risulta essere il fattore determinante per il calo del conformismo; quando, invece, gli stimoli sono di tipo soggettivo (opinioni), conta molto più la presenza effettiva di un alleato per ridurre drasticamente la conformità (Allen, Levine, 1969, 394-396).

Le determinanti del conformismo

Le ricerche sul conformismo hanno individuato due tipi di fattori che intervengono in questo processo: le caratteristiche dell’individuo e quelle del gruppo. Sebbene ci sia un notevole accordo nel sottolineare che le caratteristiche del gruppo hanno un peso prevalente nel determinare il conformismo, non è possibile negare che le persone siano diverse e possano reagire diversamente nella stessa situazione. Si tratta, dunque, di due aspetti interdipendenti che acquistano maggiore o minore importanza a seconda delle situazioni.

Le caratteristiche individuali

Sulla base di interviste dettagliate condotte al termine dei suoi esperimenti, Asch stabilì che in nessun caso “i soggetti ingenui” avevano veramente percepito linee identiche quando esse, invece, erano differenti. Piuttosto, avevano scarsa fiducia nei propri giudizi, accettando che gli altri partecipanti all’esperimento fossero a conoscenza di qualche informazione aggiuntiva che influenzava le loro risposte. Una frase riportata al termine dell’esperimento da uno dei soggetti è esemplificativa: “A me sembrava di non sbagliare, ma la ragione mi diceva che avevo torto perché era impossibile che tante persone potessero avere torto e solo io ragione” (Zamperini, Testoni, 2002, 229). È «l’influenza dell’informazione» a far sì che gli individui accettino le opinioni del proprio gruppo per risolvere i dubbi dovuti a situazioni ambigue, viene utilizzata per integrare competenze lacunose e guadagnare così una maggiore sicurezza nell’affrontare i compiti della vita (Deutsch, Gerard, 1955, 629-636). Essa spiega anche il conformismo osservato nell’esperimento autocinetico di Sherif e può essere considerata una regola generale euristica, utile per esprimere numerosi giudizi. La pressione informazionale fa sì che le opinioni di una persona cambino in maniera profonda e che si abbia un’adesione interiore, una sorta di conversione, che porta a internalizzare le opinioni o le norme del gruppo (Attili, 2011, 206-207).

Riguardo alla competenza, alcune ricerche più recenti, hanno evidenziato che quanto più un individuo si sente competente nello svolgere un compito, tanto minore è il suo desiderio di conformarsi al gruppo. Infatti, quanto più alta è l’insicurezza e la sfiducia sulle proprie capacità, tanto più spesso si ricorre al gruppo per attingere informazioni, aderendo a quelle che vengono proposte. Al contrario, quando l’individuo crede di avere buone competenze cerca molto meno l’aiuto del gruppo. Anche dubitare dell’attendibilità dei propri giudizi, spinge le persone a cercare il confronto con gli altri per compiere scelte più corrette (Pedon, 2011, 113).

Tra coloro che, durante gli esperimenti di Asch, si allinearono alle opinioni della maggioranza, molti dichiararono di aver sentito il bisogno di non essere esclusi dal gruppo (“Non volevo sembrare uno stupido”), tralasciando qualsiasi preoccupazione relativa a ciò che realmente percepivano. Infatti, quando le persone devono esprimere un giudizio su un determinato aspetto della realtà di fronte agli altri, si preoccupano fondamentalmente di due cose: che il giudizio sia corretto e che gli altri si formino una buona impressione di loro (Attili, 2011, 206). Il bisogno di piacere e di essere accettati è così forte e radicato nella natura umana che le persone, pur sapendo di compiere un’azione sbagliata, la perseguono unicamente per non essere diversi, per non doversi sentire degli eccentrici o degli degli sciocchi. È la seconda forma di influenza, attinente all’affiliazione, che Deutsch e Gerard hanno chiamato «influenza normativa», ossia il conformismo dovuto al desiderio di ottenere accettazione e approvazione, per evitare al tempo stesso l’imbarazzo e l’esclusione dal gruppo. L’influenza normativa modifica l’atteggiamento pubblico di una persona (l’atteggiamento verso gli altri), ma non ha effetti sull’atteggiamento privato (in quanto la persona si adegua alla maggioranza semplicemente per evitare l’esclusione sociale). Questo tipo di conformismo può essere definito accondiscendenza e cessa quando l’individuo si allontana dalla pressione del gruppo (Deutsch, Gerard, 1955, 629-636).

Il comportamento umano è anche influenzato dal tipo di autoconsapevolezza che si ha in una determinata situazione o che si tende ad avere in modo prevalente. Se si è prevalentemente consapevoli degli aspetti privati della propria immagine (autoconsapevolezza privata) si tenderà ad essere maggiormente influenzati dai propri standard personali, mentre se si presta maggiormente attenzione alla propria immagine pubblica si è più preoccupati della valutazione degli altri, si ha una perdita temporanea di autostima e si tende ad essere più influenzati da standard sociali di comportamento. Pertanto, quando l’autoconsapevolezza privata è elevata, è minore la tendenza a conformarsi al giudizio della maggioranza, mentre in condizioni di autoconsapevolezza pubblica tale tendenza sarà accentuata (Mannetti, 2002, 297).

Inoltre, “le persone che hanno poca autostima sono più predisposte a cedere alla pressione del gruppo rispetto a quelle che ne hanno molta” (Aronson, 2006, 26). Infatti, chi ha un’alta autostima valuta se stesso complessivamente in modo positivo e non ricerca costantemente l’approvazione da parte degli altri.

Anche la presenza di un locus of control esterno è associata ad un maggior grado di conformismo, poiché predispone ad attribuire le cause degli eventi a fattori indipendenti dalla propria volontà e a percepire una limitata possibilità di esercitare un efficace controllo sulla situazione che ci si trova a vivere: in sintesi, a lasciarsi guidare da ciò che avviene intorno a sé piuttosto che ad agire per modificare la realtà secondo la propria volontà (Mucchi Faina, 1998, 18).

In riferimento al genere, le ricerche hanno dimostrato una maggiore conformità delle donne rispetto agli uomini: un risultato che Eagly spiega a partire dal processo di socializzazione, che a suo parere orienta gli uomini ad essere più indipendenti e assertivi, e le donne a cercare di andare d’accordo con gli altri ed essere disponibili (Eagly, 1987, 53-54). Bisogna, inoltre, sottolineare che “tali differenze aumentano se lo sperimentatore è uomo o se il compito sperimentale ha più a che fare con competenze maschili” (Aronson, 2006, 26).

Anche il ceto di appartenenza e lo status sociale possono indurre ad un atteggiamento più o meno conformista. In Occidente, per esempio, il conformismo prevale nei ceti medi, poiché per essi, adottare il sistema prevalente di credenze, norme e valori, significa mantenere o migliorare la propria posizione sociale. Al contrario, coloro che, invece, appartengono agli strati più elevati della società, forti del prestigio ormai acquisito e consolidato nel tempo, possono permettersi di esprimersi in modo stravagante o trasgressivo e di violare le norme sociali senza che la loro posizione di privilegio sia minacciata. Anche coloro che occupano i gradini più bassi della scala sociale sono meno propensi al conformismo in quanto “non percepiscono alcun reale vantaggio dall’attenersi ai comportamenti premiati socialmente, oppure perché, se hanno anche un basso livello di istruzione, possono non essere a conoscenza delle norme sociali che indicano cosa sia opportuno fare o pensare” (Mucchi Faina, 1998, 24).

Le caratteristiche di gruppo

Il primo fattore che si è rivelato cruciale è costituito dalla numerosità della maggioranza che esercita l’influenza. Asch ha variato il numero di collaboratori che fornivano la risposta errata da un minimo di uno ad un massimo di quindici. I risultati del suo studio indicano che il conformismo aumenta in relazione al numero dei componenti del gruppo, ma non illimitatamente. La pressione sale fino a quattro persone; superato questo limite, decresce (Pedon, 2011, 113).

Probabilmente il contributo più interessante, in questa direzione, appare quello di Wilder; che, riferendosi anch’egli alle ricerche di Asch, ha sostenuto come il conformismo può non aumentare in relazione al numero della maggioranza se il soggetto percepisce la stessa maggioranza come un’entità unica e compatta, che risponde in funzione di relazioni conformiste tra i suoi membri, piuttosto che come un insieme di individui che giungono alla medesima conclusione in modo indipendente. La maggioranza, dunque, risulta credibile quando dimostra ad un individuo, in modo reale o fittizio, che la posizione comune raggiunta è il frutto di una scelta autonoma di ogni suo singolo membro (Moscovici, 1986, 32-33).

Ricerche successive hanno suggerito che le dimensioni del gruppo possano essere più importanti in situazioni nelle quali si deve valutare una realtà sociale chiara, piuttosto che in situazioni nelle quali la realtà da valutare è ambigua. Ciò potrebbe derivare dal fatto che nel primo caso prevale un’influenza di tipo normativo, che tipicamente può essere rafforzata dalla numerosità della maggioranza, mentre nel secondo caso prevale un’influenza di tipo informativo, che sarebbe meno influenzata dalla numerosità (Bond, 2005, 340-344).

Un secondo fattore rilevante, come abbiamo visto riguardo agli esperimenti di Asch, è costituito dall’unanimità del gruppo. L’influenza normativa, infatti, si riduce in presenza di una ridotta unanimità della maggioranza e del complementare sostegno offerto al soggetto ingenuo; il quale, non essendo più solo a dissentire, è meno preoccupato delle possibili reazioni negative della maggioranza (Allen, Levine, 1969, 392-394). “Questo fenomeno è tanto più forte quanto più la persona che offre il sostegno sociale è considerata competente” (Pedon, 2011, 114). Questi esperimenti insegnano, anche, la lezione pratica che è più facile opporsi a qualcosa se si riesce a trovare qualcun altro che si oppone con noi.

Un terzo fattore importante per il livello di conformismo è la coesione del gruppo, ossia la misura in cui nel gruppo viene percepito il senso di interconnessione. Diverse ricerche recenti hanno mostrato come in gruppi con elevata coesione si verifichi un conformismo maggiore di quello riscontrato in gruppi con bassa coesione. Si tratta di una logica conseguenza dell’influenza normativa. Un gruppo coeso, i cui membri hanno una storia di interdipendenza, tenderà a creare delle condizioni nelle quali i membri del gruppo faranno ciò che si aspetta da loro (Myers, Twenge, Marta, Lanz, 2013, 223).

Anche le situazioni nelle quali l’individuo è inserito possono influire sul conformismo. È stato rilevato, infatti, che il conformismo aumenta in presenza di un compito difficile e ambiguo da svolgere rispetto ad uno semplice. Più il compito risulta difficile e ambiguo, più il soggetto si rivolge ad altri per ottenere informazioni, in particolare in relazione a opinioni e abilità collegate alla realtà sociale (Pedon, 2011, 114).

I fattori che abbiamo considerato finora possono differenziare diverse situazioni specifiche nell’ambito della stessa cultura. Il contesto culturale in quanto tale, tuttavia, può avere un ruolo importante nel favorire o meno il conformismo nei confronti della maggioranza. Milgram, allievo di dottorato di Asch, è stato uno dei primi a studiare, adottando una procedura di ricerca simile a quella del maestro, il conformismo nei confronti della maggioranza in soggetti di culture diverse. Nel suo studio Milgram confrontò studenti norvegesi e francesi, scoprendo che i soggetti norvegesi si conformavano maggiormente rispetto a quelli francesi. Secondo Milgram tali differenze erano coerenti con la diversa tradizione culturale delle due nazioni e, in particolare, con la maggiore apertura critica che caratterizza la società francese (Aronson, Wilson, Akert, 2013, 161). Più recentemente Bond e Smith hanno realizzato una meta-analisi a partire da 133 studi che hanno adottato il paradigma sperimentale di Asch, svolti in 17 paesi tra il 1952 e il 1996. I risultati hanno confermato l’esistenza di differenze culturali nella percentuale di conformismo, evidenziando che nelle culture collettiviste (ad esempio la Cina), rispetto a quelle individualiste (ad esempio gli Stati Uniti), le persone tendono a cedere più facilmente alla pressione della maggioranza. Tale differenza non è sorprendente, in quanto nell’ambito di culture collettiviste il conformismo non è valutato negativamente, ma è considerato una grande virtù (Bond, Smith, 1996, 111-114). “Ovunque in Giappone – osserva Lance Morrow – si percepisce un’intrinseca serenità che viene a chi sa esattamente che cosa aspettarsi dall’altro” (Morrow in Myers, 2013, 197).

Milgram: la debolezza della resistenza umana

Mentre la maggioranza unanime esercita una pressione che spinge il soggetto ad uniformare il proprio comportamento a quello degli altri, esistono situazioni in cui l’individuo si sente fortemente spinto a seguire le norme del gruppo anche senza la presenza di più persone. È il caso del rapporto con l’autorità. Milgram definisce l’obbedienza come una particolare forma di conformità che si esplicita quando tra la fonte di influenza e il bersaglio vi è una differenza di tipo qualitativo, cioè una differenza di status. Inoltre, sulla base dell’autorità che gli è riconosciuta un individuo esercita in modo esplicito e diretto una pressione su altri individui (Milgram, 1963, 371). L’obbedienza comporta, quindi, la variazione del proprio comportamento per rispondere a un ordine impartito da un’autorità legittima

L’obiettivo che Milgram si proponeva di raggiungere attraverso le sue ricerche era quello di dimostrare che “gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non è motivata da nessuna particolare aggressività, può, da un momento all’altro, rendersi complice di un processo di distruzione” (Milgram, 1975, 20). Ciò che è peggio, prosegue lo psicologo statunitense, è il fatto che la maggior parte delle persone non ha le risorse necessarie per opporsi all’autorità, anche quando si accorge di compiere atti malvagi, in contrasto con le regole morali più elementari. Entrano in gioco, infatti, una molteplicità di inibizioni che impediscono di ribellarsi e provocano la sottomissione all’autorità.

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Chi rispose all’annuncio fu invitato in un laboratorio per compiere azioni in contrasto con la propria coscienza morale in modo crescente. Agli sperimentatori interessava capire fino a che punto i soggetti avrebbero obbedito agli ordini e quando e come si sarebbero ribellati. Per rendere particolarmente credibile la situazione predisposta, fu utilizzata una particolare strategia: fu inscenato un esperimento che aveva come obiettivo fittizio lo studio dei processi di memoria e di apprendimento; con un finto sorteggio ai soggetti ingenui venne sempre attribuito il ruolo di insegnante e al complice dello sperimentatore quello di allievo. Il ricercatore informava entrambi che si trattava di un esperimento finalizzato a studiare gli effetti delle punizioni sull’apprendimento. L’allievo era condotto in una stanza, fatto sedere con le mani legate affinché fosse visibile che gli veniva impedita la libertà di azione e sul polso gli si applicava un elettrodo; il tutto assomigliava ad una sedia elettrica. Il compito dell’allievo era quello di apprendere alcune associazioni di parole, ma ad ogni errore di memoria riceveva apparentemente una scossa elettrica di intensità crescente (Cortese, Spagnolo, 2013, 6-7).

L’insegnante, il vero soggetto sperimentale, dopo aver assistito alla sistemazione dell’allievo, si accomodava in una stanza adiacente dinanzi ad un falso generatore di corrente elettrica “composto da trenta interruttori con etichette che indicavano l’intensità della scossa elettrica: dai 15 volt ai 450 volt. Inoltre, sotto gli interruttori vi erano anche delle definizioni verbali come «scossa lieve», «scossa intensa» e «pericolo: scossa grave»” (Da Sacco, 2015, 6). L’insegnante percepiva la scossa del terzo interruttore (45V) in modo da convincersi personalmente che non vi erano finzioni. I suoi compiti erano quelli di leggere coppie di parole (per esempio: “scatola azzurra”) e chiedere all’allievo quale fosse l’associazione corretta tra quattro alternative (per esempio: “azzurra: auto, acqua, scatola, lampada”). L’allievo doveva rispondere alle domande abbassando uno dei 4 interruttori posti davanti a sé, collegati a 4 segnali luminosi visibili dall’insegnante. In caso di risposta sbagliata, l’insegnante doveva infliggere una punizione, aumentando l’intensità della scossa ad ogni errore dell’allievo (Milgram, 1975, 36-37).

L’obiettivo di Milgram era quello di osservare fino a che punto l’insegnante avrebbe accettato di esercitare violenza su una persona che manifestava la volontà di difendersi, interrompendo le prove, e impossibilitata a farlo poiché legata. Il conflitto tra coscienza morale e ordini ricevuti, visibile attraverso la sudorazione, il mordersi le labbra, il balbettio o la risata nervosa, si innescava quando l’allievo, fingendo, esprimeva il proprio malessere: a 75 volt si udivano i primi lamenti, a 120 le forti grida di protesta, a 150 la richiesta che l’esperimento venisse sospeso, a 270 grida strazianti di agonia e da 300 in poi non si udivano più né voci né grida, ma soltanto silenzio (Milgram, 1963, 371-375). Quando qualche insegnante manifestava perplessità a continuare, lo sperimentatore gli ordinava di continuare dicendogli che la responsabilità non era la sua e rassicurandolo che nonostante le scosse elettriche fossero estremamente dolorose, non provocavano danni permanenti ai tessuti. L’esperimento cessava quando l’insegnante si rifiutava di proseguire o quando somministrava almeno tre scariche di massima intensità.

Come si comportarono i partecipanti all’esperimento? I risultati furono sorprendenti. Pur manifestando tensione e protestando vivamente, i 40 soggetti sperimentali cedettero all’autorità dello sperimentatore, mettendo a tacere la propria coscienza, incuranti del dolore delle vittime, somministrando tutti la scossa di 300 volt; addirittura il 62,5% (26 partecipanti) continuò fino alla scarica da 450 volt (Attili, 2011, 197). Confrontando i risultati dell’esperimento con i test di personalità a cui precedentemente erano stati sottoposti i partecipanti, Milgram non riscontrò alcuna differenza tra coloro che avevano obbedito allo sperimentatore, arrivando alla fine dell’esperimento, e coloro che si erano, invece, fermati alla scarica dei 300 volt, deducendone che i partecipanti erano stati obbedienti non perché sadici o persone particolarmente crudeli (Aronson, 2006, 43).

Con questo esperimento Milgram riuscì a mostrare al mondo intero che le giustificazioni addotte da Adolf Eichmann e dagli altri torturatori dei lager nazisti, di essersi limitati ad eseguire gli ordini dei propri superiori, anestetizzando la propria coscienza, non erano pretestuose. Ne deriva che l’autorità può indurre qualsiasi persona normale a perpetrare crimini distruttivi.

Le condizioni per l’obbedienza

La procedura appena descritta illustra la condizione standard dell’esperimento ma, per comprendere al meglio il nostro argomento, è necessario analizzare le diverse varianti introdotte (diciassette), per identificare quali siano le condizioni che influenzano il comportamento di obbedienza.

La variabile più importante riguarda la vicinanza dell’autorità e il grado di sorveglianza. Quando lo sperimentatore lasciava il laboratorio e continuava ad impartire i propri ordini per telefono, il livello di obbedienza calava dal 65 al 20,5% (Faina, Pacili, Pagliaro, 2012, 46). Addirittura, molte persone che continuavano con l’esperimento imbrogliavano: somministravano scosse di intensità inferiore senza avvertire lo sperimentatore. Probabilmente perché i soggetti dall’istante in cui entravano nel laboratorio si sentivano orientati più verso lo sperimentatore che verso la vittima; infatti, si ritrovavano in un ambiente allestito dallo sperimentatore e non dalla vittima, inoltre, non erano venuti “tanto per capire un comportamento, quanto per svelare un comportamento a uno scienziato competente” (Milgram, 1975, 87-88).

Milgram scoprì, anche, che con l’aumentare della distanza fra insegnanti ed allievi, aumentava anche la volontà dei partecipanti di obbedire agli ordini. Per verificare ciò, egli creò quattro situazioni sperimentali. La prima, quella della “vittima remota”, è la condizione di base già descritta, nella quale la vittima è in un’altra stanza e manifesta la prima reazione quando subisce la scossa da 75 volt. La seconda condizione si differenzia dalla prima soltanto perché la “vittima” invia reazioni vocali di protesta crescente. Nella terza condizione, detta di “prossimità”, la “vittima” e il soggetto sperimentale sono seduti vicini nella stessa stanza. Infine, nell’ultima condizione, detta di “prossimità di contatto”, la “vittima” per essere punita deve mettere la mano su una piastra metallica attraverso cui riceve la scossa elettrica. I risultati mostrarono una progressiva riduzione delle percentuali di obbedienza all’aumentare della vicinanza della vittima (Mannetti, 2002, 314). Tutto ciò, quindi, che è in grado di ridurre la vicinanza tra azione e vittima inibisce la voce della coscienza e rende più semplice l’esecuzione del compito violento. “È questa la ragione per cui le armi che si utilizzano al giorno d’oggi nei conflitti sono progettate in modo da evitare la vicinanza o il contatto con la vittima e permettere a chi le usa di rimanere indifferente alla sofferenza di quest’ultima” (Aronson, 2006, 46).

Per verificare quanto la legittimità dell’autorità influisse sul comportamento obbediente, Milgram sostituì lo sperimentatore, che si presentava come ricercatore scientifico, con un complice che si presentava come una persona comune. L’obbedienza si ridusse del 48%. È evidente, allora, come non fosse tanto importante la sostanza dell’ordine quanto la sua fonte, infatti, un ordine impartito da una persona di status equivalente non era preso seriamente in considerazione come quello proveniente da uno sperimentatore di status superiore. Fu anche verificata l’influenza del prestigio della sede universitaria che sponsorizzava l’esperimento (Yale), installando un altro laboratorio in un vecchio edificio abbandonato; in questo caso si riscontrò una lieve riduzione della percentuale di obbedienza che passò dal 65 al 48%. Sembra quindi che sia più rilevante il prestigio della persona che impartisce gli ordini piuttosto che quello della sede dell’esperimento (Pedon, 2011, 122).

Anche le incongruenze nella struttura sociale tendono a ridurre la pressione dell’autorità. Nessun partecipante ha mai inflitto la scossa finale quando, ad esempio, riceveva ordini contrastanti (interrompere/continuare) provenienti da due diversi sperimentatori, oppure lo sperimentatore assumeva egli stesso il ruolo di allievo/vittima e chiedeva di interrompere l’esperimento.

L’importanza delle possibili conseguenze della disobbedienza assumono un ruolo rilevante ai fini dell’obbedienza. Infatti, quando è chiaro che ad una trasgressione seguirà una punizione, le disobbedienze saranno più rare. La presenza di sanzioni legali, inoltre, rende chiaro che l’azione non è il frutto di una scelta ma è un obbligo (Faina, Pacili, Pagliaro, 2012, 46).

Un impatto non trascurabile ha, anche, la percezione della propria responsabilità. Milgram, infatti, verificò che più è chiara la responsabilità personale, più il soggetto cercherà di evitare azioni criminose; mentre, sentirsi deresponsabilizzato dei propri atti aumenta l’obbedienza. “Quando un complice dello sperimentatore somministrava le scariche elettriche avvalendosi dell’aiuto del soggetto sperimentale, il quale quindi non era coinvolto in prima persona, l’obbedienza saliva persino al 93%” (Da Sacco, 2015, 9).

Negli esperimenti finora descritti erano stati impiegati soltanto soggetti maschili; Milgram decise, allora, di studiare il comportamento di quaranta donne soltanto nel ruolo di insegnanti. Sebbene le ricerche, fino a quel momento, avessero descritto le donne come dotate di maggiore empatia e, quindi, ci si poteva aspettare una maggiore resistenza ad inviare le scosse, il livello di obbedienza, in realtà, risultò uguale a quello degli uomini, anche se provarono un conflitto più alto rispetto ai soggetti maschili (Milgram, 1975, 89-90).

Un’ultima variabile verificata fu la presenza di dissidenti. Milgram verificò quanto già scoperto attraverso gli esperimenti classici sul conformismo e cioè che, quando una o più persone si rifiutano di obbedire agli ordini, esse agiscono come sostegno sociale per la persona e ne rafforzano le capacità trasgressive. Ciò non significa che si risvegli la coscienza morale del “carnefice”, quanto piuttosto che l’influenza dell’autorità veniva sostituita da una pressione al conformismo.

Zimbardo: la deindividuazione

Nel 1971 Zimbardo mise a punto un originale disegno di ricerca, noto come Esperimento della prigione di Stanford, allo scopo di studiare il fenomeno della deindividuazione” (Cortese, Spagnolo, 2013, 47). L’autore, sulla scia degli studi classici di Le Bon, Tarde e Sighele, ha ripreso il concetto di deindividuazione, già utilizzato con un altro significato da Festinger, Pepitone e Newcomb, per designare quel processo psicologico in cui alcuni fattori, riducendo l’identificabilità sociale e l’autoconsapevolezza dell’individuo all’interno di un gruppo, rende possibili comportamenti che normalmente sarebbero inibiti. Fra questi fattori vi è per esempio la perdita della responsabilità personale, l’indebolimento del senso di colpa, della vergogna e della paura. La deindividuazione implica, quindi, una diminuita consapevolezza di sé e un’aumentata identificazione con gli scopi e le azioni del gruppo (Zimbardo, 2008, 330-331; 441-442). Come dimostra il suo esperimento, si tratta di “uno dei processi centrali nella trasformazione di persone normali, comuni, in perpetratori di male indifferenti, o persino gratuiti” (ivi, XXVIII-XXIX).

L’idea che ha spirato il celebre esperimento di Philip Zimbardo era quella di confutare una credenza assai diffusa nel senso comune alla fine degli anni ’60, secondo cui i comportamenti degradati e violenti osservabili all’interno di un’istituzione come il carcere sono soprattutto dovuti a caratteristiche personali disfunzionali, innate o apprese, dei carcerati e delle guardie, dimostrando, invece, come tali condotte dipendessero dalle specifiche caratteristiche della situazione (Aronson, 2006, 10-11).

La ricerca fu realizzata durante l’estate del 1971 nel seminterrato dell’Istituto di psicologia dell’Università di Stanford a Palo Alto, dove fu riprodotto fedelmente l’ambiente di un carcere. L’obiettivo degli sperimentatori era quello di studiare le dinamiche intergruppi tipiche del carcere eliminando quelle differenze disposizionali fra carcerati e guardie che di solito si riscontrano nella vita reale. La durata dell’esperimento non doveva superare le due settimane. La tecnica di indagine utilizzata consisteva nell’osservazione diretta del comportamento e delle interazioni dei soggetti sperimentali unita alla raccolta di resoconti personali (Cortese, Spagnolo, 2013, 47).

Per dimostrare la fragilità della spiegazione delle condizioni carcerarie basata su fattori disposizionali, Zimbardo selezionò attentamente i partecipanti al suo esperimento. Tra i 75 studenti universitari che avevano risposto al suo annuncio pubblicato su un quotidiano (“Si cercano volontari per un esperimento sulla vita carceraria, 15 dollari al giorno. L’esperimento durerà due settimane”), Zimbardo selezionò 24 partecipanti che sulla base di approfonditi test psicologici furono giudicati normali, rappresentativi dei maschi di classe media, intelligenti e giovani. Vennero poi assegnati con procedure casuali a svolgere il ruolo della guardia oppure quello del prigioniero (Haney, Banks, Zimbardo, 1973, 73).

Per rendere la simulazione il più realistica possibile, venne coinvolto il Dipartimento di Polizia di Palo Alto, che intervenne con alcuni agenti reali per arrestare metà dei partecipanti, prelevandoli nelle proprie case. Dopo essere stati perquisiti, fotografati e ammanettati furono condotti, bendati, nelle celle della finta prigione a cui erano stati assegnati. All’altra metà dei partecipanti, le guardie, venne dato il comando della prigione (Zimbardo, 2008, 48-56).

I prigionieri furono obbligati ad indossare delle divise sulle quali era cucito un numero sia davanti che dietro, un berretto di plastica e fu loro posta una catena ad una caviglia. Le guardie indossavano uniformi cachi, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardarle negli occhi ed erano dotati di manganello, fischietto e manette. Questo abbigliamento, per entrambi i gruppi, favoriva l’instaurarsi di una condizione di deindividuazione (Haney, Banks, Zimbardo, 1973, 75-76).

Le guardie non ricevettero alcun addestramento particolare, gli fu impartita la semplice istruzione di mantenere l’ordine, far osservare la legge e farsi rispettare dai prigionieri; inoltre, una volta iniziata la situazione, gli sperimentatori non intervennero più. I prigionieri, invece, dovevano attenersi a diverse regole: “rimanere in silenzio durante i periodi di riposo […]; mangiare all’ora dei pasti e solo all’ora dei pasti; partecipare a tutte le attività della prigione; tenere pulita la propria cella […]; non spostare, manomettere, deturpare o danneggiare pareti, soffitti, finestre, porte o qualsiasi proprietà della prigione; non accendere o spegnere mai la luce in cella; rivolgersi l’uno all’altro solo con il numero di matricola; rivolgersi sempre alle guardie chiamandole «Signor agente penitenziario»; non usare mai i termini «esperimento» o «simulazione» per definire la loro situazione” (Zimbardo, 2008, 62-63). Ogni trasgressione sarebbe stata severamente punita; agli agenti era data ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine.

L’esito sorprendente di questa simulazione fu che essa dovette essere interrotta dopo soli 6 giorni, ben prima delle 2 settimane previste, perché il trattamento dei prigionieri da parte delle guardie era molto più aggressivo e disumanizzante di quanto si potesse prevedere. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie. Le guardie, allora, passarono alle maniere forti: spruzzarono il contenuto di un estintore in ogni cella per costringerli ad uscire. Utilizzarono, inoltre, strategie psicologiche per interrompere il legame di solidarietà che si era creato tra i detenuti, ad esempio preparando una cella speciale in cui potersi lavare e dormire su una branda, nella quale, però, furono accolti soltanto i tre detenuti meno coinvolti nella rivolta. I prigionieri venivano spesso costretti a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare e a pulire i gabinetti a mani nude. In questo clima che si era creato, alcuni detenuti cominciarono a manifestare seri disturbi emotivi (confusione mentale, crisi di pianto, urla incontrollabili) e furono, quindi, allontanati dal carcere. Ci fu, anche, un tentativo di evasione che a stento il direttore del carcere, lo stesso Zimbardo, riuscì a contenere. Al quinto giorno i detenuti mostrarono gravi segni di compromissione del loro rapporto con la realtà: il loro comportamento era docile e passivo, mentre le guardie continuavano a comportarsi in modo esaltato, dispotico e sadico. Quando i ricercatori decisero di interrompere l’esperimento i carcerati ne furono enormemente soddisfatti, mentre le guardie mostrarono un vivace disappunto. Lo stesso Zimbardo, al termine dell’esperimento, ammise di aver perso il controllo della situazione dimenticando il suo ruolo di responsabile scientifico della ricerca e comportandosi come un vero e proprio Direttore di carcere inebriato dall’eccesso di potere attribuito (Cianciabella, 2014, 29-35).

Come si spiegano le reazioni dei soggetti? Come si spiega che i detenuti hanno perso parte della loro identità personale e che le guardie sono diventate sempre più aggressive e disumane? “Secondo l’opinione di Zimbardo, nell’esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, la “finta” era diventata una “vera” prigione” (Cortese, Spagnolo, 2013, 49). Pertanto, coloro che avevano ricevuto una funzione di controllo sugli altri, assunsero le norme e le regole del gruppo (le guardie) e dell’istituzione (il carcere) di appartenenza come unico riferimento a cui adeguare la propria condotta. In altre parole, essi persero il senso della propria identità individuale e si deindividuarono, assumendo i comportamenti prescritti per quel ruolo, in quel gruppo e in quel contesto. D’altra parte, la perdita dell’autonomia personale e della capacità di resistere da parte dei detenuti non possono essere spiegate sulla base di eventuali differenze individuali, perché erano state verificate all’inizio dell’esperimento, ma soltanto alla luce dei fattori situazionali che hanno generato in loro un senso di impotenza e di rassegnazione.

Il mito del conformismo secondo Haslam e Reicher

L’impegno dei due studiosi ad approfondire il fenomeno del conformismo, nasce dall’esigenza di scalfire la fortuna del concetto di banalità del male, che gli studi di Milgram e di Zimbardo avevano, direttamente o indirettamente, consacrato, ma che rischiava di diffondere nella collettività l’idea, alquanto allarmante, che le persone inevitabilmente soccombono alle pressioni autoritarie (Haslam, Reicher, 2008, 17-18).

The BBC Prison Study

Conosci veramente te stesso?” Con questo breve annuncio, apparso sui giornali britannici il 15 ottobre 2001, un team di psicologi cercava adulti maschi per un esperimento di scienze sociali. Ai volontari nessun compenso in denaro, soltanto la gratificazione che l’evento sarebbe stato trasmesso, nel maggio del 2002, dalla BBC. L’inserzione prometteva esperienze estreme, come lavori estenuanti, soffrire la fame e la solitudine, provare forti emozioni negative, e la certezza che questo esperimento avrebbe modificato il modo di pensare dei partecipanti (Zamperini, 2004, 94).

Per un periodo di 8 giorni, lo studio ha esaminato il comportamento di 15 uomini, disposti e coordinati secondo una gerarchia sociale di guardie e prigionieri, in un ambiente appositamente costruito e disposto per il piano dell’indagine (Reicher, Haslam, 2006, 7). La struttura sperimentale era stata organizzata e sistemata in modo tale che ogni partecipante potesse essere audio-video-registrato ovunque ed in qualsiasi momento. Anche la scelta del campione è stata sistematica e ha cercato di rispettare alcuni principi in linea con il tentativo di influenzare al minimo gli esiti dello studio. Un aspetto significativo della selezione dei candidati è stato quello di coinvolgere individui con caratteristiche pro-sociali e che avevano ottenuto punteggi bassi nelle scale cliniche relative alla dimensione sociale (ivi, 9). Questa tipologia di scelta aveva un obiettivo ben definito: nel caso tali peculiari circostanze avessero prodotto nei soggetti delle condotte aggressive ed antisociali, allora si sarebbe potuto avvalorare l’idea che il male e la deindividuazione potessero davvero diffondersi in modo semplice nell’umanità.

Dunque, a fronte di ciò, i 15 partecipanti sono stati divisi in 5 gruppi da 3. La ripartizione e la scelta dei gruppi è stata fatta sulla base della conformazione tra i membri a variabili di personalità potenzialmente implicate nella tirannia (razzismo, autoritarismo e dominanza sociale); mentre invece la scelta delle guardie (una per ciascun gruppo) è stata fatta in modo randomizzato (ivi, 9-10).

Esiste un rapporto di equivalenza tra la prigione di Stanford e quella della BBC? La risposta è no! Si tratta in entrambi i casi di simulazioni della realtà, in cui l’ingresso dei partecipanti è stato assolutamente volontario; tuttavia, mentre il seminterrato di Zimbardo si avvicina molto ad un’istituzione totalizzante, la prigione della BBC è stata progettata soprattutto per rappresentare comuni organizzazioni gerarchiche, luoghi dove si vivono relazioni asimmetriche tra superiori e subalterni, una caserma o un ufficio ad esempio. L’obiettivo generale della ricerca “era manipolare i fattori che potevano avere un’influenza sul grado di identificazione sociale dei prigionieri ed esaminare l’impatto sul comportamento di entrambi i gruppi e sul funzionamento del sistema nel suo complesso” (Haslam, 2015, 343).

Nel dettaglio, gli obiettivi individuati dai ricercatori sono stati quattro: 1) fornire informazioni esaurienti e scandagliate circa le dinamiche interattive tra gruppi con poteri differenti; 2) analizzare i presupposti con cui le persone si definiscono secondo il proprio senso d’appartenenza e accettano e/o rifiutano le disuguaglianze tra i gruppi; 3) esaminare i rapporti tra fattori sociali, organizzativi e clinici nel comportamento di gruppo; 4) ideare dei protocolli che possano fornire un quadro pratico ed etico per l’esame di problemi psicologici di natura sociale su larga scala (Reicher, Haslam, 2006, 7).

Uno studio di registrazione si apprestava a diventare una prigione di vetro. In una fase iniziale, venne comunicato alle 5 guardie scelte che vi erano una serie di compiti e di attività che dovevano far rispettare ai prigionieri; qualora questi ultimi non avessero rispettato i propri doveri, potevano essere puniti, ma senza usare violenza. Oltre questo, non venne data loro alcuna indicazione o suggerimento su come avrebbero dovuto raggiungere i propri obiettivi (ivi, 10-11).

Il giorno prestabilito, i protagonisti dell’esperimento, trasportati da automobili con i vetri oscurati, giunsero a destinazione. All’interno della struttura furono introdotti soltanto nove prigionieri, per poter sperimentare come variabile successiva l’introduzione di un decimo elemento appositamente scelto. Venne comunicato alle guardie, che agli studiosi era sfuggita tra i carcerati, una potenziale guardia, un individuo che aveva qualità per ricoprire tale ruolo, e che essi avrebbero dovuto identificarlo e promuoverlo. Tale promozione era prevista per il terzo giorno, eventualità comunicata anche agli stessi prigionieri attraverso l’altoparlante. La finalità di tale stratagemma era quella di indurre i partecipanti a credere che il movimento tra i gruppi fosse possibile. Dopo la promozione di un prigioniero a guardia, effettivamente avvenuta, la possibilità di movimento è stata rimossa, annunciando che non ci sarebbero state ulteriori promozioni (ivi, 11).

Durante il quinto giorno, fu introdotto il decimo prigioniero, che nella sua vita vantava una serie di esperienze come sindacalista; “inserendo tale soggetto – affermano gli sperimentatori – ci aspettavamo che avrebbe introdotto nel carcere una nuova prospettiva basata sulla negoziazione tra i gruppi-base e dei pari diritti nella collettività; […] è stato anche pensato che potesse fornire le competenze necessarie per organizzare l’azione collettiva” (ivi, 11-12). Le previsioni, dunque, erano che il suo ingresso, poiché isolato dalla trama dei rapporti interpersonali che si erano sviluppati fino a quel momento, avrebbe permesso ai prigionieri e più in generale a tutti i partecipanti di realizzare relazioni sociali più eque e pacifiche.

È chiaro, dunque, come i due ricercatori non fossero interessati alla vita carceraria in sé, piuttosto cercavano di creare un luogo dove fossero evidenti le differenze di potere e di status tra i due gruppi, allo scopo di osservare e verificare le dinamiche della tirannia e della resistenza. Il fine era quello “di capire quando le persone ricorrono al proprio potere per difendere o fondare un sistema sociale iniquo e quando invece agiscono per sfidarlo o abbatterlo” (Zamperini, 2004, 97). Oltre all’osservazione del comportamento, durante lo studio sono state ottenute risposte su diverse misure sociali, organizzative e cliniche. Ad esempio, quotidianamente i ricercatori monitoravano i singoli partecipanti, tramite una serie di valutazioni psicologiche e test di rilevazione del cortisolo, per raccogliere dati in merito alle manifestazioni di stress.

I nuovi risultati: la scelta di obbedire e il potere di resistere

I risultati ottenuti hanno rivelato aspetti, processi e questioni completamente disparate da quelle di Milgram e di Zimbardo. Nello specifico, si possono distinguere due fasi principali degli esiti di questo lavoro: la prima fase ha comprovato il rifiuto della disuguaglianza tra i gruppi; la seconda, invece, ha messo in evidenza le condizioni che possono favorire la nascita di un sistema di disuguaglianze, dai tratti crudeli e tirannici.

Fin dall’inizio i prigionieri sono stati chiaramente insoddisfatti delle loro condizioni di inferiorità. Molti, come previsto alla luce della permeabilità dei confini del gruppo, hanno cercato di migliorare la propria condizione, mettendo in mostra le singole qualità necessarie per ottenere la promozione, in contrasto, quindi, con la formazione di un’identità condivisa che aiutasse a raggiungere il consenso su alcune modalità comportamentali e a lanciare una sfida collettiva alle guardie (Reicher, Haslam, 2006, 12). Tuttavia dopo il terzo giorno e la promozione di un prigioniero, i detenuti cominciarono a sviluppare un maggior senso di appartenenza e un più forte senso di identità sociale condivisa. Tutto ciò è dimostrato dalla transizione dell’azione individuale verso una più forte identificazione con l’azione collettiva nel conflitto con le guardie, oltre che dalla formazione di norme condivise all’interno del gruppo.

Per quanto riguarda le guardie, i ricercatori prevedevano di ottenere risultati simili a quelli di Zimbardo, ovvero che, fin da subito, si sarebbero identificate con il loro alto status e con il loro gruppo valutato positivamente all’interno del carcere. Tutto ciò, però, non è accaduto: diverse guardie, sin dall’inizio, sono state diffidenti ad assumere e ad esercitare la loro autorità e di conseguenza ad interiorizzare l’identità assegnata dagli sperimentatori. La spiegazione di tutto ciò risiede nel fatto che la nascita e lo sviluppo di un forte senso d’identità condivisa da parte dei prigionieri e la percezione dell’impermeabilità dei confini, avevano, in qualche modo, compromesso il senso di identità collettiva delle guardie, le quali a poco a poco facevano affiorare le loro fragilità. Di conseguenza, l’incapacità delle guardie di concordare norme e priorità di gruppo, ha fatto sì che non si fidassero reciprocamente e che agissero in modo discordante. Si sono sentiti (e sono stati) deboli, incoerenti ed inefficaci come gruppo. Già al quarto giorno, i prigionieri cominciarono a maturare l’idea che potevano opporsi all’egemonia delle guardie. Ad accentuare questo aspetto fu proprio l’introduzione all’interno del gruppo, del detenuto “sindacalista” il quale, con il suo contributo, aveva offerto ulteriori alternative cognitive per i carcerati nella rivendicazione delle proprie prerogative (Haslam, Reicher, 2012a, 160).

Anche rispetto alla percezione dell’auto-efficacia si registrò un capovolgimento ed un mutamento direttivo all’interno dei due gruppi. Ormai le guardie apparivano divise, demoralizzate ed esauste, tanto che, al termine del sesto giorno, i detenuti di una cella, disobbedendo all’ordine di rientrare, occuparono i quartieri adibiti per gli agenti (Reicher, Haslam, 2006, 21). I detenuti, infatti, erano in grado di organizzarsi in modo efficace, mentre le guardie non erano in grado di contrastarli. A questo punto, il regime delle guardie era ormai impraticabile e alla fine.

La seconda fase dell’esperimento ha rivelato risultati molto interessanti. Dopo il crollo dei due schieramenti e della conseguente gerarchia guardie-prigionieri, tutti, tranne due partecipanti, si accordarono perché l’esperimento continuasse attraverso l’istituzione di un unico autogoverno comune. Chiesero, pertanto, di incontrare gli sperimentatori per poter negoziare nuovi diritti e privilegi. Un certo numero di partecipanti, che erano stati reciprocamente ostili, quando divisi in prigionieri e guardie, iniziarono a formare forti e positivi legami affettivi, essendo stati ricategorizzati come parte di un unico gruppo. Si era, cioè, creata un’identità condivisa, in cui non esisteva più il noi, virtuoso e positivo, e il loro, ricettacolo di difetti e di negatività, ma l’essere membro di un unico gruppo, socialmente importante, forniva quel riconoscimento, magari irraggiungibile singolarmente, grazie al quale essi percepivano di contare qualcosa gli uni per gli altri.

Accadde, però, che gli stessi protagonisti della caduta del vecchio regime, iniziarono a sentirsi emarginati in questo nuovo sistema perché non riuscivano a contribuire ai compiti collettivi; cominciarono, così, a violare le regole comuni e a complottare per capovolgere il nuovo sistema di governo. Il giorno seguente, infatti, manipolando l’insoddisfazione dei compagni, creatasi a seguito di una colazione poco abbondante e di scarsa qualità, interpretata, erroneamente, come una disapprovazione da parte degli sperimentatori del nuovo sistema comune, un gruppo di partecipanti (composto da una ex-guardia e da tre ex-detenuti), istituì un nuovo regime gerarchico, ancora più severo e rigido del precedente (ivi, 23-24). Alla fine, gli sperimentatori verificarono che la comune non era in grado di funzionare e che non si poteva imporre una dittatura senza l’ausilio della forza. Per ragioni di natura etica, dunque, l’esperimento fu concluso a mezzogiorno dell’ottavo giorno, uno prima dei dieci programmati.

Questo studio è stato progettato per esaminare come le persone rispondono quando viene loro imposto un sistema di disuguaglianza da parte di altri: accettano o sfidano l’iniquità? All’inizio, quasi tutti i partecipanti hanno respinto questo sistema; tuttavia, alla fine, erano vicini ad istituire un nuovo e più tirannico sistema sociale. Lo studio, però, ha sollevato un nuovo ed inaspettato problema. Quali sono le condizioni in cui le persone creano un sistema di disuguaglianza per se stessi? I risultati ottenuti mostrano che, da un lato, i gruppi sono la base per una collettiva auto-realizzazione, cioè, per la creazione di un ordine sociale basato su valori e norme condivisi, d’altro canto, se i gruppi falliscono, le persone saranno più inclini ad accettare l’imposizione di un ordine sociale da parte di altri, anche se viola i loro valori e le loro norme. “Pertanto, a differenza di quelli che spiegano la tirannia e altri fenomeni sociali estremi in termini di disfunzionalità psicologica dei gruppi, noi li interpretiamo in termini di disfunzionalità del fallimento di gruppo” (ivi, 26). Inoltre, un fattore centrale e decisivo per l’evoluzione degli avvenimenti è stato quello della permeabilità ed impermeabilità percepita dei rispettivi ruoli. Infatti, l’eventualità di modificare la propria posizione ha influenzato notevolmente il processo di identificazione dei detenuti, processo avvenuto in seguito all’individuazione del soggetto “guardlike”. Dunque, essi hanno agito secondo il senso di appartenenza collettiva solo ed esclusivamente quando si sono identificati tra di loro. Nonostante ciò, l’identità di gruppo non ha portato, poi, al consenso dei nuovi rispettivi ruoli, ma ha gettato, invece, le fondamenta per un’ulteriore resistenza.

Questo esperimento dimostra come l’autoritarismo sia un risultato variabile a seconda delle strutture sociali. Infatti, in contrasto con l’idea che la tirannia sia l’esito “naturale” di situazioni in cui alle persone normali vengono assegnati ruoli che permettono di esercitare potere sugli altri, i risultati di questo studio suggeriscono un’analisi molto diversa. In primo luogo, gli individui si spostano verso la tirannia soltanto quando si identificano con i propri ruoli. In secondo luogo, questo senso di identificazione deve essere sviluppato e condiviso con gli altri membri del gruppo e rafforzato attraverso l’interazione di gruppo. In terzo luogo, affinché si creino le condizioni per la tirannia è necessaria la presenza di una leadership attiva, che sia radicata nell’identità condivisa e che favorisca l’individuazione degli interessi collettivi all’interno del contesto (Haslam, Reicher, 2012a, 159).

Lo studio della BBC Prison evidenzia come quei processi che conducono gli individui ad assumere una posizione rilevante nei sistemi di oppressione, siano gli stessi che consentono ad altri di opporsi ai regimi autoritari. L’identità sociale collettiva, dunque, fa da garante non solo per la tirannia ma anche per un’eventuale opposizione.

Inoltre, la ricerca ha fatto luce su ulteriori aspetti argomentati tramite un’analisi longitudinale dei processi coinvolti tanto nella resistenza quanto nell’esaurimento delle guardie, approfondimento che ha cercato di fornire una più precisa comprensione da un punto di vista psicologico-sociale della fisiologia dello stress (Haslam, 2015, 344). Infatti le reazioni e le condotte delle guardie dinanzi al compito sempre più impegnativo di preservare l’ordine all’interno dell’ambiente carcerario ha proprio indicato l’excursus di tale risposta psico-fisica. A seguito di tale osservazione e dei risultati perseguiti, la fisiologia dello stress può essere intesa come un aspetto di un processo contestuale sociale determinato dalle contingenze della vita di gruppo e concorre per influenzarla (ibidem).

Tre fattori, secondo Haslam e Reicher, sembrano essere fondamentali nel determinare l’emergere o meno dell’identità sociale condivisa. Il primo è una comune esperienza di subordinazione, in questo esperimento nelle mani dei funzionari della prigione, che induce sia un senso di destino comune sia un forte senso di opposizione verso l’esterno e verso gli altri gruppi. Infatti, l’esistenza di uno schieramento contrastante, la condivisione di uno stesso ruolo, di alcune circostanze peculiari e magari insoddisfacenti, spingono i soggetti a ritrovarsi nel sostegno reciproco e nell’adesione a comuni idee e convinzioni. Come emerso dallo studio, ci sono momenti in cui azioni specifiche da parte delle autorità possono servire per aumentare l’esperienza e il senso di comunione. Tuttavia, esistono anche diverse strategie, non emerse, però, dalla ricerca, che le autorità carcerarie possono e devono deliberatamente usare per minare l’esperienza condivisa, l’identità comune, e la resistenza (Haslam, Reicher, 2012a, 168). Il secondo fattore è il tempo: più a lungo i membri di un gruppo stanno insieme, più alta è la probabilità che si creino quelle condizioni che permettono la formazione di un’identità sociale condivisa. Postmes e colleghi hanno fatto notare che un’identità collettiva è un processo graduale che nasce dal basso verso l’alto; è l’esito delle modalità con cui le persone osservano ed interagiscono con gli altri membri, vedono e percepiscono condivisione del proprio destino con quello degli altri e dei processi di auto-comprensione (Postmes, Haslam, Swaab, 2005, 6-8). Il terzo fattore è rappresentato dalla permeabilità dei confini. Questo studio ha dimostrato che non è affatto sufficiente avere esperienza comune con gli altri per identificarsi con loro; è necessario, infatti, che i confini dei ruoli siano percepiti invalicabili. La permeabilità dei confini, infatti, fa riferimento alla possibilità o meno di far progressi rispetto alle radici comuni. “La questione è se la nostra esperienza è necessariamente soggiogata a loro in futuro, così come nel presente. Dovremo sempre salire e scendere insieme, oppure possiamo, attraverso i nostri sforzi, migliorare il nostro destino e lasciare gli altri indietro?” (Haslam, Reicher, 2012a, 168). L’identificazione comune dipende dal credere che la mobilità personale sia una chimera e viene meno se si crede, invece, di poter reinventare se stessi affrancandosi dal gruppo. Nella prigione televisiva, ad esempio, dopo la promozione, il sistema diventò impermeabile. Indipendentemente dal comportamento agito dai detenuti, veniva meno qualsiasi transizione di ruolo, che non era, perciò, neppure pensabile. In simili circostanze, qualora le persone cerchino un cambiamento, tenderanno a raggiungerlo impegnandosi nel gruppo.

Quindi, secondo Haslam e Reicher, sia nella prigione di Stanford sia negli studi sull’obbedienza di Milgram, né l’autorità né il ruolo ricoperto possono sostituirsi all’azione dei singoli individui o possono, in qualche modo, porre condizioni in cui i soggetti si deresponsabilizzano rispetto ai propri comportamenti. “Il vero orrore di Eichmann è che egli credeva fermamente di agire per una giusta e grande causa. Questa è la differenza sostanziale che dovrebbe indurci ad abbandonare la nozione di banalità del male: l’azione di questi funzionari nazisti non deriverebbe da una meccanica sottomissione burocratica, bensì da un creativo zelo ideologico. Esiste insomma, a detta dei due psicologi inglesi, un fattore ‘entusiasmo’ troppe volte trascurato” (Burgio, Zamperini, 2013, 182-183).

Ciò significa che quando le persone compiono azioni malvagie lo fanno perché le considerano giuste, ma soprattutto perché si identificano attivamente con i gruppi la cui ideologia giustifica e tollera l’oppressione e la distruzione degli altri (Haslam, Reicher, 2008, 19).

In conclusione, “come quasi tutti gli studenti di psicologia (e insolitamente gran parte del pubblico in generale) conosce, il messaggio della Stanford Prison Experiment è che la combinazione tossica di gruppi e di potere porta alla tirannia. Le implicazioni della BBC prison study sono diverse. In accordo con i recenti sviluppi teorici della psicologia sociale, esse contestano la premessa che il comportamento di gruppo sia necessariamente incontrollato, senza cervello e antisociale. Al contrario, i risultati della BBC prison study suggeriscono che il modo in cui i membri di gruppi forti si comportano dipende dalle norme e dai valori associati con la loro specifica identità sociale e può essere sia anti- sia pro-sociale” (Reicher, Haslam, 2006, 33).

La replica di Zimbardo

Non si è fatta sicuramente attendere la risposta di Zimbardo, anche se, egli stesso riconosce che non è saggio intraprendere un dibattito pubblico con altri ricercatori, perché, in tal modo, si mina la credibilità della psicologia sociale. Tuttavia, con parole al veleno, egli afferma di essere intervenuto “più per evidenziare pubblicamente le carenze intrinseche che per difendere la mia ricerca; esagerate pretese e falsità perpetrate dalla loro insistenza di fare molto rumore per quello che non dovrebbe avere alcun merito scientifico” (Zimbardo, 2006, 47).

Le differenze tra i due esperimenti

Innanzitutto, Zimbardo afferma di essere stato originariamente contattato dallo staff della BBC, per essere il loro supervisore di uno show televisivo, durante il quale sarebbe stato replicato l’esperimento condotto con Craig Haney e Curt Banks nel 1971 e di essersi rifiutato. Poi, individua e descrive le differenze tra i due esperimenti.

La scelta del campione. Mentre i partecipanti all’esperimento del 1971 erano tutti giovani studenti universitari provenienti non solo da Stanford ma, anche, da altre città degli Stati Uniti e persino dal Canada; i soggetti dello studio realizzato per la BBC, invece, erano uomini più adulti e di diversa estrazione socio-culturale (Haney, Banks, Zimbardo, 1973, 73).

Le modalità di avvio della ricerca. Mentre l’esperimento di Zimbardo iniziò con un arresto simulato in grande stile da parte dei poliziotti di Palo Alto, in quello di Haslam e Reicher i soggetti sono giunti da soli come volontari presso la prigione (Zimbardo, 2008, 48-52).

L’organizzazione del setting. Per la prigione di Stanford era stata disposta una gerarchia autoritaria istituzionale, ben scandita e dettagliata, composta da una direzione soprintendente della prigione, da consulenti psicologici per guardie e carcerati, da una commissione per la libertà condizionale e da un’altra commissione per le misure disciplinari; inoltre, erano consentite le visite di un cappellano, dei genitori, degli amici e dei parenti dei carcerati (Cianciabella, 2014, 30-32). Niente di tutto questo è accaduto nell’esperimento di Reicher ed Haslam.

La disposizione delle regole. Nello studio di Stanford alle guardie furono date delle direttive circa le regole coercitive che avrebbero dovuto far rispettare all’interno del carcere per controllare e monitorare tutti gli aspetti comportamentali dei prigionieri; invece, in quello della BBC ciò non avvenne, nel senso che gli agenti dovevano solo assicurarsi che i prigionieri assolvessero ai propri compiti.

Le modalità di registrazione dell’esperimento. Nell’esperimento di Zimbardo, la video-registrazione era nascosta e mai evidente ai partecipanti, e nessuno portava microfoni, affinché non si persuadessero che fosse un esperimento e si comportassero realmente come in un carcere. Nell’altro esperimento, invece, era ovvio che ogni cosa veniva registrata in qualsiasi momento (Zimbardo, 2006, 49).

L’intervento dei ricercatori. Haslam e Reicher sono intervenuti diverse volte all’interno del setting sperimentale, introducendo diverse variabili (la più significativa è stata quella della permeabilità) e sottoponendo quotidianamente i partecipanti a test psicologici. Inoltre, come nel più classico dei reality show, vi era la presenza di un ‘confessionale’, dove i partecipanti potevano quotidianamente esprimere i propri sentimenti rivolgendosi direttamente alla telecamera (ibidem). A Stanford non c’è stato nulla di tutto ciò.

I principi basilari dell’esperimento. La ricerca di Stanford si basa su direttive psicologiche di reclusione modellate secondo i principi carcerari degli Stati Uniti, secondo cui le guardie hanno un’influenza coercitiva sui prigionieri; Haslam e Reicher, invece, hanno fondato il loro studio su un modello di negoziazione democratica tra i vari gruppi, dove il potere non risiede tutto negli agenti ma è più equamente distribuito (ibidem).

L’assegnazione randomizzata. La distribuzione di rispettivi ruoli, mansioni e compiti, in entrambi gli esperimenti, sembra essere casuale e marginale, ma poi, nel concreto, non è stato così. Nello studio della BBC, infatti, la ripartizione dei gruppi (in particolar modo quelli dei carcerati) è stata vincolata ad alcune variabili di personalità, che comunque possono incidere sull’evoluzione delle dinamiche interpersonali.

La retrocessione di alcuni partecipanti. Mentre nelle prigioni di Stanford alcuni prigionieri sono stati ritirati prima perché non riuscivano più a sopportare gli abusi, in quelle della BBC furono le guardie a venire meno nell’esercizio del loro potere (ibidem). Quest’ultimo aspetto, in particolare, suggerisce l’ulteriore differenza nella tipologia di stress a cui sono sottoposti individui di status diverso.

Zimbardo, ricordando il modo in cui l’esperimento della BBC si è concluso, ossia con i prigionieri che hanno dominato le guardie, si chiede: “qual è la validità esterna di tali eventi in una vera e propria prigione, in qualsiasi parte dell’universo conosciuto? In quali prigioni sono i prigionieri a comandare? Come potrebbe una tale eventualità manifestarsi?” (ibidem). Diverse volte e sin da subito, tuttavia, i due ricercatori inglesi hanno chiarito (2006, 7) che il loro intento, non era tanto quello di riproporre le medesime condizioni dell’esperimento di Stanford, ossia di ricreare una condizione simile a quella carceraria, quanto piuttosto quello di creare delle disuguaglianze tra i gruppi che fossero percepite come concrete per i partecipanti, analizzando, in tal modo, i meccanismi che avrebbe arrecato tale studio sperimentale. Vista la dissomiglianza sostanziale tra gli stessi obiettivi e condizioni dei rispettivi studi, è facile cogliere le possibili ed ammissibili discrepanze anche in termini di risultati.

Le criticità presenti nell’esperimento della BBC

Secondo Zimbardo, lo studio della BBC contiene nodi critici e limiti evidenti che ne mettono in discussione la validità. Le sue critiche, molto aspre, sono state rivolte alle seguenti caratteristiche:

La presunta assegnazione casuale dei soggetti ai gruppi: il background di provenienza dei detenuti era molto diverso da quello delle guardie; essi erano per lo più ex-tossicodipendenti, ex ufficiali militari, esperti in arti marziali e addetti alla sicurezza (Zimbardo, 2006, 51). Il gruppo dei prigionieri era costituito prevalentemente da soggetti che sapevano ben esercitare il loro potere e, soprattutto, la loro autorità. Ciò che Zimbardo vuole indicare è il fatto che la scelta dei presunti prigionieri non è stata casuale, poiché queste persone rispecchiano tutte le peculiarità che più sono vincolate, nell’immaginario collettivo, alla figura del detenuto. Infatti, la caratteristica più appariscente che distingueva i detenuti dalle guardie, era la presenza di tatuaggi sgargianti e ben visibili, che, non a caso, venivano spesso inquadrati dalle telecamere della BBC. Anche nell’esercizio del potere delle guardie emerge un fattore centrale, ossia la visibilità pubblica in TV dell’esperimento. Tra le guardie, infatti, vi era un dirigente milionario il quale, sapendo perfettamente che il suo comportamento sarebbe stato visibile a tutti, assunse il ruolo di “buona guardia”, mostrandosi conciliante e disposto a negoziare qualsiasi richiesta dei prigionieri. In sintesi, in questo studio non sembra esserci randomizzazione e il motivo è da rintracciare nella fruizione televisiva che avrebbe assunto dopo qualche anno (ivi, 50-51).

La mancata creazione di condizioni idonee per riproporre le dinamiche della prigionia. Questo fallimento dei ricercatori, secondo Zimbardo, nonostante milioni di sterline spese dalla BBC per costruire la prigione, non soltanto è sorprendente ma mina, anche, ogni tentativo di confronto con la prigione di Stanford, in cui si stabilì, invece, un autentico clima carcerario. Oltre a chiamare i partecipanti per le loro confessioni quotidiane, nella cosiddetta stanza del confessionale, gli stessi ricercatori sono stati una presenza costante e dominante all’interno del setting sperimentale. Frequentemente hanno fatto annunci attraverso l’altoparlante, hanno condotto valutazioni psicologiche quotidiane e, peggio ancora, hanno imposto interventi senza senso durante lo studio, chiaramente finalizzati ai valori della TV, in opposizione ai valori della scienza psicologica. Infine, nonostante il drammatico tentativo di creare anonimato, rasando i capelli dei prigionieri all’inizio dell’esperimento, non vi è stato alcun altro tentativo per creare condizioni di deindividuazione. Infatti, anche se ai prigionieri sono stati assegnati dei numeri identificativi, le guardie non si sono mai riferite a loro chiamandoli per numero, ma sempre con i loro nomi; al contrario di quanto accaduto, invece, durante la SPE (ivi, 51).

Il principio di indeterminazione di Heisenberg: a volte, l’atto stesso di misurare e registrare un fenomeno ne cambia la natura in modo imprevedibile. Il fattore “telecamera” può esercitare un’influenza non irrilevante sull’individuo e sullo sviluppo di alcune dinamiche. Ci sono scene, nella privacy delle celle, dove i prigionieri non parlano a testa alta tra di loro, ma nei microfoni posti nel bavero delle divise, per realizzare delle buone registrazioni. Allo stesso modo, nella cella di isolamento gli stessi detenuti tendono ad esprimere apertamente i loro sentimenti e i loro pensieri, violando in questo modo la natura “solitaria” di tale restrizione punitiva (ibidem).

Il reality cela la retorica: sia la variabile permeabilità sia l’introduzione successiva del decimo prigioniero in seguito alla promozione di uno di essi, sono dei fattori che rendono illegittimo tale studio. Secondo Zimbardo, questa tipologia di intervento ha cercato in tutti i modi, di pilotare i risultati e di convalidare i pregiudizi che i due ricercatori hanno rispetto alla tirannia, confermando, quindi, la loro visione evangelica del mondo.

La cautela rispetto ai dati: più volte i due ricercatori mettono in guardia i lettori nella valutazione e comprensione dei dati statistici. Essi, infatti, notando l’ampia interazione tra i partecipanti dei due gruppi differenti, hanno evidenziato il fatto che era il caso di considerare come unità di analisi statistica il gruppo stesso e non i singoli membri; nonostante tale avvertenza, l’elaborazione dei dati è stata fatta a livello dei singoli (ivi, 52). Dunque, anche in questo caso si assiste ad un dissenso della validità scientifica dello BBC study. “Forse la cautela più saggia è per il lettore quella di licenziare tutti i loro risultati come non interpretabili scientificamente” (ibidem).

Il conflitto tra i valori della scienza e quelli dei mass media. Zimbardo giudica profondamente poco scientifico tale studio, in quanto i valori vincolati al metodo strettamente scientifico, che coinvolgono anche il principio dell’imparzialità, non coincidono con quelli dei mezzi di comunicazione pubblici, poiché essi si fondano, principalmente, su quelli del profitto e dell’intrattenimento.

CONCLUSIONI

Il conformismo, come abbiamo visto, sia nella forma più conosciuta, inteso, cioè, come pressione della maggioranza che spinge il soggetto ad uniformare il proprio comportamento a quello degli altri, studiato da Sherif e da Asch, sia nella forma più particolare, inteso come obbedienza all’autorità, studiato da Milgram, sia in quella più subdola, inteso come deindividuazione, studiato da Zimbardo, è un fenomeno che affonda le sue radici in epoche molto lontane e che non ha di per sé una connotazione negativa, tanto che Gramsci esclamava: “Conformismo significa niente altro che ‘socialità’, ma piace impiegare la parola ‘conformismo’ appunto per urtare gli imbecilli” (Gramsci, 1966, 26-27).

Secondo questi autori, la causa del conformismo risiede nelle variabili situazionali, le uniche in grado di determinare il comportamento umano. In tal modo, l’essere umano è finito per diventare un burattino, inconsapevolmente in preda alle circostanze, di cui è possibile prevederne il comportamento in una particolare situazione. Variabili come predisposizione genetica, tratti di personalità, carattere, temperamento e libero arbitrio non hanno nessun ‘peso’; Zimbardo, ad esempio, crede che “il carattere delle persone possa essere trasformato dal fatto di ritrovarsi in situazioni che scatenano potenti forze” (Zimbardo, 2008, 9).

È grazie ad Haslam e a Reicher che, finalmente, è stato scalfito questo modello unidirezionale di tipo stimolo-risposta, ed è stato, invece, adottato e posto alla prova dei fatti un modello multicausale di tipo transazionale, già da tempo adottato in altri ambiti della psicologia, in cui le persone e le situazioni sono in uno stato di interazione dinamica e non si conformano più in modo automatico al ruolo.

Probabilmente, soltanto chi è stato testimone delle atrocità compiute in un lager nazista, ha competenze e conoscenze per scrivere sulla libertà di scelta: “Noi che siamo stati nei campi di concentramento ricordiamo gli uomini che andavano da una baracca all’altra confortando i compagni e regalando l’ultima crosta di pane. Forse non erano molti, ma bastavano a ricordarci che tutto si può portare via a un uomo tranne una cosa: l’ultima delle libertà umane, che è quella di decidere la propria linea di comportamento in qualunque circostanza e di seguire la propria strada” (Frankl, 2008, 105).

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Il pregiudizio negli scambi interculturali: analisi e strategie di mediazione nazionali ed europee Shata Diallo

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scarica l'articoloIl presente articolo ha l’obiettivo di presentare le base teoriche sottostanti lo sviluppo del pregiudizio e dello stereotipo, come questi si sviluppano all’interno di gruppi interculturali e non ed in che modo sia possibile sensibilizzare al tema di abbattimento del pregiudizio e della cittadinanza attiva all’interno di istituzioni formali e non formali, come scuole o progetti di scambio interculturali.

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Una fusione delle definizioni di Allport e Brown ci dicono che “Il pregiudizio etnico è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa ed inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo” (Brown, 2010).
Pensare all’individuo all’interno del mondo implica in primis il concetto di relazione ed interiorizzazione delle relazioni. Questo significa pensare al processo di formazione e sviluppo della personalità attraverso dinamiche di identificazione e differenziazione in rapporto agli elementi di identità ed alterità presenti nel campo di relazione. Il gruppo, interculturale o non, è di per sé il luogo antropologico di costruzione dell’identità (Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007).
L’obiettivo del lavoro è quello quindi di poter testimoniare come, grazie ad una precisa analisi e strutturazione di metodo, sia possibile sensibilizzare all’educazione interculturale all’interno di tutti i sistemi educativi.

Dal pregiudizio all’interculturalità
Brown, ricercatore di Psicologia sociale, dopo un’attenta analisi delle definizioni costruite prima della sua, parla del pregiudizio come di un “qualsiasi atteggiamento, emozione o comportamento nei confronti di un gruppo che si esprima direttamente o indirettamente in negatività ed antipatia nei confronti del gruppo stesso” (Brown, 2010). Il pregiudizio può essere identificato con maggiore o minore difficoltà, può essere individuato in quanto sinonimo di altri termini quali razzismo e intolleranza e ha una matrice si cognitiva e attitudinale, ma soprattutto sociale e relazione.
Rimane aperta però la questione sul quando un determinato atteggiamento possa essere definito pregiudizio e su quale base questo possa essere giudicato come tale. Il criterio di giudizio fa capo a ciò che un gruppo trova piacevole e morale, alle credenze ed i sentimenti di carattere positivo e negativo. Il pregiudizio trae origine dai processi di gruppo e rappresenta nella maggioranza dei casi un orientamento socialmente condiviso (Brown, 2010).

La natura del pregiudizio ed il pregiudizio interetnico
Secondo Allport il pregiudizio è un atteggiamento di rifiuto o ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo e che si presume in possesso di qualità biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo (Allport, 1973). Il pregiudizio si sviluppa quindi in relazione a delle categorie utilizzate dal soggetto per “classificare” e dare un giudizio di merito ad un singolo attraverso l’analisi del suo gruppo di appartenenza.
Una distinzione fondamentale riguarda ciò che definiamo per opinione e cosa per pregiudizio. La prima ad esempio si può ritenere motivata quando poggia su elementi di fatto (Allport, 1973), il secondo è invece immotivato e deriva da una generalizzazione su vasta scala. “Un pregiudizio” dice Allport “resiste attivamente a qualsiasi prova della realtà” (Allport, 1973) ponendo l’oggetto valutato e giudicato in una situazione di partenza di svantaggio.
Può accadere a volte di incorrere nell’errore di confondere il pregiudizio con delle credenze. Non sempre i giudizi espressi derivano da un’analisi obiettiva e da fatti effettivamente avvenuti. Quando è così (come nel caso della malafede dei nazisti) facciamo riferimento ed esprimiamo una nostra credenza. Il pregiudizio riguarda invece ogni qual volta un atteggiamento negativo è sostenuto da generalizzazioni in mala fede (Allport, 1973). Quanto però effettivamente il confine tra questi due aspetti è ampio? La credenza spesso si tramuta in un pregiudizio in quanto si basa su elementi poco oggettivi o probabilmente culturali.
Tra le varie forme di pregiudizio, la più comune è quella interetnica. I gruppi umani hanno innanzitutto la tendenza a rimanere separati: ciò dipende dalla pigrizia e dall’orgoglio spesso patriottico ad appartenere ad una determinata cultura. La predisposizione umana e di gruppo al pregiudizio è legata alla tendenza a formulare generalizzazioni, concetti, categorie, il cui contenuto rappresenta una semplificazione del mondo dell’esperienza. Le categorie possono essere razionali o irrazionali ed in quest’ultimo caso possono non avere una benché minima base di verità. La categorizzazione più utilizzata si basa sui nostri valori personali (Allport, 1973).

Gli stereotipi ieri ed oggi: analisi e sviluppo culturale
Valutare qualcuno attraverso uno stereotipo significa attribuirgli caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo a cui questi appartiene (Brown, 2010). Secondo Brown lo stereotipo è il risultato dell’associazione cognitiva di una categoria sociale con determinate caratteristiche ed in quanto tale può essere modificato. Ciò che emerge dall’attenta analisi di Brown sui fattori che danno origine al cambiamento dello stereotipo è di grande interesse. Partendo dall’analisi e alcune ricerche, in prima istanza il ricercatore sostiene che un individuo potrebbe cambiare il proprio stereotipo incontrando molte persone che non confermano quello stereotipo o piuttosto un numero limitato di esperienze contro stereotipie molto forti, ma può effettivamente questo condurre ad una vera scomparsa dello stereotipo? La conclusione è che l’esposizione potrebbe aiutare il soggetto a modificare il suo stereotipo, ma nuovamente a stereotipizzare quelle persone come appartenenti a delle eccezioni secondo l’appartenenza al gruppo. Questo fenomeno viene chiamato da Allport circostanziazione, ossia la subtipizzazione dei soggetti (Brown, 2010). Allo stesso modo tentare di convincere un soggetto ad intraprendere un cambiamento nello stereotipo è in realtà controproducente.
Sia Brown che Allport hanno evidenziato una serie di esperimenti effettuati dai primi anni ’20 del ‘900 al 2010 sull’evoluzione del concetto di stereotipo (cit. in Brown, 2010):
l’esperimento di Katz e Braly confermò che con il passare degli anni gli stereotipi basati su fattori poco oggettivi andavano a diminuire. Se con gli anni gli stereotipi tendono a diminuire tendenzialmente, bisogna considerare che questi possono essere attribuiti non tanto a credenze ma piuttosto ad un livello di desiderabilità sociale ;
Alexander, Brewer ed Hartman ci testimoniano che gli stereotipi hanno una funzione ideologica di giustificazione della situazione esistente: è molto facile infatti che in una popolazione prevalentemente bianca si tenda a dare risalto a condotte antisociali commesse da neri piuttosto che da bianchi;
marcando la percezione cognitiva dello stereotipo, Gilbert e Hixon parlano di traffico cognitivo: in quanto una funzione primaria degli stereotipi è quella di agire come scorciatoie che ci evitano la fatica di dover ricercare e conoscere in profondità tutte le persone che incontriamo, il traffico cognitivo può condurre ad un pensiero basato su stereotipi soltanto se è attivata una qualche categoria idonea, anche se l’intervento di fattori distraenti potrebbe effettivamente impedire tale attivazione;
un esperimento di Mcrae e colleghi dimostrò come le persone esplicitamente invitate a pensare ad una certa idea mostrassero successivamente un interesse accresciuto nei confronti di quell’idea.

L’ipotesi di contatto di Allport
L’ipotesi di contatto ha costituito una delle idee più innovative della Psicologia sociale e nonostante sia nata negli anni ’50 è tutt’ora di grandissima attualità. Il modo migliore per ridurre tensione ed ostilità nei rapporti fra gruppi è quello di porli in forme diversificate di contatto reciproco. Allport (cit. in Brown, 2010) si accorse che più aspetti sono necessari per far si che si sviluppi un contatto positivo:
la presenza di un chiaro quadro di sostegno sociale dai livelli più elevati ai più semplici;
facilitare persone di nazionalità diversa ad interagire tra loro fa si che queste possano essere condotte ad interiorizzare una condotta positiva trasformandola in atteggiamenti personali;
queste esperienze aiutano a creare un clima sociale che rende possibile l’emergere di norme ispirate ad un senso di maggior tolleranza ed alla cooperazione.
Le ricerche hanno inoltre dimostrato che l’impatto del sostegno istituzionale sul successo di iniziative per la riduzione del pregiudizio sono fondamentali, ma non molto numerose. Proprio per i suddetti motivi è utile usufruire della progettazione e degli incontri interculturali tra giovani sia per il supporto sociale che per quello economico, è altresì fondamentale che questo processo abbia frequenza e che non sia quindi sporadico e casuale (ibidem).

La categorizzazione sociale di genere ed etnia secondo Katz e Zalk
Gli atteggiamenti dovuti all’etnia sono, come vedremo, di particolare importanza nei contesti interculturali. In molti studi è stato possibile osservare come, più che relativamente al genere, i bambini tendessero a fare distinzioni riguardo all’etnia su notevoli aspetti.
Alcuni studi hanno dimostrato che la salienza dell’etnia è più marcata in riferimento a gruppi minoritari. Sono questi ultimi infatti, che tendono a creare maggiori distinzioni tra “loro” e gli “altri” (De Caroli, 2005). Fu Ramsey nel 1991, attraverso un esperimento in cui venivano mostrate delle foto con la richiesta di raggrupparle per categoria, a dimostrare che a parità di importanza si tende a dare più risalto all’etnia piuttosto che al genere.
Un esperimento di significativa importanza è quello Katz e Zalk, perfezionato rispetto al primo svolto da Ashel ed Ellen nel 1974. A bambini dai tre ai cinque anni furono presentate due bambole bianche e due nere, una di ciascun sesso, identiche in tutto tranne che nella tipologia degli abiti e nel colore della pelle per le quali dovevano indicare la tipologia di preferenze. Dall’analisi dei risultati emerse che le preferenze dei bambini piuttosto che sull’etnia di basavano sul genere: tendevano a preferire quindi una bambola del loro stesso sesso valutandola positivamente ma non tendevano a fare una valutazione negativa delle altre. Per ottenere maggiori informazioni venne cambiato più volte l’esaminatore ed in questo caso emerse che i bambini rispondevano nel modo socialmente desiderabile che ritenevano atteso dal loro esaminatore in riferimento al genere ed all’etnia (cit. in De Caroli, 2005). I bambini sono infatti consapevoli degli stereotipi che gli altri possiedono. L’età sembra contribuire molto all’influenza legata a gruppi differenti: in età precoce i bambini tendono a conformarsi agli stereotipi che percepiscono e raramente poi riescono cognitivamente a cambiare prospettiva.
Altri esperimenti evidenziano che con l’aumentare dell’età, il pregiudizio diminuisce leggermente ma allo stesso modo non diminuisce il bias (valutazione positiva per ingroup e negativa per outgroup). La preferenza per l’ingroup etnico è associata inoltre ad una bassa percezione dell’omogeneità del gruppo, ad un’elevata tendenza all’egocentrismo ed a raggruppare per etnia (De Caroli, 2005).
Di fondamentale importanza è anche la preferenza che bambini mostrano verso l’ingroup linguistico. In tenera età è infatti complesso distinguere differenze etniche e la strada più tangibile è quella dell’aspetto fisico e delle differenze linguistiche piuttosto che culturali (De Caroli, 2005).
Partendo da diversità oggettive, crescendo, il bambino poi adulto introietta delle norme di catalogazione etniche e culturali che spesso non aiutano a fruire dell’interculturalità che distingue il nostro secolo.

L’influenza socio-culturale negli scambi interculturali
Aldilà degli esperimenti in laboratorio è fondamentale sottolineare che gli stessi processi cognitivi di base risultano sempre caratterizzati dal contesto sociale nel quale avvengono e tra questi il livello etnico di categorizzazione prevale spesso rispetto agli altri possibili criteri (Mazzara, 2003). Inoltre, l’individuo si trova ad appartenere simultaneamente ad un gran numero di gruppi e questo lo porta a confrontarsi con più outgroup con il rischio di trovarsi in confusione. Alcuni studi dimostrano come spesso la riduzione della discriminazione tra gruppi che parzialmente si sovrappongono tende a restare confinata a tali sottogruppi e non si estende all’interno dell’outgroup; inoltre, nel momento in cui si rende saliente una categorizzazione multipla, si ha un aumento di discriminazione tra gruppi che non hanno alcun tratto in comune. L’incertezza riguardo l’appartenenza è causata dal fatto che l’individuo sta attraversando la linea marginale tra due o più gruppi (Lewin, 1980). L’indebolimento e l’ampliamento delle frontiere di un gruppo comportano sempre un incremento dei punti di contatto tra questo e gli altri gruppi, da questo contatto deriva una diminuzione delle caratteristiche dei gruppi.

Il ruolo della comunicazione nelle dinamiche psicologiche dei gruppi allargati
La comunicazione è interculturale quando vi si osservano orientamenti culturali diversi, dunque forme culturali ed intrecci tra culture. Il campo di studi della comunicazione interculturale è tutt’oggi molto controverso. Non vi è infatti una base teorica unitaria ed anche se gli apporti sono tutt’altro che recenti gli studi si sono sviluppati nell’ultimo decennio (Baraldi, 2003).
Nella comunicazione interculturale infatti si sviluppa una forte discrepanza tra i diversi apporti culturali e gli ideali che si trovano alla base dei sistemi comunicativi. Tra questi troviamo sicuramente la lingua, il comportamento non verbale e tutti quegli aspetti che riguardano il campo comunicativo. La comunicazione è interculturale quando produce il significato di una mancata condivisione dei simboli culturali da parte dei partecipanti e delle forme culturali fondamentali a causa di una mancata generalizzazione della loro accettazione (ibidem). Questo tipo di comunicazione deriva dalla impossibilità o dal fallimento di una comunicazione monoculturale che mette in discussione alcune forme culturali fondamentali in un sistema di comunicazioni. I problemi di accettazione possono riguardare il codice, le forme dei contributi, i modi di selezione, il trattamento del corpo, le espressioni delle aspettative, le conseguenze della comunicazione.
La presenza di barriere può facilitare il superamento di ostacoli che da potenziali divengono reali nel momento in cui viene a mancare la volontà di comprensione. Questo può molto spesso facilitare il fraintendimento, ossia una discrepanza tra ciò che il parlante vuole esprimere e ciò che l’ascoltatore recepisce (Mucchi Faina, 2006). La difficoltà di comprensione o incomprensione completa si sviluppa molto spesso quando ci si trova in una situazione di disagio sia linguistica sia di difficoltà di comprensione del contenuto in quanto culturalmente distante.
Riguardo al ruolo delle aspettative, la comunicazione interculturale può essere influenzata sia dagli stereotipi che dai pregiudizi (Mucchi Faina, 2006) che i due comunicanti hanno riguardo ai membri dell’outgroup. I pregiudizi predispongono alla parzialità, interferendo con la capacità di cogliere l’individualità dell’interlocutore e rendono difficile stabilire un rapporto basato sulla fiducia, aumentando la tendenza a recepire solo quella porzione di informazioni che conferma il proprio punto di vista.
Anche le differenze creano un grande sbilanciamento durante un processo comunicativo. Viene definito falso consenso “la percezione che le proprie scelte comportamentali ed i propri giudizi siano relativamente comuni ed appropriati alle circostanze mentre risposte alternative sono considerate insolite” (Mucchi Faina, 2006). Altro aspetto fondamentale è il significato e la funzione del tacere e del parlare. Le lunghe o brevi pause da una frase all’altra dipendono molto spesso dal background culturale ed allo stesso tempo implicano nell’altra persona un feedback percepito in un modo piuttosto che in un altro.
La partecipazione ad un gruppo allargato pone i partecipanti a contatto con gli aspetti primitivi dello sviluppo della personalità tramutandosi spesso in fenomeni di aggressività, diffusione di identità e odio. Nelle fasi iniziali di un gruppo allargato, infatti, si sviluppa una reazione di frustrazione emotiva la quale può essere risolta solo attraverso il dialogo. Questo è lo strumento operativo attraverso cui consentire l’evoluzione e la compartecipazione del gruppo; individuato il setting è quindi possibile lavorare sul fare emergere influenze provenienti dal contesto socioculturale. Il gruppo allargato consente di creare dei collegamenti tra la dimensione macro e quella micro sociale favorendo la nascita di una nuova cultura, quella della cittadinanza, che può contribuire alla formazione delle persone come cittadini responsabili (Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007).
La relazione tra contesto e gruppo di riferimento viene identificata in quattro differenti categorie. Il contesto organizzativo fa capo a quei contenuti nascosti che il dispositivo di gruppo allargato rende emergenti nel qui ed ora della relazione. Le interazioni sociali riguardano la difficoltà di comunicazione che frustra i bisogni di base di sicurezza e di controllo. Il contenuto inconscio è relativo al senso di caos e confusione che si sviluppa in seguito alle interazioni transculturali. Il pensiero ed il dialogo fanno capo all’espressione totale del soggetto, alla sua capacità di esprimersi e di condividere (ibidem).
Per esperienza transculturale si intende quella in cui avviene il contatto ed il riconoscimento di matrici culturali differenti senza che vi sia una propria maturazione e integrazione: i partecipanti infatti integrano nelle proprie matrici di identità qualcosa che nasce dalla nuova esperienza di incontro con altre culture ad un livello di identificazione più ampio e comprensivo.
Ritornando al tema della comunicazione, ciò che differenzia il gruppo allargato da quello transculturale è la matrice di base: la lingua. L’importanza della comunicazione linguistica, come ci spiega Ancona, non è comprensibile fino a che non si perde il suo controllo. Solo quando vi è un terremoto ci accorgiamo che la terra sotto ai nostri piedi di solito è ferma, solo quando ci esprimiamo in un’altra lingua ci rendiamo conto della facilità di creare libere associazioni e di costruire un ricordo. La lingua delle attività interculturali è l’inglese e questo crea dei limiti di memoria immensi. Esprimersi in un’altra lingua ci costringe a fare una traduzione letterale che perde significato e non dà modo di esprimersi spontaneamente (cit. in Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007).

Strategie per l’incontro: la mediazione culturale
L’interculturalità fa appello proprio ad un programma di lavoro che prevede tappe, lungo e concreto impegno, dialogo e sforzo. È quindi necessario che si passi da una cultura della tolleranza ad una cultura della convivialità e della comunicazione (Belpiede, 2002). La tolleranza fu una conquista dell’Illuminismo, quando “l’altro”, il diverso, era solo una rara eccezione. Oggi le culture vanno unendosi, mischiandosi, sono inglobate l’una all’altra mantenendo però la propria identità. L’aspetto difficile è proprio questo: riuscire ad affrontare una interculturalità crescente gestendo l’ovvio pregiudizio che si va a creare. Oggi non basta più “coabitare” con la differenza ma bisogna collaborare con essa ed accettarla, scegliendo la convivialità come valore educativo, laico ed universale.
La mediazione culturale è necessaria nell’incontro tra popolazioni di lingua e costumi diversi per:
facilitare la comunicazione tra le persone e tra le minoranze culturali e le istituzioni, permettendo la reciproca comprensione dei codici culturali;
sostenere condizioni di pari accesso e diritti per le minoranze etniche;
favorire lo scambio e la trasformazione di pratiche e costumi;
sostenere l’inserimento ed i processi di integrazione tra gruppi e popolazioni.
Anche se la mediazione è una professione, in questo caso intendiamo considerare questa come un mezzo utilizzabile per consentire l’incontro e la cooperazione.
La mediazione culturale fa riferimento al processo di creazione, implica l’idea di trasformazione sociale, di trasformazione e costruzione di nuove norme basate su azioni agite in collaborazione delle parti in causa. È un processo dinamico ed attivo finalizzato alla risoluzione dei problemi (Belpiede, 2002).
La funzione è infatti proprio quella di mediare tutti quei processi disfunzionali che vanno a crearsi nel periodo che stiamo attraversando. Molto spesso viene tralasciata l’importanza della collisione di diverse culture a livello umano, sociale o a volte politico. Viene tralasciato l’abisso che separa nazioni e culture spesso confinanti, le storie, le radici e le ferite che non facilmente si sradicano e che non devono essere sradicate. L’accompagnamento all’interculturalità è il primo passo per il raggiungimento dell’eguaglianza, del benessere e della pacifica convivenza tra i popoli e tra le loro nazioni.
Gli spazi di incontro, di dialogo, di scambio, di mediazione non esistono per natura ma piuttosto vanno conquistati, creati, istituiti, difesi, utilizzati e gestiti (Fiorucci, 2004).

La progettazione educativa interculturale attuale
Attualmente si fa particolare riferimento all’educazione interculturale: l’insieme di culture che rappresentano le unioni sociali, politiche ed economiche come le realtà continentali (nel nostro caso l’Europa), conducono ad una diversificazione e stratificazione dei saperi e delle tradizioni che spesso tendono a disperdersi. In un’ottica interculturale, secondo Bansk (cit. in Surian, 1998), l’educazione interculturale si sviluppa in cinque categorie: l’integrazione dei contenuti, la costruzione del sapere, la riduzione dei pregiudizi, l’educazione all’uguaglianza ed il far crescere la dimensione culturale nella scuola.
Lorenz, inoltre, sottolinea che un programma di educazione interculturale può essere efficace solo se si fanno i conti a lungo termine con le esperienze concrete. La dimensione educativa degli “scambi” interculturali necessita di coinvolgere i diversi gruppi in un esplicito confronto sui significati sociali delle differenze tra i gruppi (cit. in Surian, 1998).
I programmi promossi dallo Stato fanno maggiormente capo all’educazione formale ed alla sensibilizzazione all’interno dei contesti educativi obbligatori come le scuole; al contrario, a livello continentale, l’Unione Europea stanzia fondi per progetti di educazione ed apprendimento informale e che perciò avvengono al di fuori dell’orario scolastico e dell’istruzione obbligatoria. Lo scopo della progettazione educativa attuale è proprio eliminare questa separazione e diversificazione tra formale ed informale (Reggio, Santerini, 2014). È infatti confermato che gli adulti sviluppano competenze essenziali per la loro professione in un contesto informale, ma che l’educazione formale dà risultati significativi per quanto riguarda momenti di valorizzazione, approfondimento, preparazione e riconfigurazione degli apprendimenti comunque avvenuti.
Fondamentale, oggi, è porre attenzione alla dimensione del gruppo quale luogo privilegiato di sviluppo delle competenze professionali. Il gruppo costituisce infatti un aggregato di culture e situazioni diverse conducendo alla capacità di superare codici comunicativi differenti ed elaborandone di nuovi. In ambito interculturale queste proposte vengono sviluppate con l’utilizzo non didascalico ma esplorativo, e perciò con l’ausilio di immagini, video, testi che possano aiutare a sviluppare una panoramica più completa (Reggio, Santerini, 2014).

Cittadinanza e convivenza nella scuola europea
Ridurre i pregiudizi significa azzerare il proprio punto di vista e ricominciare da un aspetto più neutro ed una visione del mondo più oggettiva, costruirsi perciò uno sguardo “non pregiudicato” che è il risultato delle analisi, interpretazioni ed opinioni che circolano restituendo complessità all’interpretazione degli eventi. Non è sufficiente perciò agire esclusivamente sullo sguardo dell’individuo, ma piuttosto andare ad operare su tutti gli agenti che portano alla formazione del pregiudizio e dello stereotipo come alunni, insegnanti, genitori, personale scolastico ed educatori.
Il compito dell’educazione interculturale è quindi incentrato sul confronto con la diversità e con la promozione delle capacità di confrontarsi. Ciò è possibile esclusivamente disinnescando la carica distruttiva dei pregiudizi e degli atteggiamenti discriminatori che possono originare (Reggio, Santerini, 2014).
La necessità di costruire un’educazione interculturale ed internazionale si trova a capo delle emergenze formative. La riforma del sistema educativo varata in Italia ricorda infatti alcuni punti chiave e fondamentali per l’abbattimento del pregiudizio e la sensibilizzazione all’integrazione (Portera, 2006).
Innanzitutto, l’istruzione italiana è attenta alla dialettica globale-locale per l’intera durata del ciclo di studi obbligatori valorizzando l’incontro tra lingue, culture e religioni. Inoltre si caratterizza per il riconoscimento dei tratti e delle dimensioni specifiche della cultura e del vivere sociale contemporanei, le radici storico-giuriche, artistiche e letterarie. La sensibilizzazione in ambito scolastico conduce alla circolazione delle idee, delle relazioni interpersonali tra i cittadini italiani, europei e del mondo e delle sensibilità culturali ed interculturali necessarie a questo scopo. Tutto ciò si associa all’insegnamento obbligatorio dell’inglese per dare la possibilità ai giovani di sentirsi ed essere completamente integrati anche a livello linguistico in quanto l’inglese è la lingua ufficiale del nostro continente. Inoltre, per evitare l’imperialismo linguistico è stato inserito nei primi anni delle scuole lo studio di una terza lingua. La riforma del sistema educativo certifica inoltre il riconoscimento dei titoli di qualifica a livello europeo, dà opportunità di stage e scambi interculturali all’estero e rende obbligatoria l’educazione alla convivenza civile e la conoscenza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Costituzione Europea e la Carta dei Diritti UE (Portera, 2006, 36).
Diviene perciò, oggi, di fondamentale importanza, educare all’Europa, alla cultura ed alla mondialità nel contesto antropologico, storico, filosofico e pedagogico secondo i principi della paideia greca. Tra questi in ambito scolastico troviamo: la responsabilità della persona che in quanto tale deve adempiere ai suoi doveri, rispettarli e conoscere i propri diritti; il superamento dell’individualità per giungere alla socialità della persona umana e l’integralità della persona e della sua cultura. Lo scopo è quello di giungere ad una vera e propria intercultura basata sul confronto che produce un meticciamento e dà vita ad una determinata forma mentis aperta all’ascolto ed al dialogo e destrutturata rispetto ai suoi pregiudizi.
Questo tipo di mentalità si può sviluppare esclusivamente da un’agenzia di socializzazione e di inculturazione primaria aperta a tutti, e dove tutti collaborano, che agisce per un tempo limitato sui soggetti e li introduce ad una assimilazione riflessiva della cultura e delle culture (Portera, 2016).
In seguito a questa analisi è perciò possibile affermare che oggi in Italia disponiamo degli strumenti giuridici richiesti per mettere in atto uno stile educativo più interculturale, ciò che manca è la capacità intellettuale di sviluppare questo metodo in modo coerente, significativo ed utile.

Il coaching
I contributi che verranno riportati in seguito come esempio delle competenze acquisite durante un’attività interculturale sono state guidate con il metodo del coaching. Il coaching è un processo di sviluppo delle capacità, risorse e competenze di una persona gestito da un professionista qualificato, attraverso l’individuazione degli ambiti di potenziale crescita e la definizione di un programma finalizzato al raggiungimento di obiettivi personali o professionali (Western, 2012).
Le strategie di coaching si differenziano da altri tipi di metodi come il mentoring in quanto consistono in una co-collaborazione tra coach e cliente. Infatti il ruolo del coach è esclusivamente aiutare il cliente a far emergere tutto il potenziale inespresso ed a farlo rendere consapevole di caratteristiche o aspetti della sua vita. Il coaching si differenzia in individuale, della persona e di gruppo (Angel, Amar, 2008).
Il coaching utilizzato all’interno di contesti internazionali ed interculturali è di gruppo. Questo, punta al miglioramento della performance collettiva del gruppo stesso attraverso il rinforzo della coesione (team building), la coerenza e l’accordo sugli obiettivi, il contributo di ciascuno dei membri alla definizione di una strategia condivisa (Angel, Amar, 2008). Questa strategia di azione ha lo scopo di mettere in sinergia i vari membri del gruppo e di valorizzare il contributo globale piuttosto che focalizzarsi sul singolo. Per giungere a questo accordo è fondamentale lavorare sulle singole relazioni al fine di (ibidem):
aiutare a superare blocchi e rigidità (in questo caso quelli riguardanti i pregiudizi e gli stereotipi);
delineare una visione condivisa;
l’acquisizione di maggiore autonomia;
la comprensione della necessità di un’interdipendenza che permetta di ottimizzare le performance.
Il motivo per cui il coaching diviene una pratica fondamentale in un contesto interculturale è la comprensione della necessità di supporto da parte del prossimo, la consapevolezza che l’unione aiuta al raggiungimento di uno scopo ed all’abbattimento del pregiudizio in quanto ogni soggetto è obbligato a valutare i propri preconcetti in relazione a quelli degli altri ed a metterli in discussione.

Youth Exchanges: gli scambi interculturali
“Gli Scambi di giovani permettono di sviluppare competenze, venire a conoscenza di argomenti/aree tematiche socialmente pertinenti, scoprire nuove culture, abitudini e stili di vita soprattutto attraverso l’apprendimento tra pari, rafforzare valori come la solidarietà, la democrazia, l’amicizia, ecc. Il processo di apprendimento negli Scambi di giovani è determinato da metodi di istruzione non formale” (Erasmus+: Guida al Programma, 2016).
Lo scambio CEO, svoltosi in Olanda, Ommen, a Luglio 2015 per una durata di due settimane e coordinato da Cherry Group (Gruppo Informale Olandese – http://www.cherrygroup.info), ha coinvolto cinquanta ragazzi provenienti da sette paesi Europei (Italia, Olanda, Portogallo, Lituania, Macedonia, Bulgaria, Croazia). La finalità dello scambio era quella di indirizzare i giovani partecipanti ad una maggiore consapevolezza di imprenditorialità sociale e perciò coinvolgere i ragazzi tramite l’educazione non formale in attività pratiche. Per imprenditorialità sociale in questo caso si intende la capacità e la consapevolezza di incrementare la propria idea e metterla in atto con gli strumenti che in quel determinato momento si hanno a disposizione.
L’impatto che lo scambio ha avuto sui partecipanti ha denotato a lungo termine una maggiore consapevolezza del senso di cittadinanza europea ed una maggiore tolleranza nei confronti di chi è culturalmente diverso. Grazie al final report dello scambio è infatti possibile constatare che i ragazzi hanno vissuto l’attività acquisendo consapevolezza in maniera crescente durante le due settimane di attività. Nel report finale, i ragazzi si sono definiti più consapevoli delle differenze che ci sono in Europa, ma allo stesso tempo più partecipi a livello di cittadinanza. I ragazzi hanno dimostrato ed affermato che il livello di pregiudizio è gradualmente diminuito.

Superare l’individualismo per collaborare con gli altri
La cooperazione internazionale riguarda essenzialmente la collaborazione nella ricerca. Questa dimensione transnazionale è una peculiarità molto importante di un vasto processo che aspira a rendere possibile il libero movimento per studenti ed accademici (La Barbera, Cariota Ferrara, 2015). Al fine di creare uno spazio europeo per l’istruzione superiore è stato fondato l’EHEA, l’European Higher Education Area, caratterizzato dall’assenza di barriere e della compatibilità e comparabilità dei sistemi educativi. In questo modo, andando ad unificare l’insegnamento cognitivo ed il trasferimento di conoscenze su base sociale, il modulo europeo degli Studi riguardanti l’Educazione Civica e la Cittadinanza Internazionale ha potuto constatare che coloro che hanno avuto la possibilità di viaggiare e fare un’esperienza all’estero in Europa hanno un livello ed una facilità di apprendimento più elevato riguardo i fattori cognitivi e sociali (cit. in La Barbera, Cariota Ferrara, 2015).
In ultima istanza è importante sottolineare come alcuni studi effettuati da Bruter hanno contribuito a rendere noto che è possibile avere un elevato livello di intensificazione sia con la propria nazione che con l’Unione Europea e che diverse identità possono convivere armoniosamente l’una con l’altra se si situano a diversi livelli di astrazione come nel caso della cittadinanza europea (cit. in La Barbera, Cariota Ferrara, 2015). In questo senso diviene quindi fondamentale sottolineare che costruire una base non pregiudiziale o meno pregiudiziale a livello europeo è possibile garantendo una maggiore consapevolezza del senso di unione e di cittadinanza.

Conclusioni
Quando si parla di pregiudizio, ciò che è fondamentale prendere in considerazione è il gruppo: infatti tutto ciò che costruiamo mentalmente e culturalmente deriva dall’interazione con chi ci circonda. Chi fa parte della nostra vita influenza le scelte, le abitudini e le opinioni che abbiamo di noi stessi e degli altri (Allport, 1973).
I pregiudizi e gli stereotipi cambiano, si evolvono nel tempo, sono mutevoli e quindi spesso imprevedibili ed incontrollabili, alimentati da nuovi influssi culturali ed interetnici che conducono ad una maggiore interazione dovuta principalmente a fattori naturali e non ad una elaborazione metodologica mirata all’abbattimento di questi schemi mentali.
Ciò che caratterizza la nostra storia dipende dalla conformazione geopolitica Europea: ogni stato ha un proprio passato, una propria cultura e nonostante l’interazione interetnica stia aumentando è assolutamente difficile riuscire ad abbattere le barriere pregiudiziali e razziali. È così che ogni gruppo sviluppa una categorizzazione sociale in modo tale da individuare una chiara distinzione tra l’outgroup e l’ingroup (Mazzara, 2003). Queste norme sociali vengono stabilite all’interno dei gruppi quando gli individui sono così piccoli da essere costretti, attraverso strategie di coping, ad introiettare l’atteggiamento dell’adulto (De Caroli, 2005).
Gli scambi interculturali sono interazioni tra gruppi con diverse origini etniche, sociali e culturali che aiutano ad abbattere i pregiudizi e gli stereotipi grazie agli agenti educativi (come i mediatori culturali, i coach, i trainers) ed ai ragazzi che nati e cresciuti nelle più svariate realtà interagiscono grazie al dialogo in maniera diretta abbattendo i propri schemi e creandone di nuovi. Ciò che è importante gestire in situazioni interculturali sono gli enormi muri che rischiano di ergersi, facenti riferimento alle enormi differenze culturali, linguistiche e sociali (Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007).
In una società come questa, l’educazione interculturale diviene prima ed indispensabile prerogativa giovanile; il multilinguismo, il senso civico e le capacità relazionali importanti strumenti di coesione e di crescita personale.
Si è quindi dimostrato che, attraverso una educazione interculturale è possibile sensibilizzare al pregiudizio ed allo stereotipo, all’importanza del senso civico e del ruolo di cittadino e di essere umano, come membro di tantissimi gruppi concentrici dei quali nessuno esclude l’altro.
Il presente lavoro si costituisce come base teorica per futuri approfondimenti sull’importanza dell’educazione interculturale a livello educativo con lo scopo di poter, in seguito, dimostrare scientificamente l’utilità di metodi, tecniche e formazione all’interno dei gruppi giovanili formali ed informali per sensibilizzare ai pregiudizi e gli stereotipi sviluppando un senso di cittadinanza, uguaglianza, rispetto ed una capacità di analisi critica che possa permettere a ciascun giovane di non dover ricorrere a preconcetti per giustificare una credenza.

 

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“V” per Volontariato: un processo di formazione attraverso la prosocialità Marco Diella

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Il volontariato in Europa, come negli USA, è un’attività sempre più rilevante sia dal punto di vista sociale, che politico. Capire le ragioni di questo significativo fenomeno sta acquistando sempre più importanza nell’ambito delle scienze sociali, il che spiega il nascere di importanti studi in merito negli ultimi 60 anni. Per questo si ritiene importante fornire una panoramica generale del fenomeno, letto nell’ottica della relazione d’aiuto, senza tralasciare le caratteristiche salienti. Degno di nota anche sottolineare l’importanza del processo formativo soggiacente al volontariato, affinché questo possa trasformarsi, per chi lo mette in atto, in una esperienza di crescita personale. Durante l’elaborazione di questo scritto mi sono chiesto dove il volontariato potesse essere collocato all’interno delle scienze sociali. Dopo adeguate ricerche, ho provato ad unire la letteratura sull’argomento con un intuizione confermata attraverso gli studi fatti e l’esperienza personale in questo campo. Prima di giungere alla risposta sembra utile approfondire come la psicologia sociale consideri e collochi i vari comportamenti di aiuto: la relazione di aiuto, il comportamento prosociale e l’altruismo.
Sebbene la relazione di aiuto, prosocialità e altruismo sembrino termini psico – sociali differenti usati per spiegare uno stesso costrutto, è utile soffermarsi su come queste complesse dimensioni siano connesse pur essendo differenti tra loro.
La relazione di aiuto è il termine più generale, invece l’altruismo è molto più ristretto. La prosocialità si inserisce all’interno della relazione di aiuto e ingloba a sua volta l’altruismo (Schwartz, Howard, 1981). All’interno di questo articolo, affinché possa risultare chiara la trattazione sull’argomento, verrà attribuito e approfondito ciascun termine con la sua accezione scientifica per poi passare al fenomeno del volontariato.

La relazione di aiuto
Robert R. Carkhuff (noto per essere stato il primo a tentare l’elaborazione di un modello operativo sull’intervento di aiuto orientato a promuovere e facilitare la consapevolezza del cliente), definisce la relazione di aiuto come «un processo mediante il quale la persona che viene aiutata acquisirà dei nuovi comportamenti […] chi offre aiuto (helper) ha la responsabilità di favorire nell’altro questo sviluppo» (Carkhuff, 1988). Per relazione di aiuto, anche detta helping relationship si intende, quindi, un legame che si instaura tra una persona disponibile e capace di dare aiuto (helper) e un’altra che ha bisogno di riceverlo (helpee). L’aiuto può essere considerato una vera e propria forza motrice dell’evoluzione umana. Aiutare è una capacità che ci è stata donata nel corso di diversi millenni di evoluzione e che ha portato l’uomo, nel tempo, a creare vere e proprie industrie societarie in cui l’aiuto stesso fosse un mezzo silenzioso di leva e di coesione. «Chi riesce ad aiutare non sa generalmente perché è efficace, che cosa succede in lui che lo fa tale […] Si riceverebbero solo risposte vaghe, risposte molto meno efficaci del loro agire» (Carkhuff, 1988). Aiutare non è solo una predisposizione innata che le persone possiedono, in maniera più o meno appropriata; l’aiuto può essere considerato come una vera e propria arte, la cui pratica può accrescere qualora vengano rafforzate capacità come il saper ascoltare, fare uso di empatia e rispondere in maniera adeguata secondo le richieste e i bisogni.

Il comportamento prosociale
Il termine prosociale viene coniato da Wispè nel 1972, nasce dalla contrapposizione al comportamento antisociale. E’ un comportamento volontario volto a produrre benefici in un’altra persona o in un gruppo. Tale atteggiamento è caratterizzato da motivazioni non sempre note o specificate che possono essere di natura altruistica, egoistica o entrambe (Marta – Scabini, 2003, 19). In altre parole, il comportamento prosociale è la «tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri» (Caprara, Bonino, 2006, 10).
Prima di continuare con l’argomento ci tengo ad approfondire una tematica molto particolare quanto interessante: grazie alla psicologia sociale, e anche al senso comune, sappiamo del perché le persone scelgano di aiutare. Le teorie di orientamento comportamentista, affermano che i comportamenti vengono appresi osservando e imitando le condotte altrui oppure, sempre nello stesso ambito, Bandura afferma che l’azione prosociale, se ripetuta nel tempo, diventa auto – ricompensante in quanto il soggetto, ogni volta che aiuta, si sente ricompensato per averla compiuta, indipendentemente dalla presenza di ricompense dirette o dall’approvazione sociale; Altre teorie spiegano come le persone che hanno ricevuto più di quanto si fossero aspettate, aggirerebbero in maniera prosociale donando (Mikula, 1980). Altre ancora spiegano come le persone trovino insopportabile l’idea che altre persone possano soffrire e preferiscono agire per alleviare le sofferenze altrui piuttosto che rimanere turbati (Batson, 1998) o come le persone agiscano in maniera prosociale per incrementare o recuperare la propria autostima (Brown, Smart, 1991).
Ma qual è la ragione che spinge le persone a diventare spettatori e decidere di non intervenire in situazioni di emergenza nonostante la necessità di un intervento?
Il 13 marzo del 1964, in un sobborgo di New York, nel mezzo della notte, una ragazza di circa 29 anni viene massacrata e uccisa per strada da un malintenzionato sotto gli occhi di 38 cittadini, testimoni inermi di tale atto di violenza, durato circa 30 minuti tra le grida e le richieste di aiuto della vittima. Del “caso Genovese”, mediaticamente se ne parlò a lungo, cercando di capire quale fosse il motivo per cui nessuno avesse deciso di intervenire o chiamare per tempo i soccorsi (Rosenthal, 2015). Se da una parte l’uomo decide di mettere in atto dei comportamenti prosociali che lo portano ad aiutare chi è in difficoltà, da un’altra può assumere atteggiamenti antisociali trasformandosi in un inerte spettatore. Latané e Darley affermano che colui che aiuta oggi, domani potrebbe essere lo spettatore passivo, indipendentemente dalla situazione sociale (Lis, Stella, Zavattini, 1999). Ma qual è la motivazione che spinge le persone a diventare degli spettatori e chi è lo spettatore?
Lo spettatore in psicologia sociale è colui che, anche se può intervenire in una determinata situazione di emergenza, non si lascia coinvolgere attivamente. Contrario allo spettatore passivo è quello attivo che assume il ruolo di soccorritore (Zamperini, 2000, 21). Secondo gli studiosi lo spettatore decide di non intervenire perché può andare incontro a tre tipi di inibizione (Lis, Stella, Zavattini, 1999):
Diffusione della responsabilità: un individuo in un momento di emergenza si trova in presenza di altre persone per cui percepisce la responsabilità come diminuita. Questo riduce la motivazione ad agire in maniera prosociale.
Il modello implicito del “non è successo niente”: nel momento di emergenza la persona non sa come rispondere ed esita nell’agire banalizzando la situazione, tutte le persone presenti diventano modelli di passività per gli altri.
La paura dell’imbarazzo: la presenza di altri spettatori in situazioni di emergenza incute a volte imbarazzo e disagio. L’imbarazzo sta nell’interpretare in maniera scorretta la situazione più grave di quanto possa sembrare o di non avere le capacità di far fronte alla situazione.

Altruismo
Il termine altruismo risale al 1851, nasce in contrapposizione all’egoismo grazie al filosofo francese Auguste Comte. Tale comportamento viene studiato molto al giorno d’oggi in maniera particolare nell’ambito della sociobiologia e della psicologia sociale. L’altruismo viene associato a un comportamento volontario messo in atto per beneficiare o migliorare la situazione di un’altra persona senza prevedere ricompense esterne. Un comportamento altruistico, per essere definito tale, deve: 1) innanzi tutto beneficiare un’altra persona; 2) essere svolto volontariamente; 3) essere svolto intenzionalmente; 4) essere privo di aspettative riguardo a delle ricompense esterne (Cattarinussi, 1994).

Il volontariato nelle scienze sociali
Ma cos’è il volontariato? Come è nato questo fenomeno? Chi sono coloro che operano e che scelgono ogni giorno di mettersi in gioco? In tutti i paesi del mondo si registra un aumento, o una tenuta, della percentuale di persone impegnate nella comunità di appartenenza che, attraverso azioni libere e solidali di volontariato, contribuiscono non solo ad offrire servizi sociali utili, ma anche a ridare forza ai legami sociali, a consolidare le basi per la costruzione di una cultura, della solidarietà, della responsabilità e dalla giustizia e cittadinanza (Marta, Pozzi, 2007).
Il volontariato è un fenomeno studiato dalle scienze sociali che, negli ultimi cinquant’anni, sta acquisendo sempre più importanza; per questo motivo molti studiosi si vedono coinvolti nello studio di un fenomeno tanto importante, quanto recente. Nonostante l’interesse coltivato, è difficile trovare una definizione chiara ed univoca di questa attività (Tavazza, 1990; Amerio 2000; Snyder e Omoto, 2000 cit. in Marta – Scabini, 2003). In uno studio condotto da Cnaan, Handy e Wadsworth è stato possibile rilevare come, in quasi tutti gli studi sul volontariato, mancasse un’esplicita definizione del concetto stesso. Con ciò sembrerebbe che un fenomeno, solo perché socialmente consolidato, non debba essere descritto compiutamente. Partendo da una rilevazione di circa 300 articoli scritti sull’argomento, all’interno dell’analisi del contenuto di undici delle definizioni più comuni in lingua inglese, i suddetti autori hanno identificato quattro fattori che caratterizzano questo fenomeno: il grado di libertà nella scelta dell’atto; la natura della sua ricompensa per il beneficio conseguito; il contesto in cui esso avviene; il suo beneficiario. Il volontariato, comunemente inteso, quindi, sarebbe caratterizzato dalla spontaneità, dalla gratuità, dal contesto organizzativo formale entro il quale si colloca e dall’orientamento solidaristico verso un beneficiario estraneo. (Cnaan et al; 1966).
Il termine volontariato, oggi, in Italia, particolarmente dopo l’emanazione della “Legge quadro” dell’11/08/1991 n°266 (GU n. 196/1991), indica le varie organizzazioni di volontariato che operano in una molteplicità di campi di intervento. Tale legge recita: «per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo, gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà» (art. 2.1). Rispetto ai comportamenti di aiuto spontanei ed occasionali, il volontariato non si pone come un comportamento reattivo ma proattivo e, la maggior parte delle volte, implica una relazione face to face con le altre persone. Il volontariato, se da un lato può essere considerato come un vero e proprio lavoro, in quanto richiedente lo svolgimento di compiti finalizzati a fornire aiuto a terzi, dall’altro è un’attività che va svolta nel proprio tempo libero, che si sceglie di svolgere liberamente e dalla quale non è esclusa una certa, personale gratificazione (Colozzi – Bassi, 1995). Secondo Tavazza, il volontariato è un «libero impegno di solidarietà sociale, azione totalmente gratuita, è l’agire del cittadino che ispira la sua vita ai fini della solidarietà che si pone a disposizione della comunità promuovendo una risposta ai bisogni emergenti del territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati e in generale per tutti i soggetti deboli» (cit. in Caritas italiana, 2000).
Nel contesto italiano, il volontariato è strettamente collegato al concetto di solidarietà: entrambi i termini, presentano un’interfaccia tra il sociale e l’individuale (Marta, Scabini, 2003).
Il termine solidarietà, sebbene di recente introduzione, esprime un concetto risalente alle prime riflessioni teoriche sulla società. La sociologia individua e distingue due tipi di solidarietà: «la prima è originata da una profonda omogeneità fra i soggetti e porta ciascuno ad agire primariamente in funzione delle esigenze altrui; la seconda, invece, trova la propria ragione nella differenziazione e complementarietà esistente tra le persone e spinge il singolo a realizzare il proprio obiettivo contribuendo al raggiungimento dell’obiettivo comune» (Sarpellon, 1993). Il significato che identifica il termine ‘solidale’, permette di assicurare a ciascun individuo la possibilità di attuare le proprie opportunità in stretta collaborazione con gli altri. Bisogna prestare attenzione ad usare questo termine, esso non va confuso con l’assistenzialismo, ma richiede che ogni persona, anche l’emarginato, diventi protagonista dell’avvenire proprio e collettivo (Prellezo et al; 2008).

Cenni storici sul volontariato
Approfondire le radici del disagio è un processo che ha caratterizzato lo sviluppo storico del volontariato in Italia. Dal dopoguerra ad oggi, il volontariato è stato caratterizzato da diversi cambiamenti: se negli anni della ricostruzione post-bellica si parlava di un volontariato di necessità e di primo intervento, in cui venivano distribuiti beni per le strade dagli alleati e dai volontari italiani, nel tempo, il volontariato si è trasformato in un fenomeno progettuale, organizzato e riconosciuto dalle istituzioni (Fondazione Italiana per il Volontariato, 1995).
Nel primo dopoguerra si assiste alla nascita della Pontificia Opera di Assistenza e alla formazione delle istituzioni diocesane per l’assistenza. Nel frattempo, un fondamentale contributo alla ricostruzione del paese viene offerto dall’imponente ‘così detto’ piano Marshall. Nel 1950 le associazioni di volontariato iniziano ad essere riorganizzate in direzione della beneficenza, assistenza e soccorso. Il volontariato per la prima volta inizia ad essere concepito come un dono per chi non ha. Negli anni ‘60 viene annunciata la dichiarazione dei diritti del bambino e, nell’anno seguente, si assiste al così detto Boom economico italiano che dà l’inizio a una ripresa economica e sociale autonoma. Tra gli eventi di maggiore rilevanza, dobbiamo ricordare il Concilio Vaticano II, indetto da Giovanni XXIII nel 1964, e il movimento di contestazione del Sessantotto. I cambiamenti che seguono questi eventi daranno vita a nuove forme di fare volontariato che assumeranno configurazioni e fisionomie proprie.
Il 1970 vedrà un significativo sviluppo del volontariato in Italia che si diffonderà in maniera capillare nel paese mantenendo una dinamica positiva per tutto il decennio (Fondazione italiana per il Volontariato, 1997). In questo periodo nasce l’impegno per la rimozione delle cause che creano disagio con una serie di interventi a livello istituzionale, mediante nuove leggi sociali; l’inizio di una cultura dell’aiuto – aiuto; l’impegno per la promozione sociale per ovviare a carenze locali e territoriali. Il volontario viene definito sulla base della costituzione di organizzazioni nuove e autonome, dalle istituzioni politiche e religiose e dal documento pubblicato dalla Caritas nel 1975. Il sostegno all’azione solidale, per essere efficace, deve essere associato e accompagnato da azioni politiche: non basta l’agire generoso e la dimensione caritatevole ma occorre una motivazione politica e un agire legato alla giustizia collettiva che porti a rimuovere o a ridurre le situazioni di disagio e di emarginazione (Tavazza cit. in Berti, 2004). Nel 1980 si assiste ad un incremento della partecipazione dei cittadini. Viene organizzato il primo convengo nazionale sul volontariato a Viareggio; l’Università di Bologna e l’Università Cattolica di Milano conducono una ricerca sul volontariato in Italia e nasce la collana Volontari perché. Negli anni successivi assistiamo ad un ulteriore consolidamento del volontariato e allo sviluppo di atteggiamenti critico – costruttivi verso le istituzioni pubbliche. Di notevole importanza era la crescita della consapevolezza del ruolo politico del volontariato, per un cambiamento decisivo delle politiche sociali e la scoperta del fattore specificità culturale e locale dell’impegno del volontario.
Nel 1991 viene emanata la legge quadro del volontariato, che sancisce l’avvenuta trasformazione del volontariato italiano in soggetto organizzato a cui è possibile affidare rilevanti responsabilità pubbliche (Fondazione italiana per il Volontariato, 1997); la nascita della conferenza dei presidenti dei principali organismi nazionali del volontariato e viene indetto il primo censimento delle organizzazioni di volontariato. In questa nuova fase, i destinatari dell’azione di volontariato diventano soggetti, oltre che oggetti dell’azione solidale, in quanto coinvolti in prima persona. Nel 2000 viene consolidata l’integrazione operativa e programmatica fra il volontariato ed altre realtà del terzo settore come enti, servizi pubblici e privati del territorio. La povertà viene riletta insieme all’emarginazione alla luce della categoria dell’esclusione sociale (Caritas italiana, 2000).

Dati sul volontariato
Secondo i risultati relativi ai numeri del volontariato, rilevati nel 2013 dalla convenzione tra Istat, CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, circa un italiano su otto svolge attività gratuite a beneficio del prossimo o della comunità. In tutto, in Italia, il numero dei volontari stimato è all’incirca di 6,63 milioni di persone. Circa 4,14 milioni di cittadini svolgono attività in un gruppo o in un’organizzazione e 3 milioni circa si impegnano in maniera non organizzata. L’attività del volontariato è più diffusa al nord, specialmente nord – est del Paese, con un tasso che arriva al 16%; nel Mezzogiorno, invece, la partecipazione è molto più bassa e totalizza 8,6% (Cappadozzi – Michelini, 2014). Le organizzazioni di volontariato sociale, che operano nel nostro Paese, sono più di 10.000. Circa la metà ha avuto origine grazie all’azione del mondo cattolico o religioso non cattolico; la restante parte su iniziativa del mondo laico.
All’interno della realtà del volontariato italiano sono presenti organizzazioni diversificate, dalle piccole associazioni presso comuni, ospedali e altri enti, fino alle grandi istituzioni con strutture organizzative complesse. Le organizzazioni composte da soli volontari sono in diminuzione, mentre aumentano quelle dotate di personale stipendiato. Spesso le piccole associazioni sono composte da familiari di persone che hanno subìto un incidente o affetti da particolari patologie, e assumono il profilo di gruppo di mutuo – aiuto (Barbara Dardi cit. in Vitale, 2004).
Il volontariato, dagli anni ’90, si è sviluppato all’interno di un movimento più vasto di partecipazione e di solidarietà sociale che è stato definito privato sociale. Il privato sociale comprende quattro grandi filoni con caratteristiche sostanzialmente diverse ma che si integrano tra loro, a partire da una base comune di valori (Tavazza, 1990):
associazioni di volontariato propriamente dette. Sono caratterizzate dalla gratuità e dalla finalità di esercitare servizio all’estero e prevalentemente il focus è posto ai vari settori dell’emarginazione;
istituzioni private non a scopo di lucro che gestiscono dei servizi e che vengono sempre collocate sotto un articolo diverso da quello del volontariato;
nuove associazioni costituite come soggetto giuridico per gestire dei servizi o sotto forma di associazioni di fatto o sotto forma di cooperative;
associazionismo che ha la finalità prevalentemente rivolta ai propri membri o per una loro specifica tutela o per la loro crescita culturale, ricreativa e fisica.

Volotariato e modelli interpretativi
I modelli interpretativi sul volontariato sono dei sistemi teorici interessati a individuare la motivazione sottesa all’agire dei volontari ed hanno cominciato ad avere una certa rilevanza sociale negli ultimi anni. All’interno della letteratura del volontariato troviamo due importanti modelli di partenza, risalenti alla cosiddetta prima generazione: il Volunteer Process Model di Omoto e Snyder (1995), che spiega l’agire del volontario sulla base di variabili disposizionali e il Role Identity Model of Volunteerism di Piliavin e Callero (1987), che spiega il volontariato partendo da alcune variabili situazionali.
I modelli appartenenti alla seconda generazione sono il modello Penner (2002), che cerca di integrare le variabili disposizionali e situazionali dei precedenti modelli, il volontariato proposto da Davis (2005), quello secondo Marta e Pozzi (2007) e il modello a tre stadi di Chacòn, Vecina e Dàvila (2006).
Ogni modello ha contribuito, grazie alle proprie teorizzazioni, a spiegare il fenomeno del volontariato all’interno di un contesto culturale in riferimento ad uno specifico volontariato. Al di là del proprio campo di interesse, queste teorizzazioni pongono le basi per una riflessione guidata su quattro macrocategorie come la personalità prosociale, motivazioni, identità, cultura e contesto organizzativo, che sono cruciali per la comprensione del fenomeno del volontariato (Marta, Pozzi, 2007).

L’apporto delle neuroscienze al volontariato
Secondo un articolo pubblicato da BMC Public Health (Jekinson, 2013), praticare attività di volontariato migliorerebbe la salute mentale e allungherebbe la vita. Gli studi hanno dimostrato che i volontari che aiutano le persone e che donano il proprio tempo si sentirebbero socialmente connessi, allontanando così il rischio della solitudine e della depressione.
Ciò che sorprende, analizzando gli studi sopra riportati, è che le persone, oltre a ricavare questi benefici, potrebbero anche essere ricompensate con una migliore salute fisica, beneficiando di una pressione sanguigna più bassa e con una conseguente potenziale aspettativa di vita più lunga.
La prova sugli effetti benefici del volontariato, può essere fatta risalire ad un recente studio, condotto dalla Carnegie Mellon University, pubblicato sulla rivista Psicologia e invecchiamento nel giugno del 2013. Lo studio delinea che gli adulti sopra i 50 anni con un impegno regolare solidale hanno meno probabilità di sviluppare alta pressione sanguigna rispetto ai non-volontari (l’ipertensione arteriosa è un importante indicatore della salute, essa infatti causa malattie cardiache, ictus, e morte prematura).
Come con qualsiasi attività pensata per migliorare la salute, i ricercatori stanno cercando di individuare le caratteristiche specifiche di volontariato che forniscono il massimo beneficio. Ad esempio, quanto tempo deve donarsi una persona prima di abbassare la pressione sanguigna o ricevere benefici per vivere più a lungo? Sempre secondo lo studio della Carnegie Mellon University diretto da Rodlescia S. Sneed, i soggetti coinvolti erano circa 1.164 adulti di età compresa tra 51 e 91 anni, sono stati intervistati due volte, nel 2006 e nel 2010, con livelli normali di pressione arteriosa al primo colloquio. I risultati hanno mostrato che il 40% di coloro che hanno fatto almeno 200 ore di volontariato all’anno dopo il 2006 non presentavano fenomeni di ipertensione rispetto a coloro che non avevano fatto volontariato. Il tipo specifico di attività di volontariato non è stato un fattore rilevante, solo la quantità di tempo trascorso ha portato a una maggiore protezione da ipertensione. Secondo la studiosa, dato che soprattutto le persone anziane subiscono transizioni sociali come il pensionamento, il lutto e la partenza dei figli da casa, spesso sono lasciate con minori opportunità di partecipazione alle attività sociali. Il volontariato può offrire connessioni collettive che non potrebbero avere altrimenti. C’è una forte evidenza che avere buone connessioni sociali promuove un sano invecchiamento e riduce il rischio per una serie di esiti negativi per la salute (Carnegie Mellon University, 2013, 425).
L’ipertensione colpisce circa 65 milioni di americani ed è uno dei principali responsabili delle malattie cardiovascolari e la prima causa di morte negli Stati Uniti. Secondo gli studi di Sneed non si può capire con certezza quali tipi di attività di volontariato abbiano un’importanza maggiore rispetto ad altri ma si può ipotizzare che le attività che impegnano mentalmente, come l’insegnamento o la lettura, potrebbero essere utili per il mantenimento della memoria e della capacità di pensiero, mentre altre attività che promuovono l’attività fisica sarebbero importanti per la prevenzione e la cura della salute cardiovascolare (Stephanie Watson, 2013).
Alla luce di quanto fin qui detto sulla relazione tra i comportamenti di aiuto, ora sappiamo dove inserire il volontariato.
Nell’insieme più grande rappresentato dalla relazione di aiuto troviamo la prosocialità che a sua volta contiene l’altruismo. Secondo delle riflessioni personali, alla luce degli studi affrontati, il volontariato ho pensato di poterlo inserire all’interno dell’ultimo “cerchio”. Ha la forma di un triangolo, in quanto possono essere presi in considerazione tre fattori: 1) disposizionali, 2) relazioni familiari primarie e 3) fattori ambientali. E’ un triangolo equilatero, tutti e tre i lati sono uguali e tutti e tre sono di rilevante importanza. Il triangolo deve girare in quanto non ci deve essere un fattore che sia preponderante rispetto agli altri. Il volontario ha la possibilità di alimentarlo, attraverso un processo di consapevolezza ottenuta grazie alla formazione, e farlo girare; è un motore che si alimenta tramite le sue tre dimensioni. Il triangolo/volontariato è garantito dal funzionamento dei cerchi/funzione che lo attorniano. Qualora il triangolo si fermasse su un punto, il volontariato assumerebbe un carattere estrinseco e poco autentico.

Voltariato come processo di crescita
Per le persone, impegnate all’interno del volontariato, è fondamentale acquisire consapevolezza su quanto sia importante coltivare la propria formazione e quanto quest’ultima potrà essere messa a servizio del prossimo.

I bisogni formativi del volontario
Il termine formazione ha avuto molti usi ed ancora oggi la si può intendere in molti sensi. Nel linguaggio pedagogico la parola formazione è sinonimo di educazione, apprendimento. Secondo il Dizionario di Scienze dell’Educazione, la formazione, intesa come processo integrativo dello sviluppo personale, «è un processo in cui la persona umana porta a maturazione le proprie potenzialità soggettive, apprende ciò di cui è carente, consolida le proprie capacità, si abilita a vivere la vita personale e relazionale» (Prellezzo et al, 2008). La formazione al volontariato è un processo fondamentale che traccia il profilo del volontario e che lo accompagna nel cammino segnato dalla consapevolezza e dal libero agire solidale. La persona quando si impegna nelle varie attività di volontariato, al di là dello specifico settore in cui l’intervento viene rivolto, deve avere una buona conoscenza della realtà in cui opera e delle competenze utili per far sì che si possano acquisire le abilità utili per relazionarsi e operare in maniera efficace sia all’interno del gruppo di volontari di cui si fa parte sia in contatto con i destinatari dell’intervento. Soprattutto tra i giovani volontari la formazione e l’educazione all’agire solidale non deve semplicemente essere un sistema di nozioni al fine di “istruire” il volontario. Baden Powell, creatore del movimento dello scoutismo, agli inizi del ‘900 già propone una visione innovativa ancor oggi condivisibile: «il segreto di ogni sana educazione è di far sì che ogni allievo impari da sé, invece di istruirlo convogliando dentro di lui una serie di nozioni base ad un sistema stereotipato. Il metodo è quello di condurre il ragazzo ad affrontare l’obiettivo di fondo della sua formazione, senza annoiarlo con troppi particolari» (Powell, Headquartes Gazette, 1914).
La consapevolezza dell’importanza della formazione è uno dei nodi fondamentali che dovrebbe essere acquisita da chi pratica attività di volontariato, questa ha importanti ripercussioni non solo su se stessi ma anche sugli altri. Proprio per questo motivo i gruppi di volontariato, una volta strutturati, si pongono immediatamente il problema di come darsi una completa e necessaria preparazione (Longobardi, 1996).
La formazione funge da supporto in-formativo e offre la possibilità di comprendere il proprio ruolo e le proprie competenze. Formarsi diventa un modo per potenziare il proprio intervento e permette di riflettere sulle proprie motivazioni e inclinazioni e su ciò che si vuole per il proprio futuro. Più il servizio sarà accompagnato dalla formazione e più risulterà efficace (Arcidiacono, 2004).
Essere ed agire come volontari non significa solo avere buona volontà, tempo, senso dell’altro e della giustizia; significa soprattutto essere consapevoli della risonanza della propria azione che può assumere nel rapporto con l’altro, all’interno della società e delle sue scelte (Rocchi, 1993).
Bramante nel 1996 afferma che la necessità della formazione è duplice, se da un lato è sostenuta ed orientata dal lavoro specifico che si deve svolgere, dall’altro la formazione è un’occasione di crescita per il volontario specialmente per quanto riguarda le motivazioni all’azione, il rinforzo dell’orientamento solidaristico, il senso di responsabilità e la conoscenza di sé (Bramante, 1996).
Sempre più spesso nei gruppo di volontariato c’è un momento nel quale si ha bisogno di attivare dei processi formativi. Questo bisogno, talvolta, non ha un inizio chiaro, viene deciso e basta, in molti altri casi, invece, questa necessità nasce da un’esigenza del gruppo o dalla richiesta di singole persone (Busnelli, 1995). Il processo di formazione alla pratica del volontariato comincia dalla definizione degli obiettivi: il risultato atteso, il cambiamento controllabile che la formazione si impegna a produrre. L’obiettivo per essere efficace è fondamentale che sia espresso in comportamenti e in fatti osservabili. La definizione degli obiettivi è perciò fondamentale e condizionante, obbliga ad esprimere in modo concreto il cammino da fare (Facchinetti, Natella, 2007). La formazione al volontariato, soprattutto quella del giovane, è dettata da una duplice necessità che mira a raggiungere la completezza del giovane.
La formazione dei volontari non si limita ad un momento unico, ma si scioglie articolandosi in maniera tale da permettere il raggiungimento di tre importanti livelli conoscitivi che sono: il “sapere” (ad esempio la teoria), il “saper fare” (le tecniche e le abilità) il “saper essere” (come le motivazioni, gli atteggiamenti e i valori) (Mastromarino, 2013).
La formazione così intesa, attraverso i tre livelli conoscitivi, è una trasmissione di un sapere che, nella prima fase, privilegia la presa di coscienza e una riflessione su eventuali problemi che possono sorgere sulla realtà su cui si andrà ad operare. Nella seconda fase si passa dalla teoria alla pratica e quindi la fase viene rappresentata da una sorta di “tirocinio” nel quale i volontari si mettono alla prova con il saper fare. Il momento della supervisione, che rappresenta un processo di formazione continua e valutazione del saper essere, permette ai volontari, soprattutto quelli più giovani, di entrare in contatto con i vissuti, le emozioni e i sentimenti che vengono suscitati e scaturiti dalla relazione di aiuto.
Il saper essere è la chiave di volta che risiede nel passaggio tra l’apprendimento e il cambiamento all’interno del processo formativo che rappresenta la cultura del cambiamento profondo. Dall’apprendimento al cambiamento avviene questo passaggio nella formazione del volontario: lo coinvolge in prima persona in un processo di crescita che comprende tutti e tre i livelli conoscitivi (Rocchi, 1993). Il processo formativo può essere sintetizzato in questo modo (Ibidem):
conoscenza della realtà specifica in cui si deve operare e capacità di collocare il proprio intervento in una politica sociale più ampia;
conoscenza e sistematizzazione delle acquisizioni ed elaborazioni concettuali e culturali di una formazione base;
acquisizione di competenze e tecniche specifiche e polivalenti;
individuazione e analisi delle proprie motivazioni, potenzialità e risorse.
Agire come volontari permette di innescare un potenziale formativo ed autoformativo forte, in quanto richiede e consente lo sviluppo di un approccio attivo, responsabile e propositivo alla comunità e alla società. Può proporsi come arena formativa il non imporsi: questo permette di sollecitare una presa di coscienza della priorità da dare a questo ruolo, in affiancamento alle proprie attività e un processo di trasformazione interna che lo metta in condizioni di svolgerlo efficacemente (Ajello, 2012).

Un metodo di formazione
Un metodo formativo che può essere sperimentato all’interno del volontariato è il cooperative learning che nasce dal raccordo di un insieme di considerazioni quali: l’individuazione di questo modello come metodo innovativo e più adeguato alla gestione dei gruppi; le caratteristiche tipologiche delle associazioni di volontariato; l’analisi critica dei metodi di gestione dei gruppi di lavoro utilizzati nell’ambito di volontariato (Atzei a cura di, 2003).
Il cooperative learning si riferisce, ancora prima che a uno specifico metodo di insegnamento/apprendimento, a un vasto movimento educativo che pur avendo delle prospettive teoriche diverse, applica delle particolari tecniche di cooperazione nell’apprendimento in classe. Ciò che accomuna la ricerca e l’applicazione del cooperative learning è l’accentuazione del rapporto interpersonale nell’apprendimento: essa è così forte da rappresentare il perno attorno al quale ruotano tutte le altre variabili come la motivazione e i processi cognitivi. Il cooperative learning può essere visto e descritto sia come un movimento educativo che come un metodo didattico – educativo (Comoglio, Cardoso, 1996).
Questo metodo può essere spiegato come apprendimento o metodo cooperativo. Di fatto il cooperative learning viene definito anche come un metodo di lavoro che facilita lo scambio reciproco, tende a eliminare la competizione fine a se stessa promuovendo le capacità di apprendimento e di integrazione in modo maggiore rispetto ai metodi tradizionali e porta ad acquisire una modalità di lavoro di reciproca responsabilità.
Affinché possano essere formati gruppi di cooperative learning, per esempio nel caso della scuola, bisogna esortare gli studenti ad aiutarsi reciprocamente o assegnare un lavoro da fare in comune. Affinché il gruppo si possa formare, è necessario che siano presenti alcune caratteristiche fondamentali: innanzi tutto l’interdipendenza positiva; l’interazione face to face; l’insegnamento e l’uso delle competenze sociali nell’agire in piccoli gruppi eterogenei; la revisione di controllo costante dell’attività svolta e la valutazione individuale e di gruppo (Busnelli cit. in Atzei a cura di, 2003).
Il prof. Mario Comoglio, dell’Università Pontificia Salesiana, nel 1994 con circa venti presidenti di organizzazioni di volontariato romane organizza il primo campo scuola sul cooperative learning aperto a livello nazionale. A questo evento nel ’95 parteciparono circa centoventi persone provenienti da molte parti d’Italia e impegnate in diverse esperienze e organizzazioni come gruppi di volontariato, parrocchie, associazioni giovanili, sindacati, cooperative sociali. Quello che sembrava rilevante era l’importanza di saper far gruppo e lavorare con gli altri all’interno delle organizzazioni sociali. Grazie a questa idea innovativa, nel tempo, è stato possibile riproporre questa esperienza strutturandola mediante altri livelli (Atzei, 2003).
La Fondazione Italiana per il Volontariato ha deciso di investire su questo metodo, il cooperative learning che non va considerato solo come metodo di lavoro ma anche come ‘filosofia’: una modalità di essere in relazione con gli altri.

I mezzi di comunicazione per coinvolgere al volontariato
Una volta appresi quali possano essere i tipi e i gruppi di formazione proposti per i volontari si tratta ora di capire con quali idee e mezzi si possano coinvolgere le persone a partecipare all’interno del volontariato.
Un mezzo molto efficace risulta essere il “passaparola” e l’utilizzo di testimonianze dirette. Secondo alcune ricerche italiane (Boccacin, 1997) il volontario inizia la propria attività solidale soprattutto su invito di parenti, amici e volontari. Il passaggio di parola, il raccontare la propria esperienza al prossimo (positiva) serve allo scopo di incuriosire coloro che a malapena conoscono il mondo del volontariato (Ambrosini, 2004).
Un altro modo possibile è quello della divulgazione all’interno delle scuole, nei luoghi di aggregazione soprattutto giovanile (come concerti, manifestazioni…) e sul territorio locale. Per quanto riguarda l’invito proposto ad interagire nelle organizzazioni di volontariato, non si tratta solo di promuovere un messaggio da parte delle associazioni ma anche di educare da parte della stessa istituzione.
La televisione, Internet, la pubblicità sui manifesti con l’utilizzo di slogan accattivanti possono essere un’altra tipologia di persuasione per conoscere le realtà del volontariato. I mass media sembrano avere, però, un ruolo minore rispetto i mezzi di comunicazione più diretti, quelli vissuti in prima persona. Anche all’interno del cinema atteggiamenti solidali quali il comportamento prosociale e vari tratti altruistici, legati alla pratica dell’agire volontario, possedevano e possiedono tutt’ora una grande rilevanza: la forza evocativa del cinema che permette di fondere foto, musica e movimento permette anche di unire esperienze raccontate e vissute in prima persona, unite al processo emotivo che viene attivato dalle diverse immagini. Un film che fa molto riflettere riguardo a ciò è “Un sogno per domani”. Siamo all’interno di una scuola media americana al primo giorno di scuola. L’insegnante protagonista, interpretato da Kevin Spacey, assegna un compito per casa ai suoi ragazzi: “Che cosa puoi fare per cambiare il mondo? Mettilo in pratica”. Varie saranno le risposte dei ragazzi, ma in particolare risulta sorprendente e intuitiva quella di Trevor, concretizzata nello slogan: “Passa il favore!” Trevor è un bambino generoso che prende le cose sul serio. E seriamente decide di cambiare il mondo, nel suo piccolo, prendendo spunto da quel compito. Decide di fare tre buone azioni destinandole ad altrettante persone che, a loro volta dovranno ricambiare ad altre tre persone, e così via (Leder, 2000, USA). Oltre alla comunicazione proposta dai mass media è opportuno parlare dei diversi Servizi di Volontariato che oltre ad un ruolo di promozione pubblicitaria del volontariato, possono esercitare una grande funzione di orientamento per far incontrare domanda e offerta al volontariato, fornire formazioni e aggiornamento ai volontari e il lavoro in rete tra le varie organizzazioni (Ambrosini, 1999).

Conclusioni
Con questo articolo abbiamo analizzato e trattato il volontariato inteso come una forma di aiuto programmato e come un fenomeno complesso e in continua dinamicità. Abbiamo osservato come questo fenomeno possa essere inserito all’interno della prosocialità e della formazione personale nella quale ogni persona può decidere di operare il proprio agire solidale. Abbiamo sottolineato l’importanza della formazione nell’ambito del volontariato e del cooperative learning come modello privilegiato di formazione.
Per concludere, il volontariato a livello di partecipazione sociale sviluppa nei volontari:
una consapevolezza morale e politica;
un senso di appartenenza, che riduce il livello di isolamento e alienazione nei giovani;
una condivisione di azioni ed emozioni attraverso i momenti di condivisione e di formazione del saper essere, per cui i giovani entrano in relazione con il proprio vissuto e quello degli altri.
Il volontariato permette dunque di emergere e di riconoscersi come persona. L’augurio che sento di fare al termine di questo scritto a chi approccia per la prima volta, ma anche a chi opera da tempo nel mondo del volontariato, è di scoprire ogni giorno la bellezza del servizio, di maturare la consapevolezza che ogni giorno ci si può donare e scoprire la gioia di spendersi in sacrificio. Mi piace pensare che, come nel film “Un sogno per domani”, una persona possa donare tutta se stessa ad altre persone che, a loro volta, sentano l’urgenza di ricambiare il favore ad altre persone e così via in maniera esponenziale. In un primo momento sembrerà di essere come tanti piccoli sassolini che vengono buttati “silenziosamente” nell’oceano. Ma con impegno, dedizione e consapevolezza quei ciottoli potranno diventare vere e proprie montagne. Il volontariato non è solo un fenomeno che si manifesta in tante organizzazioni benefiche ma è un’opportunità di crescita che può cambiare il mondo e renderlo migliore di come lo si è trovato.

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I senza dimora, analisi psicologica del fenomeno Luca Romano

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Il tema trattato da questo articolo è quello delle persone senza dimora, migliaia di individui che spesso vengono ignorati o peggio ricacciati dalla società e che vivono in condizioni psico-fisi­che che spesso rasentano la sopravvivenza. Lo scopo di questo articolo è quello di conoscere e approfondire la particolarità di questo fenomeno, analizzando in particolare, dal punto di vista psi­cologico, le principali teorie e i processi graduali attraverso cui la persona può giungere a certi stati di emarginazione e di disagio, raccontando le di­verse strategie di “sopravvivenza” utilizzate ogni giorno e infine sottolineando il forte ruolo che hanno gli stereotipi e lo stigma della società nella perpetuazione del fenomeno.

La povertà e la povertà estrema
La povertà in sé e in particolare la presenza dei “poveri” sono delle realtà purtroppo onnipre­senti nella storia dell’umanità. Il fenomeno, nel corso dei secoli, ha cambiato volti e definizioni, ha compreso fasce più o meno ampie di popola­zione, ha conosciuto le più variegate articolazioni e, di risposta, ha rivelato le diverse sensibilità dell’uomo e le più differenziate forme di in­tervento. “Si potrebbe dire che la povertà si è sempre nutrita delle nuove povertà, modificandosi incessantemente” (Paglia, 2014, 13) in risposta alle diverse condizioni storico-culturali, che so­prattutto oggi, in una società complessa, vedono numeri e varietà di persone in difficoltà sempre più ampie. Se i primi studi sociologici sulla “so­cietà tradizionale” evidenziavano la staticità e una connotazione prevalentemente socio-economica del fenomeno (povertà come status sociale), oggi prevale una visione dinamica e multidimensionale della povertà, che evidenzia l’importanza delle di­mensioni temporali e soggettive e delle compo­nenti relazionali e simboliche (povertà come pro­cesso di impoverimento) e che sottolinea l’amplia­mento della privazione a fattori di carattere socia­le, culturale e ambientale, il tutto in un processo dinamico e di interdipendenza multidimensionale (Filippini, 2007). Una definizione che richiama queste caratteristiche può essere quella del Comi­tato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite (2012)1, che la definisce come “una condizione umana caratterizzata dalla privazione continua o cronica di risorse, capacità, opzioni, si­curezza e potere necessari per godere di un tenore di vita adeguato e dei diritti civili, culturali, eco­nomici, politici e sociali” (E/C.12/2001/10, par. 8). Da questo presupposto, possiamo dire che la povertà estrema può essere inquadrata come “una combinazione di penuria di entrate, sviluppo uma­no insufficiente ed esclusione sociale” (A/HRC/7/15, par. 13), in cui una mancanza pro­lungata della sicurezza fondamentale di base inte­ressa contemporaneamente vari aspetti dell’esi­stenza umana, compromettendo seriamente le possibilità delle persone di esercitare o riacquisire i propri diritti in un futuro prevedibile (E/CN.4/Sub.2/1996/13). Qualche anno prima il secondo Rapporto sulla povertà in Italia (1992) definiva la povertà estrema come “la condizione umana nella quale la grave insufficienza di reddi­to economico si abbina ad una serie di elementi negativi tra loro correlati, quali la mancanza di sa­lute, di famiglia, di lavoro, di casa, di conoscenza, di sicurezza che collocano di fatto la persona ai margini della società e ne rendono problematica l’integrazione” (Commissione sulla povertà e sull’emarginazione, 1992, 87-88).
Figlia di questo tempo e di una visione mul­tidimensionale e dinamica della povertà è la figu­ra del “senza dimora”, che si situa sicuramente nella condizione di povertà estrema appena deli­neata e la cui definizione rispecchia connotazioni psicologiche ed affettive che si integrano con aspetti puramente fisici e materiali.

Per una definizione di senza dimora
Vagabondo, Barbone, Clochard, Homeless, Sans Abri, Senza tetto, Senza dimora, Senza fissa dimora… Da sempre il tentativo di definizione di un fenomeno tanto complesso quanto eterogeneo ha trovato difficoltà di elaborazione, rischiando spesso di essere guidato da concezioni moralisti­che, semplicistiche ed empiricamente riduttive.
La scelta del termine dimora rispecchia la triplice accezione di luogo fisico, sociale e giuri­dico (Zuccari, 2012), nonchè l’espressione della componente psicologico affettiva e dell’identità relazionale dell’individuo (Caritas, 2005): se il termine “senza tetto” (in inglese houseless) richia­ma più la mancanza di una casa in senso fisico e materiale, e quindi l’esito del funzionamento di una qualsiasi società (teorie di stampo sociologi­co), parlare di “senza dimora” (in inglese homeless) tira in ballo una serie di vicissitudini individuali e determinanti intrapsichiche (teorie di stampo psicologico) (Lavanco, Santinello, 2009), che, in un’integrazione tra aspetti materiali e rela­zionali, sembrano ricondurre all’assenza di quel “luogo (ma anche momento) del proprio riferi­mento di identità relazionale”, quel “punto da cui partire e a cui tornare ogni giorno”, quello “spazio in cui proteggere e ricostruire quotidianamente se stessi”, quel “minimo terreno geografico del pro­prio potere e luogo per una condivisione scelta”, descritto da L. Gui (1995, 12). Inoltre, mentre qualcuno preferisce aggiungere l’accezione “fis­sa” perché richiama l’idea del tempo necessario e sufficiente ad elaborare un progetto di vita (Bonadonna, 2001), qualcun altro preferisce ometterlo poiché ritiene richiami invece “defini­zioni legislative legate all’idea di vagabondaggio o un lessico di questura” (Landuzzi, Pieretti, 2003, 57).
Nel corso della storia e nelle diverse ricer­che italiane sono state utilizzate diverse definizio­ni, tenendo anche conto della complessità ed ete­rogeneità di questo fenomeno, il cui studio pre­senta problemi di tipo naturale, politico e metodo­logico. Una di queste, che ne rispecchia la com­plessità, dinamicità e multidimensionalità, è quel­la usata dalla FIO.psd (Federazione Italiana Organismi per le Persone senza Dimora) che parla di senza dimora come di un “soggetto in stato di povertà materiale e immateriale portatore di un di­sagio complesso, dinamico e multiforme”, evi­denziando come fattori che si intrecciano e si au­toalimentano: la multidimensionalità del proble­ma, la progressività del percorso emarginante e cronicizzante, la difficoltà di contatto con i servizi istituzionali e di costruire e mantenere relazioni significative (FIO.Psd, www.fiopsd.org).
Il numero dei senza dimora in Italia nelle ri­cerche lungo gli anni è variato molto anche per motivi metodologici; ma preziose sono state le ul­time due stime da parte dell’Istat, in collaborazio­ne con il Ministero del lavoro e delle politiche so­ciali, la Caritas e la FIO.psd, che, nel 2014, stima­no in 50.724 (con una forbice tra 48.966 e 52.482) le persone senza dimora che, nei mesi di novem­bre e dicembre 2014, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna (dati in leggero aumento rispetto a quelli del 2011) (Istat, 2014).

Percorsi e traiettorie di impoverimento ed emarginazione
In una società che tende a categorizzare e a mantenere ancora stereotipi radicati nel passato, che rischiano di formare stigmatizzazione e di­stanza (elementi pienamente partecipanti alla ca­duta nello stato di isolamento e degradazione psico-fisica dei senza dimora), è importante to­gliere il filtro e la barriera invisibile che distanzia le persone “normali” da quelle che vivono per strada, nell’intento di analizzare lucidamente i percorsi e le traiettorie, imprescindibilmente indi­viduali, che portano a questa condizione. Per fare questo è importante “comprendere la vera natura dei molteplici aspetti che compongono questo mosaico di desolazione e privazione”, cercando di esaminare i meccanismi psicologici e sociali che intervengono, consapevolmente o inconsapevol­mente, nel determinare questa lenta e inarrestabile caduta e scivolamento verso una condizione di morte civile e fisica (Guidicini, Pieretti, Bergama­schi, 2000, 130). Analizzeremo, quindi, le princi­pali teorie sulla caduta nella condizione di senza dimora, nonché sui più importanti processi psico­logici e sociali che determinano il vissuto di que­ste persone.
Lo studio di questo fenomeno, come detto, può essere affrontato secondo due approcci: uno sociologico ed uno psico-sociale.
Per quanto riguarda l’approccio sociologico ripor­tiamo alcuni processi macro-sociali di questo tem­po, nella certezza storica che ogni società fa le sue vittime. Spanò (2007) individua tre linee di ten­sione della società contemporanea, detta anche so­cietà del rischio (Beck, 2000), dell’incertezza (Bauman, 1999), del nomadismo (Maffesoli, 2000):
a) il processo di globalizzazione, la cui concorrenza internazionale genera un quadro di crescente vulnerabilizzazione del lavoro e di precarizzazione dei percorsi lavorativi;
b) la fragilizzazione delle relazioni sociali, i cui segni si notano nella crescente instabilità familiare, individualizzazione, crollo delle ap­partenenza e solidarietà collettive, e nella ca­duta in processi di désaffiliation (Castel, 1991), cioè di rottura dei legami sociali e lavo­rativi;
c) la progressiva frammentazione dei per­corsi di vita, dovuta all’assenza di copioni of­ferti dalla tradizione o dalla coscienza colletti­va e alla chiamata per l’uomo a fronteggiare continuamente situazioni che rischiano di compromettere la stabilità biografica a causa di un numero indefinito di possibilità in ogni ambito della loro vita (rischio di “paralisi bio­grafica”) (Clarizia, Spanò, 2007).
Pieretti e coll. (2000), parlando dell’essere senza dimora come un sottoprodotto della globalizzazione, sostengono che “i “muscoli” per stare dentro a questo sistema non ce li hanno più soltanto gli emarginati, ma non ce li ha forse più nessuno” e che “dobbiamo capire che può essere fisiologico e non più patologico cadere nell’emar­ginazione grave o nei percorsi di povertà estrema” (Guidicini, Pieretti, Bergamaschi, 2000, 72).
La lettura psico-sociale di questo fenomeno sotto­linea (a differenza di quella prettamente sociolo­gica) non solo la mancanza di una casa, ma anche la carenza di legami sociali e di appartenenza, nonché la scarsità di risorse personali per far fron­te alle proprie condizioni di vita, rendendo in que­sto modo la povertà solo uno dei differenti fattori di rischio in grado di portare a tale situazione (La­vanco, Santinello, 2009).
Le teorie sul deficit e le teorie sulla crisi
Questo approccio, in particolare, si ramifica in due teorizzazione fondamentali: le teorie sul deficit e le teorie sulla crisi.
Le teorie sul deficit sostengono come alcuni deficit personali possano contribuire a determina­re la condizione di senza dimora. Tra questi i più rilevanti sono la malattia mentale, la tossicodipen­denza, lo scarso livello degli studi scolastici, la mancanza di un’occupazione lavorativa, problemi di salute fisica, la mancanza di abilità nel mante­nere una rete (Ivi). In particolare i primi due svol­gono per molti studiosi un ruolo principale nel de­terminare e mantenere questa condizione: per quanto riguarda il primo, secondo alcuni studiosi, abuso di sostanze e condizione di senza tetto sono reciproci fattori di rischio, in una influenza bidire­zionale (Johnson, Freels, Parson, Vangeest, 1997 in Lavanco, Santinello, 2009); per quanto riguar­da il secondo, non è chiaro se la malattia mentale possa avere un ruolo causale oppure manifestarsi come una conseguenza della deprivazione in per­sone vulnerabili; sta di fatto che Sosin (2003) so­stiene questa possa essere una reazione alla loro condizione, individuando che il 20% delle perso­ne senza dimora sviluppa, dopo essere finiti per strada, sintomi depressivi o psichiatrici; inoltre, i dati suggeriscono un numero inferiore della pre­senza di questo deficit di quanto prima si stimasse (in Italia si parla di circa il 10%; negli Stati uniti dal 15% al 30%) (Ibidem).
Le teorie sulla crisi, invece, sottolineano l’influenza sul benessere e sull’adattamento del soggetto da parte del contesto, e introducono il concetto di “evento critico“ come momento che richiede una riorganizzazione degli strumenti co­gnitivi, relazionali e strutturali, abitualmente usati nella gestione dei propri eventi di vita (Francesca­to, Tomai, Ghirelli, 2003; Ollendick, Offman, 1982 in Lavanco, Santinello, 2009, 27). I più co­muni eventi critici sono la perdita del lavoro e la rottura di rapporti significativi, come separazioni e divorzi (Munoz et al., 1999, in Lavanco, Santi­nello, 2009), e la crisi innescata da questi incide diversamente sulla persona a seconda delle sue ri­sorse, soprattutto di tipo personale, come la capa­cità di coping (Noth, Smith, 1992, in Lavanco, Santinello, 2009), fino a segnare spesso una frat­tura netta nella biografia di queste persone e por­tare ad uno stato di vulnerabilità individuale (Daly, 1993; Munoz at al., 1999 in Ibidem). Inol­tre secondo Meo (2000), più che le caratteristiche intrinseche dell’evento, sono determinanti la per­cezione soggettiva e il significato personale che il soggetto gli da’, e questi ultimi a loro volta dipen­dono dalla sua storia personale, dalle risorse ma­teriali e simboliche di cui dispone, dall’ambiente in cui è inserito e il momento in cui si verifica (Meo in Lavanco et al., 20072).
A mediare tra questi due rami di teorie è So­sin (2003) che parlando di un approccio multi-sta­diale e multi-fattoriale integra fattori legati a defi­cit personali (povertà, scarsità di risorse personali, malattia mentale) con fattori di tipo situazionale, facendo riferimento al presentarsi di eventi critici sia multipli che singoli (Lavanco, Santinello, 2009). Si deduce, quindi (come spiegheremo nel terzo capitolo), che “se l’inizio di una tale espe­rienza di vita è dovuto a fattori multipli, analoga­mente l’uscita non può che essere il risultato di più processi” (Ivi, 29).

Teoria degli eventi traumatici e cumulativi
Uno sviluppo della teoria della crisi ha spin­to a porre l’attenzione maggiormente sul fattore “tempo”, e quindi sui percorsi di caduta e sugli aspetti processuali e dinamici di questo fenomeno. Si parla di un “processo” come “evoluzione del crescente disagio e del relativo degrado sul piano fisico e relazionale”, nonché di una “condizione di precipitosa involuzione verso il basso” (Gui, 1995, 29). L. Gui (1995) a proposito parla di “punti di rottura”, eventi catastrofici (i più gravi quelli di tipo relazionale) a partire dai quali le per­sone leggono la propria storia; cita inoltre Ber­zano (1991) il quale rintraccia nel “divenire” della condizione di senza fissa dimora una sequenza di “sradicamenti progressivi e cumulativi” dal lavo­ro, dai mondi vitali, dal territorio, dagli standard di vita collettiva, il che connota l’esclusione come un fenomeno cumulativo e multidimensionale in una società complessa in cui i fattori di dimensio­ne oggettiva e soggettiva si intrecciano formando gradi di povertà più complessi e più gravi (Berza­no in Pellegrino e Verzieri, 1991). I processi di ac­crescimento della complessità sociale, quindi, ol­tre ad aver arricchito la gamma di possibilità di realizzazione per l’uomo post-moderno, ne hanno anche moltiplicato le vie attraverso cui si può per­dere aderenza con le proprie cerchie sociali di ri­ferimento, differenziando così i rischi di esclusio­ne sociale (Gui, 1995). In particolare da sottoli­neare è la concezione di povertà come sistema di differenze socio-culturali, invece che semplice­mente di diseguaglianze economiche. A proposito esemplificativo è il modello multidimensionale di G. Germani3 e la considerazione di Clarizia e Spa­nò (2007) del fatto che le reazioni dei soggetti agli stressfull events siano significativamente influen­zati dal set di risorse materiali e simboliche a loro disposizione (Clarizia, Spanò, 2007), e che, di conseguenza, i percorsi di esclusione di queste persone sono differenziati a seconda del ciclo di vita personale e familiare, dell’origine territoriale e sociale, dell’età, del genere, dell’istruzione, ol­tre che della presenza o dell’assenza di reti solida­li di sostegno (Ivi). Le autrici nella loro ricerca a Napoli individuano tre principali traiettorie di ca­dute in povertà che rispecchiano la diacronicità temporale e l’interazione tra stressfull events (Ivi):
dall’area della povertà tradizionale a quella della homelessness: questi soggetti pro­vengono da ambienti familiari e sociali di per sè deprivati dal punto di vista econo­mico, relazionale, formativo, che costrui­scono un “milieu” così degradato da ren­dere vano persino un eventuale ritorno in famiglia; essi spesso si auto-escludono dai servizi ed anche un eventuale contatto si limita a pura sussistenza; costituiscono la homelessness “più disperata”.
Dall’area della “normalità” a quella della homelessness tipica della metropoli: questi soggetti ricevono un set di risorse apprez­zabile da reti familiari e parentali abba­stanza funzionanti, ma un susseguirsi di eventi scioccanti li “indeboliscono ed esauriscono la loro capacità di trovare ri­sposte alle difficoltà”, portandoli a forme spaventose di isolamento dalle cerchie di appartenenza in cui restano imbrigliati e senza possibilità di accedere ai servizi.
Dall’area della piena inclusione a quella della marginalità sociale: questi soggetti hanno ricevuto da famiglia e istituzioni una buona dotazione di “capitale cultura­le”, hanno anche avuto carriere lavorative “di tutto rispetto”, ma queste continuità biografiche sono state bruscamente inter­rotte da un evento catastrofico a cui ha se­guito una parabola discendente; si parla di una società che sta abbandonando garanzie occupazionali, di instabilità coniugale, di caduta in dipendenze (alcool, gioco d’azzardo, droga). Anche in caso di tentati­vi di “ricomposizione di sé”, i loro percor­si “diversi” trovano barriere strutturali, fa­miliari e sociali che li intrappolano in un “limbo” (la marginalità sociale) che dista “un passo”, ma in realtà si tratta di “abis­so”, dal rientro in società (Ivi).
Ulteriore contributo tra gli autori che parla­no di una dinamica accumulazione delle condizio­ni critiche e di stressful events, è quello di N. Ne­gri (1993) che parla di una “interazione tra i disa­gi”, in cui sia gli own career effect (che attengono alla sfera specifica della vita individuale come il lavoro) sia i cross career effect (che contemplano l’integrazione tra ambiti anche diversi, come fami­glia e scuola), influenzano le molteplici “carrie­re”4 della vita del soggetto (Ivi). Egli inoltre parla del concetto di “sindrome di povertà”, indicando la caduta verso l’emarginazione come “un cammi­no di regressione” ed indica la povertà non come situazione statica, ma come “sindrome” che si ag­grava nel tempo, in un percorso punteggiato di “crisi” (Negri in Gui, 1995). I poveri, per l’autore, sono quelle persone che si trovano deprivate della “dotazione minima di beni principali per stabilire con gli altri rapporti di cooperazione”, il che porta all’impossibilità di sentirsi in toto “cittadini”, la perdita di capacità di strutturarsi come persona, di formulare strategie, di dar forma ai propri fini (Ibidem). Per ogni persona, allora, l’autore ipotiz­za una costellazione di eventi critici che portano alle diverse sindromi di povertà, fino a giungere ad ipotizzare i “percorsi tipici di destrutturazione dei soggetti”, a suo avviso differenti a seconda dell’istruzione, del reddito, del sesso, dell’origine territoriale e sociale, del ciclo di vita personale e familiare (Ibidem).

La teoria delle micro-fratture e la soglia di non ritorno
Contrario a questa lettura del cumulo degli eventi traumatici a seguito delle trasformazioni avvenute nella nostra società negli ultimi anni è G. Pieretti (2003), secondo il quale il ritenere sen­za dimora una qualsiasi persona che ha subito uno o più eventi traumatici significherebbe far rientra­re in questa categoria “milioni di persone in Euro­pa che sono state sfrattate, licenziate, che sono se­parate, ammalate, divorziate e via di questo pas­so”, mentre fortunatamente il numero effettivo dei senza dimora è straordinariamente più basso (Landuzzi, Pieretti, 2003). Questa teoria, per l’autore era connotata da un rigido rapporto di causa-effetto, nel quale una somma di condizioni socio-culturali (bassa condizione socio-economi­ca, scarsa istruzione, famiglia disagiata, famiglia “a rischio”, occupazione subalterna e precaria), e quindi la posizione sul piano della stratificazione sociale, creavano una predestinazione che si ac­centuava con l’incontro di situazioni traumatiche o comunque pesanti la cui accumulazione e com­binazione portava quindi a finire per la strada (Ivi).
Ora, secondo Pieretti questa visione tradi­zionale della povertà estrema, che seguiva teorie di stratificazione sociale e di traumi cumulativi, non è più adatta ad una società a complessità ele­vata (Ibidem), ma sarebbe opportuno parlare, “più che di povertà al singolare, di plurali e differen­ziate forme di povertà attorno a cui la città si ridi­segna” (Pieretti in Guidicini, 1991, 184-185); l’autore sottolinea, quindi, una differenza qualita­tiva, una discontinuità tra la povertà tradizionale e le povertà estreme, le quali, non riducendosi solo a soglie ben definite di entrate e/o consumi, sono caratterizzate da ragioni specifiche, motivazioni e comportamenti soggettivi e conducono a specifi­che condizioni di vita (Guidicini, Pieretti, Berga­maschi, 1995; Landuzzi, Pieretti, 2003).
Dunque, alla precedente “iconografia suffi­cientemente tradizionale”, che vale per qualcuno ed esiste ancora, ma non è più prevalente ed esau­riente, Pieretti prova a sostituire una visione più profonda e lacerante di eventi traumatici, che si focalizzi sui passi che si percorrono prima di fini­re in strada. Per fare questo l’autore circoscrive il campo dei senza dimora alle cosiddette povertà simbolico-esistenziali, sottolinea l’importanza del termine dimora in quanto focolare, “spazio per il Sé […] che consenta l’elaborazione psichica della risposta”, e soprattutto parla di un problema psi­chico, legato alla psiché, cioè all’anima, riferen­dosi a qualcosa di più profondo e diverso dallo psichiatrico o psicoanalitico (Ivi). Per povertà ur­bana estrema Guidicini e Pieretti (1995)5 intendo­no: “una sequenza di rotture biografiche che inte­ressano sia la personalità che il tessuto sociale” e fanno riferimento all’esistenza di un’area del non ritorno, una sorta di soglia che contraddistingue l’incapacità-riluttanza di provvedere a sé stessi, il cui processo di caduta è chiamato di decomposi­zione e abbandono del Sé; questo tipo di processo irreversibile induce un ritiro dal mondo esteriore che designa l’incapacità di «fare territorio» per cui il soggetto perde progressivamente interessi nelle relazioni umane e in ogni tipo di contatto” (Guidicini, Pieretti, Bergamaschi, 1995). Questa definizione rientra in quella che è chiamata teoria delle micro-fratture, la quale evidenzia come il processo di isolamento si sviluppi secondo micro-variazioni difficilmente percepibili sia dal sogget­to che dall’esterno, secondo un processo giorna­liero, lento ma irreversibile (Ivi). Secondo questa teoria i famosi avvenimenti traumatici possono in­tervenire solo come elementi autonomi, ma mai come ragione ultima e scatenante, in quanto il percorso che conduce alla povertà estrema è mol­to più lungo, complesso, disseminato di riassesta­menti costanti nei confronti del mondo esterno ai quali non seguono quasi mai ricostruzioni funzio­nali: “l’adattamento si produce sempre ad un li­vello inferiore di riassestamento, caratterizzato da una limitazione delle proprie capacità relazionali e di autodeterminazione” (Ivi). Possiamo dunque definire i passaggi che determinano la caduta in questa nuova fascia di povertà, non escludendo differenze intrinseche (Ivi):
a) abbandonare la generica teoria del “recu­pero” o “rientro” di questi soggetti nel processo produttivo/consumistico;
b) caduta in una zona del non ritorno, a se­guito di rotture che si accumulano;
c) rinuncia a qualsiasi controllo, gestione ed uso dello spazio fisico, che si fa sempre più esteriore, una realtà esterna (incapacità di fare territorio);
d) costruzione di un ruolo-immagine di sé stessi e abbandono di qualunque motiva­zione, inclusa quella alla vita (decomposi­zione e abbandono del Sé);
e) estrema limitazione del proprio sistema re­lazionale, con una maggiore concentrazio­ne in aree con elevate densità demografica e urbanizzazione;
f) progressiva rottura dei legami di solidarie­tà, del sistema relazionale proprio di una “cultura della povertà” e dei diversi sotto­sistemi della vita quotidiana.

Le rotture successive
In una società dell’inclusione, l’esclusione equivale all’indebolimento della socialità e della solidarietà, alla rottura all’interno di un sistema generale di inclusione e di protezione; per cui per giungere sulla strada, “bisogna scendere lenta­mente tutti i gradini della scala della protezione e bisogna che vengano meno gli ammortizzatori co­struiti per trattenere colui che scivola via” (Laé, Lanzarini, Murard in Guidicini, Pieretti, Berga­maschi, 1995, 77). Le rotture successive proposte dalla ricerca transnazionale descritta nel manuale “Povertà urbane estreme in Europa” (1995) sono legate a quattro problemi, interconnessi tra di loro (Ivi):
1. il territorio: un buon indicatore di intensità del­la rottura è il luogo in cui si trova l’uomo sulla strada; quest’ultimo può vivere in un quartiere vicino a dove è nato, vissuto, o semplicemente dove ha trovato riparo, accoglienza, mendicità. Ogni allontanamento dalla sua storia si mani­festa in un cambiamento di alloggio; quest’ultimo non ha solo un senso fisico, ma implica la socialità, l’intimità, la domesticità; è inoltre definito come l’ultima rottura prima della strada, e nel senso fisico racchiude tutte le rotture, in particolare quella familiare. La­sciando tutto l’uomo si libera, ma corre il ri­schio della perdita dell’intimità e del sé;
2. la rete sociale: la parentela e la famiglia sono state utilizzate e sfruttate fino all’esaurimento; quest’ultima fino a quando non sarà totalmen­te sfinita ed il soggetto non avrà oltrepassato i limiti dell’inclusione riserverà sempre un po­sto per lui, ma non appena vedrà minacciata la sua stabilità e sicurezza sarà costretta ad allon­tanarlo, dandogli così un disconoscimento, una perdita di valore; ci saranno dei ritorni al­ternati ma la relazione sarà più che altro imita­tiva e piano piano inizierà a svuotarsi. La moglie (che ha abbandonato o da cui è stato lasciato) e tutte le altre donne sono diventate inavvicinabili. Gli amici, infine, sono scom­parsi a seguito di queste cadute a cui hanno a volte contribuito, a volta prevenuto;
3. il lavoro: la disoccupazione non porta diretta­mente alla vita sulla strada, ma passa per un sovrainvestimento della famiglia e del vicina­to; piccoli impieghi dequalificati o precari, anni privi di attività, e il riferimento al lavoro sfuma, il lavoro viene progressivamente can­cellato dall’orizzonte, cessando di essere il vettore della biografia. Nonostante buone op­portunità e sostegno di colleghi, bastano pic­cole incomprensioni, imprevisti, “problemi personali”, litigi, ripetute mancanze e la possi­bilità di un’ulteriore chance svanisce;
4. le istituzioni: l’uomo sulla strada ha sfruttato fino ad esaurimento i servizi sociali per la po­vertà ordinaria, rendendo loro il lavoro diffici­lissimo a causa della sua vita intricata, ma non si è mai installato stabilmente nelle istituzioni più o meno totali (ospedale psichiatrico, pri­gione, centro per l’infanzia, centro di preven­zione, di educazione, centro di accoglienza) da cui è stato ogni volta rigettato o da cui è uscito a seguito di fallimenti e disadattamenti secon­dari, facendo scivolare su di lui ogni azione e senza essere raggiunto. Prima di giungere alle istituzioni totali (come il centro di urgenza o il centro di accoglienza) che sa essere quelle estreme, per chi non ha più nessuno, farà la prova della strada;
5. la prova della strada: la vita sulla strada impli­ca una degradazione dello status e richiede un equipaggiamento mentale, delle energie e del­le capacità difficili da sostenere e che mettono a dura prova il soggetto (la fame, il freddo, l’impossibilità di nascondersi, la mendicità, gli sguardi della gente). Di fronte a questa prova alcuni fuggono tornando in famiglia o trovan­dosi qualche lavoretto, altri si formano queste competenze per fare carriera sulla strada.

Decomposizione e abbandono del Sé
Ritornando alla definizione data precedente­mente, le povertà urbane estreme sono legate ad una serie di rotture che interessano prima di tutto la personalità: per gli autori si parla più di anima, in quanto si rimanda “a questioni percettive, inte­riori, intime, a modi di percepire e di elaborare la realtà, non necessariamente alla realtà” (Landuzzi, Pieretti, 2003). Inoltre questo tipo di povertà è ca­ratterizzata per una incapacità-riluttanza di prov­vedere a sé stessi, detta processo di decomposi­zione ed abbandono del Sé. Se analizziamo parola per parola questo termine ne possia­mo comprendere la peculiarità: processo, ovvero il contrario di stato, suggerisce qualcosa in movi­mento; decomposizione e abbandono del Sé non è una definizione ontologica, ma situazionale, in quanto è stato possibile “misurare” i segnali di questa incapacità-riluttanza tramite degli indica­tori biografici oggettivati, funzionanti con uno schematismo binario e calcolabile numericamente (ad es. ce l’hai o no la carta di identità?) e degli informatori, elementi qualitativi (ad es. hai passa­to il giorno del tuo compleanno o di Natale con qualcuno?) (Ivi). In questo modo i ricercatori sono riusciti a delineare i passaggi che scandisco­no la perdita dello statuto epistemologico di sog­getto, scandita da tappe intermedie: una prima fase detta “soffice” consiste nella perdita dell’identità e delle sue attrezzature (Personal Equipments in inglese): una carta d’identità, una patente, un conto corrente bancario, un numero di telefono, il cellulare e via dicendo; successiva­mente a perdersi progressivamente sono le rela­zioni, prima con gli altri “generalizzati” e poi con gli altri “significativi”, poi con i compagni di stra­da e con gli stessi animali (spesso unica compa­gnia); la fase finale di questo processo, detta an­che “dura”, coincide con la perdita di relazione con il proprio corpo, con uno stato molto simile alla morte biologica, nel quale la persona viene definita un sistema biopsichico autoreferenziale. In questo stato di ritiro di affettività e di chiusura in un’oscillazione di autonomia-anomia, questi soggetti possono sembrarci i più liberi e autonomi del mondo, ma in realtà sono portati a “fare le stesse cose ogni giorno e nello stesso piccolo spa­zio di territorio” (Ivi).
Alla base di questo processo vi è la conce­zione di intimità e gli effetti della sua perdita. Se­condo Pieretti e coll. (1995) questa è formata da una prima cerchia più privata, protetta, la cosid­detta sfera del domestico, ultima difesa dell’Io; poi da una seconda cerchia più ampia legata alle relazioni amicali e di parentela; infine una terza cerchia propria delle relazioni lavorative, istitu­zionali e politiche (Pieretti, Guidicini, Bergama­schi, 1995). Dunque la rottura estrema con tali differenti cerchie indica l’assenza dell’intimità, la quale determina l’impossibilità di un rapporto con gli altri (seconda e terza sfera), ma soprattutto del­la “conservazione del sé” e della costruzione di regole morali (prima sfera), che porta al rischio e alla condanna dell’abbandono (Ibidem). Questa perdita implica un rapporto inaudito con gli altri, a cui è portato a mostrare le proprie disgrazie e piaghe, e un rapporto inaudito con sé stesso, quando il corpo, logorato e degradato a poco a poco, dimentica anche il dolore e rende l’uomo indegno anche a sé stesso e ai suoi occhi (Ivi). Questi due effetti sono ben rappresentati da una metafora e un “indicatore”: la prima tramite l’immagine di una tasca bucata che si lacera e i cui oggetti pian piano si disperdono; la seconda tramite la perdita da parte del soggetto anche della capacità di raccontarsi, indice soprattutto per le istituzioni di una possibilità di dignità e riabilita­zione (Ibidem).

La Désaffiliation
Nella convinzione che l’essere senza dimora sia un problema sociale (non sociologistico) e che quindi non riguarda alcune fasce sociali più che altre, ma è un problema della società competitiva e complessa in cui viviamo, R. Castel (1995) co­nia il concetto di désaffiliation. Citando Dur­kheim, l’autore francese sostiene che l’integrazio­ne sociale è questione di disaffiliazione o di affi­liazione rispetto al sistema sociale in cui si vive (Landuzzi, Pieretti, 2003). Per questo i senza di­mora sono “persone fondamentalmente désaffi­liés, ovvero che hanno compiuto un disconosci­mento di paternità nei confronti del sistema socia­le nel quale si vive”, o come dice A. K. Sen, sono persone che “non riescono a trasformare i beni in possibilità di vita” (Ivi). Questo concetto si situa all’interno di un paradigma che ha subito in questi anni alcune “metamorfosi” notevoli. V. Touraine (1992) parlando di emarginazione e di esclusione sociale sostiene il superamento della classica divi­sione nella società “verticale” tra ceti superiori e inferiori (up or down) e propone un nuovo para­digma di una società “orizzontale” in cui i confini tra le classi sono meno chiari ed è evidente una separazione netta tra membri della società ed esclusi (in or out) (Touraine, 1992 in Valtolina, 2003). Castel (1996) supera anche questa visione dell’esclusione sociale in termini prettamente dua­li per proporre una visione di continuità tra in­tegrazione ed esclusione sociale, definita da due vettori ed espressa in un continuum tra due poli. Per quanto riguarda i vettori, uno è il lavoro (o mancata integrazione occupazionale), sia come fonte di sostentamento economico sia come fonte di identità e appartenenza sociale, l’altro è la den­sità relazionale (o isolamento sociale). Per quanto riguarda i poli, il primo, espressione della positi­vità dei due fattori, è definito integrazione, ed in­dica integrazione sia lavorativa che sociale (Area A – Integrazione); il polo opposto che, indica as­senza di lavoro e isolamento sociale, è definito dèsaffiliation (Area C – Dèsaffiliation); infine tra i due poli vi è un processo progressivo il cui pun­to intermedio è detto vulnerabilità, le cui ca­ratteristiche sono la precarietà lavorativa e la fra­gilità relazionale (Area B – Vulnerabilità) (Castel, 1996 in Valtolina, 2003)6.
Il merito di questo modello è anche quello di aver superato il pregiudizio di irreversibilità della grave emarginazione, come condizione che si colloca oltre la “soglia del non ritorno” (Valtoli­na, 2003), e di poter prevedere, grazie all’indivi­duazione delle fasi intermedie di precarietà e in­certezza, la possibilità di importanti interventi di prevenzione (Romano, Messina, Lavanco in La­vanco, Mendieta, 2009).

Processi di cronicizzazione
“Per taluni individui accade che al termine della discesa ai livelli di pura sopravvivenza la stagnazione si fa lenta demolizione della persona” (Gui, 1995). Come abbiamo già descritto nei pre­cedenti paragrafi, le traiettorie di impoverimento e la degradazione psico-fisica delle persone che vi­vono a lungo per strada possono portare a gravi conseguenze sul piano fisico, psicologico, sociale, tanto da arrivare al cosiddetto “limite di non ritor­no” e agli ultimi stadi di “decomposizione e ab­bandono del Sé”.
Per Bergamaschi (1988) un “processo circo­lare ad effetti cumulati” crea il ripetersi di un’interazione “sbilanciante” individuo/ambiente che spinge soggetti recessivi ai gradini più bassi delle sopravvivenze e all’inizio della cronicità, al quale collabora il peso dello stigma sociale. In questo senso, la cronicità non significa tanto “im­mobilità”, ma piuttosto “irreversibilità” del pro­cesso (Ivi).
Sembra verificarsi una relazione diretta tra il tempo di permanenza nel disagio grave e il gra­do di povertà multidimensionale. Più tempo si passa in strada più la percezione del tempo, dello spazio, degli altri, dei luoghi e dei diversi ambien­ti si altera andando a generare come una sorta di mondo “altro” rispetto a quello dei “normali”. Uno dei processi più catastrofici è quello dell’iso­lamento, che cresce quanto maggiore e frequente è stato l’impatto negativo con un determinato am­biente sociale e col crescere del numero di am­bienti sociali di cui il senza dimora diffida. Per­ciò, si raggiunge un grado di cronicizzazione pro­gressivamente, per rotture graduali e conseguenti isolamenti degli ambienti sociali; ciò finché la rot­tura con l’ambiente esterno diviene così “defi­nitiva e parte stessa dell’equilibrio psichico del soggetto che, per forzata rassegnazione, si concilia con un’esistenza limitata a quei soli rap­porti, ridotti all’essenziale, necessari a procurarsi il necessario per vivere” (o sopravvivere) (Labos, 1987, 119). Il mondo vitale del senza dimora vie­ne quindi ridotto a sé stesso, ai propri bisogni pri­mari e alla propria autocommiserazione, con un conseguente deterioramento fisico e psichico (Ibi­dem).
In particolare, per Fazel et al. (2014) la cro­nicità dell’essere senza dimora è legata ad un epi­sodio di homelessness durato più di un anno, o quattro episodi di homelessness negli ultimi due anni in un individuo che ha una condizione invali­dante. Studi suggeriscono che il 20% dei soggetti che negli USA hanno avuto un episodio di home­lessness cadrà in uno stato di cronicità della con­dizione di senza dimora. I fattori di rischio affin­ché questo avvenga includono l’avere problemi di salute mentale, abusare di sostanze, avere proble­mi di salute fisica, una storia di associazione cri­minale con la giustizia, un’età più avanzata (44 anni e oltre). Nonostante gli effetti negativi dell’homelessness abbiano risultati negativi sulla salute a prescindere dalla durata di questa condi­zione, gli individui cronicamente senza dimora hanno risultati peggiori rispetto a chi ha vissuto esperienze di vita sulla strada intermittenti o di transizione7 (Fazel, Geddens, Kushel, 2014).

La concezione dello spazio e del tempo nei sen­za dimora
Come già detto la carriera sulla strada, so­prattutto se protratta a lungo e lontani da fonti di relazioni, può portare ad alterare la percezione della realtà, e in particolare del senso del tempo e dello spazio. Progressivamente si impone un nuo­vo rapporto con queste due dimensioni, ora con­notate dall’assenza di punti di riferimento, il che produce una “lotta contro la totale precarietà, che richiede tutte le proprie energie, nel tentativo di creare forme di adattamento a questa nuova situa­zione paradossale” (Valtolina, 2003, 79).
Per quanto riguarda la percezione del tem­po, mentre per le persone che svolgono una vita “normale” esiste un tempo lavorativo (scuola, la­voro) e un tempo libero, con una organizzazione strutturalmente, socialmente ed esistenzialmente definita, la giornata del senza dimora risulta esse­re l’unica scansione temporale e criterio significa­tivo di periodizzazione del proprio tempo. Per questi la temporalità è scandita da lunghe attese (l’attesa che apra il dormitorio, o che si liberi il posto dove si dorme per strada), le difficoltà im­previste (non trovare le scarpe al proprio risve­glio, cambiamento di regole ed orari di istituti, problemi di documenti, biglietti, un malessere che blocca la persona impedendole di muoversi come di consueto); poi ci sono momenti che restano particolarmente impressi nella memoria (fra que­sti la malattia come rottura che altera profonda­mente la vita quotidiana); inoltre si nota un caren­te senso della propria storia, intesa come la consa­pevolezza di un passato, di un presente e di un fu­turo, in cui gli episodi si sovrappongono, sfuman­do ogni confine e perdendo qualsiasi ordine cro­nologico; si sente parlare di ambienti anonimi ed impersonali, del rapporto, spesso sporadico e li­mitato, con le istituzioni (al quale subentra la ras­segnazione), dei compagni di sventura, di mensa o di dormitorio, nonché del ricordo, spesso tormen­tato, dell’ambiente umano cui si è appartenuti un tempo (Labos, 1987). Nel vivere il tempo, quindi, “il presente, sempre uguale a se stesso, si dilata, e la rassegnata accettazione della situazione non dà spazio a progetti e aspirazioni” (Goffman, 1959 in Lavanco et al., 2007), riducendo al minimo la di­mensione temporale futura. A proposito Clarizia e Spanò (2007) nella loro ricerca a Napoli hanno rintracciato nelle interviste la capacità di immagi­nare il futuro tra il variegato mondo di soggetti in­tervistati e hanno individuato tre tipi di rappre­sentazioni:
a) il futuro alla spalle, per quei soggetti che, in condizioni veramente critiche, vedono con dispe­razione al domani come irraggiungibile e hanno perduto ogni capacità progettuale;
b) il futuro possibile, per quei soggetti affidati ai servizi o in percorsi di reinserimento, che vedo­no ancora possibile un avvenire migliore rispetto alla loro condizione;
c) il futuro sognato, per quei soggetti per cui è quasi certa l’impossibilità di realizzare le proprie speranze, a causa di una sganciata consapevolezza dalla realtà difficile in cui vivono. Soprattutto le persone lontane dai servizi presentano una grave compromissione della capacità di progettazione del futuro, evidenza che dovrebbe essere presa in considerazione nella progettazione dei servizi da offrire a queste persone8 (Clarizia, Spanò, 2007).
Per quanto riguarda la percezione dello spa­zio, la vita nella superficie pubblica implica la to­tale esposizione delle persone senza dimora, il cui privato è esternalizzato, e in cui il pubblico è inte­riorizzato, portandole ad identificarsi in quanto appartenenti a questo spazio. Quest’ultimo può essere visto come l’unico posto che possono chia­mare “casa”, il cui significato è multidimensiona­le ed è legato a diversi elementi come la sicurez­za, la tradizione familiare, i ricordi e le relazioni familiari (Dupis, Thorns, 1996 in FEANTSA, 2006). Lo spazio pubblico è il luogo più “possedi­bile” e dove ci si può sentire al sicuro, ma anche quello che necessita di più protezione. Nonostante i possibili significati dati allo spazio e la dignità mantenuta da certe persone, non si può pensare che queste non possano aspirare a qualcos’altro, o che ancora questo tipo di vita sia una scelta (Ibi­dem). Considerando l’assenza di questo spazio “privato”, Bonadonna (2001) afferma che “man­cando la possibilità di interporre uno spazio tra il Sé interiore e il mondo, l’Io-pelle, la pelle del bambino alla nascita, unica protezione rispetto all’esterno, ritorna così ad essere il confine ultimo con il mondo stesso, come attraverso un salto nell’età primitiva” (Bonadonna, 2001, 89). Ciò comporta una vita continuamente in allerta e in esposizione ad un ambiente ostile come quello metropolitano, il che può avere gravi conseguenze su molte consuetudini anche biologiche, come il ciclo del sonno, con tutto ciò che comporta a li­vello di equilibrio psichico e mentale (Valtolina, 2003). Inoltre, a proposito, Castel (1996) sostiene che il soggetto può perdere il suo abituale equili­brio e lottare per adattarsi alle difficili condizioni raggiungendone uno nuovo, il quale però sarà orientato alla sopravvivenza, spesso mobiliterà di­namiche psicologiche regressive e difese primiti­ve e porterà i soggetti più vulnerabili ad un impo­verimento psichico progressivo, fino alla destrut­turazione della personalità9 (Castel, 1996 in Valto­lina, 2003).

L’influsso degli stereotipi e dello stigma sociale
Nonostante sia per l’uomo un’esigenza for­zata e quasi automatica quella di categorizzare e ordinare la realtà e l’ambiente sociale in cui vive, questo processo nella società complessa comporta la formazione di giudizi aprioristici che aprono la strada a stereotipi e stigmatizzazioni. In essa coe­sistono sistemi di valori molteplici e contrastanti che generano altrettanto controverse rappresenta­zioni sociali.
Nonostante la società si impegni a mostrare un atteggiamento scientifico, liberale e umanitario di fronte alla figura del senza dimora e del malato mentale, cercando di guardare con obbiettività ai problemi e ai diritti di queste persone, spesso per­mangono negli anni ancora molteplici stereotipi e pregiudizi che si radicano su rappresentazioni so­ciali del passato, detti “archetipi culturali”. In un sistema di valori in cui domina l’efficienza, la competizione e l’ideale del self-made man, ovvero niente di più lontano ed “estraneo” alle figure suddette, riemergono tre principali stereotipi: a) l’immagine del “vagabondo antisociale”, che, come nel 1500, rappresentava un pericolo per il semplice fatto di porsi al di fuori del comune modo di vivere; viene combattuto con l’arma dell’indifferenza, e il suo modo di rispondere con atteggiamenti di ritiro e autoesclusione sostiene e aumenta questa distanza tanto da fomentare nella gente comune la possibilità di ritenerlo “diverso” e quindi legittimare difese proiettive che lo vedo­no ritratto come il “male” e che escludono la pos­sibilità di cadute personali; b) il “mito della scelta di vita”, in cui questo eroe romantico viene visto come portavoce simbolico di malessere, coraggio, rifiuto delle regole, libertà e autonomia; mito che ultimamente è stato smontato dal concetto coniato da Bergamaschi di “adattamento per rinuncia”, come una rassegnata accettazione della situazione in cui il soggetto si trova e lo sviluppo di un nuo­vo adattamento, visto quasi come una “metamor­fosi”; c) l’immagine della “vittima” della società, vista proiettivamente come il “male” che non tute­la i suoi membri più deboli, i quali sviluppano di­sturbi psichici a causa delle loro condizioni e dell’emarginazione da essa creata (Valtolina, 2003). Nonostante questo tipo di stereotipi, che spesso vengono addirittura sovrapposti dall’opi­nione pubblica, siano stati chiaramente superati da molti studi10, ancora oggi persistono, come la sto­rica identificazione tra senza dimora e malato mentale, la cui “diversità” sancisce l’estraneità del problema alla gente comune. Questi giudizi mora­li negativi, però, non possono essere ostentati da una società scientifica e umanitaria, che, perciò, propone una medicalizzazione di questo problema (in piena cultura scientifica), mostrandosi attenta a questi soggetti più marginali, non ritenendoli moralmente devianti, ma bisognosi di aiuto e di cure (Ibidem).
Possiamo dire che gli stereotipi sono fuor­vianti e deleteri in quanto “si limitano a cogliere la parte visivamente più esplicita, cioè quella che ha realizzato la compatibilità con lo stigma sino al punto da farne una componente stessa della iden­tità di chi ne è portatore” (Gui, 1995, 55). Per stigma, infatti, si intende “la collocazione apriori­stica e semplificatrice di taluni soggetti all’interno di una categoria di persone in base ad alcune loro caratteristiche apparenti” (Ivi, 54); rappresenta, dunque, “l’etichetta che attribuisce ai singoli sog­getti le caratteristiche che l’immaginario collettivo con il suo complesso sistema di atteggiamenti, opinioni, stereotipi e pregiudizi, attribuisce all’intera categoria” (Valtolina, 2003, 58). Dal mo­mento che ciò che definisce la posizione dei senza dimora all’interno della società sono la qualità, l’intensità e la direzione dei rapporti con l’orga­nizzazione sociale, nonché il feedback da essi ge­nerati, si può dire che alla definizione oggettiva del ruolo sociale si affiancano elementi soggettivi collegati alla sfera della “percezione di sé e dell’altro”. Se il concetto di “reputazione”11 si da’ per sottinteso per chi conduce una vita “normale”, per chi vive per strada è invece cruciale in quanto può instaurare un processo circolare “giudizio al­trui/stima di sé” di conferma della impossibilità di ingresso nella cittadinanza, una sorta di “barriera all’entrata” che genera meccanismi di auto-identi­ficazione negativa (Gui, 1995). Essere senza di­mora rappresenta una nuova identità “che si so­vrappone a quella che si ha e la copre, l’addor­menta” (Marazziti, 2007, 9 in Lavanco, Santinello, 2009, 61), ma proprio perché prima questo soggetto aveva un’identità e conosceva le norme dominanti, può soffrire di più notando le sue mancanze e sperimentando la vergogna di non poter essere come dovrebbe. Per questo il sogget­to avverte la frattura fra sé e le persone normali, e questa alimenta in lui l’auto-disprezzo e l’odio di sé, portandolo a chiudersi anticipatamente in sé stesso, ad avere un atteggiamento sospettoso, osti­le, ansioso, depresso e dunque confermando il pregiudizio delle persone comuni (Ivi). Dato che uno stigma tende a diffondersi dallo stigmatizzato alle persone vicine, nonostante all’inizio un sog­getto possa tenersi lontano dagli altri senza dimo­ra, alla fine questa sua condizione si radica, por­tando addirittura all’idea che vi si trovi perfino a suo agio e all’identificazione con lo stigma pur di non cadere nell’anomia assoluta (Dino, 2004 in Lavanco, Santinello, 2009). Da quanto abbiamo detto si può notare quali siano i due principali ef­fetti dello stigma sociale: 1) fornisce al soggetto un’identità sociale, rendendolo riconoscibile agli altri ma mettendo anche un filtro tra lui e il mon­do (facilitazione dell’esclusione sociale); 2) agi­sce sull’immagine che il soggetto ha di sé stesso, suscitando fenomeni di identificazione negativa e abbassando la sua autostima (facilitazione dell’autoesclusione). Per quanto riguarda l’esclu­sione sociale, quindi, i meccanismi precedente­mente descritti fanno sì che la società crei quasi una “prigione” intorno al soggetto, aggravata e in­tensificata soprattutto quando al quadro personale si aggiunge anche il disturbo psichiatrico: la dere­sponsabilizzazione del soggetto porta anche ai ti­pici sentimenti di compassione che generano sì di­sponibilità all’aiuto, ma aiuto che rimane sem­pre tra una società “normale”, al di qua della bar­riera, e un soggetto malato, bisognoso di cure e anche di controllo sociale (Valtolina, 2003). Ri­guardo all’autoesclusione, oltre ai meccanismi già descritti, è importante ricordare l’influsso negati­vo che anche la visione medicalizzata della malat­tia mentale e dell’essere senza dimora possa avere su questi soggetti, i quali interiorizzano l’essere individui passivi, incapaci, non autonomi, inade­guati a svolgere ruoli attivi in società, bisognosi di essere curati. Tutto ciò, unito alle conferme che vengono dall’esterno, portano a creare una “bar­riera interiorizzata” che sembra confermare ciò che accade e che porta alla convinzione che l’uni­ca soluzione sia una progressiva rinuncia, non solo alla società, ma anche a sé stesso e alla pro­pria identità, la quale però non ne ha altre alterna­tive (Ivi). A proposito di identità, Bergamaschi (1988) ritiene che non è possibile assumere una propria cultura senza una vera e propria comunità di riferimento, in quanto non esiste identità senza riferimento a qualche forma di identificazione, e viceversa non esiste identificazione senza un’identità (Bergamaschi in Guidicini e Pieretti, 1988); per questo, essendo estranei alla città (co­munità di riferimento) e vedendola semplicemente come un “contenitore che conferma l’estraneazio­ne da rapporti umani significativi”, è facile capire perché non ci sia più ragione di avere un nome, un ruolo, e perfino avere cura di sé e un aspetto este­riore particolare (Gui, 1995, 59). A seguito di tut­to ciò per molti l’isolamento appare la soluzione migliore (Labos, 1987), e quest’ultimo viene radi­calizzato dalla cosiddetta “atrofizzazione della so­cialità”12, processo rappresentato da una spirale in discesa: “col crescere della dipendenza e della mancanza di autonomia nell’accesso alle risorse, si riduce anche la possibilità di accedere a nuove social networks, in grado di sorreggere l’autono­mia vacillante della persona” (Gui, 1995, 61). In­fine, importantissimo contributo è quello di G. Cattabeni13, il quale sostiene che i senza dimora siano “emarginati psicologicamente” dal “gruppo psicologico” (e non solo sociologico) dei cittadi­ni, verso cui hanno “una posizione di dipendenza dalle regole fissate”, in quanto, non facendo parte del suo sistema di interdipendenze funzionali, con i propri bisogni individuali minaccerebbero la sta­bilità e le regole di esso (Cattabeni in Fondazione Zancan, 1978). Questa condizione, soprattutto prolungata nel tempo, richiede a molti l’utilizzo di meccanismi difensivi efficaci, quali: la regressio­ne nella dipendenza e passività assoluta, l’etero e auto-aggressione (fino alla soppressione di sé e degli altri), la fuga dal rapporto con il reale, la “reificazione” di un ambiente gratificante imma­ginario, l’assunzione di ruoli ed obiettivi negativi (e/o antisociali) che compensino gli effetti dell’impossibilità ad assumere ruoli ed obiettivi positivi (Ibidem). Meccanismi che invece verreb­bero compensati dal senso di appartenenza e dalla comunanza di obiettivi nei soggetti emarginati, ma membri di un gruppo a sua volta emarginato (Gui, 1995).
Alla fine di questa profonda immedesima­zione nei processi di identificazione negativa e di auto-esclusione dei senza dimora, è importante fermarsi per una riflessione. E’ ipotizzabile che “delle rappresentazioni sociali meno difensiva­mente parziali – e più aperte a considerare la com­plessità del fenomeno nei suoi molteplici aspetti – potrebbero aiutare a rompere le barriere tra chi vive nella società e chi invece è costretto a cercare uno spazio ai suoi margini quotidianamente, rendendo quest’ultima condizione più facilmente reversibile” (Valtolina, 2003, 62). Alcuni studi (Hocking, Lawrence, 2000), infatti, hanno dimostrato come la stigmatizzazione riguardi la vita pubblica, in quanto soggetti appositamente formati alla comunicazione pro-sociale, conoscen­do intimamente la persona oggetto dello stigma, non hanno più dato attenzione all’elemento mar­chiato, modificando invece i propri atteggiamenti, valutando positivamente le abilità sociali e rela­zionali (ove presenti), e considerando la condizio­ne di questa persona frutto di cause esterne alla sua volontà (Lavanco, Santinello, 2009).

CONCLUSIONI
In questo articolo abbiamo fatto luce su una realtà che spesso è tenuta ai margini, oscurata e quindi vittima di immaginazione, stereotipi, pre­giudizi, stigma, che non rendono conto della sua vera essenza. La figura del senza dimora, della persona che vive per strada, puzza, chiede l’ele­mosina, è da sempre evitata a priori, o al massimo liquidata in pochi secondi da una fredda ed im­paurita donazione.
Tuttavia, abbiamo scoperto che nella società complessa queste persone non appartengono ad una determinata categoria o status sociale (come prima si pensava), ma che in uno stato di emargi­nazione e di senza dimora ci può cadere chiunque, anche chi ha una vita, un lavoro, una famiglia, e si ritiene estraneo e lontano da una possibile caduta. Le diverse ricerche e i dati, infatti, ci hanno mo­strato come il numero di persone che si trovano a vivere per strada e che ci vivono per anni aumenta sempre di più e che uno o più eventi stressanti cu­mulati, soprattutto in assenza di una rete di soste­gno forte, accompagnati da una frammentazione biografica processuale per alcuni lenta e graduale, può far cadere chiunque in povertà estrema. Ab­biamo, quindi, analizzato i diversi processi psico­logici che portano a vivere in condizioni estreme quasi di sopravvivenza, di isolamento, di decom­posizione del Sé, di disaffiliazione, e quanto il tempo renda queste sempre più ego-sintoniche e impercettibili dal soggetto emarginato; il tutto, come già detto, incrementato dal notevole influsso degli stereotipi e dello stigma sociale, che crea una barriera aprioristica sempre più spessa tra il mondo dei “normali” e quello dei “senza dimora”.

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La perversione affettiva Michela Vespe

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Il presente articolo si propone di esplorare e ap­profondire un fenomeno che sta diventando sempre più importante ed urgente e che investe in modo esplicito o no la quotidianità dei legami affettivi, ossia la perversione relazionale. L’obiettivo è quello di stimolare il lettore ad una riflessione generale sulle dinamiche affettive e relazionali, ponendo il focus specifico a quelle di coppia, sull’impatto emotivo che tali relazioni hanno sull’individuo ed eventualmente fornire strumenti importanti ed utili per riconoscere quei potenziali manipolatori che annichiliscono il legame affettivo. Dunque il conseguimento di tali finalità sta nel mostrare la possibilità di liberarsi dal dramma di un amore patologico, malato e distruttivo.

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Il concetto di perversione

La definizione di perversione ha portato con sé una serie di ambiguità e difficoltà nel cogliere es­senzialmente il suo significato e l’ambito in cui esso si rispecchia. Nelle molteplici definizioni di alcuni dizionari di psicologia, sotto la voce “Per­versione” vi sono delucidazioni orientate sulla sfera sessuale e sulle deviazioni relative a tale di­namica anche se Laplanche e Pontalis riconosco­no (1993, 250) che esso, non solo è ascrivibile ad una deviazione in senso prettamente sessuale, ma anche in senso morale. Il concetto di moralità è molto labile e soprattutto relativo ad un sistema di valori che ricadono nei retroscena culturali d’appartenenza. Tuttavia la moralità non si dispiega nella dicotomica lotta per la sopravvivenza tra giusto e sbagliato ma nella violenza psichica che si infligge nei confronti dell’altro, il cosiddetto “oggetto” relazionale il quale diventa vittima indiscussa del maltrattamento.

Nelle trattazioni di Filippini (2005, 30-31) vi è una distinzione in chiave psicopatologica del mal­trattamento fisico da quello psicologico ed affetti­vo; nel primo infatti, legato a configurazioni di personalità più gravi, vi ritroviamo disturbi bor­derline, antisociali e manifestazioni di narcisismo maligno, il secondo invece si erge sulla personali­tà narcisistica. Dunque nel segno del maltratta­mento e della perversione vi è un continuum che va dalla violenza fisica a quella psicologica e mentale a cui rispettivamente sono vincolate di­mensioni patologiche disparate. Per quanto effet­tivamente l’abuso fisico sia legato a quadri patolo­gici e diagnosi più infauste nonché a tratti più gra­vi ed insalubri è comunque una realtà, una dina­mica manifesta, visibile agli occhi di chi subisce, chi assiste. L’abuso psicologico, invece, si insidia nella vita incorporea della persona affondando le sue radici violente nel pensiero, nei principi del­l’esperire mentale e non è percepibile concreta­mente da chi non è partecipe della dinamica affet­tiva perversa, per cui non sempre la presunta vitti­ma di tale scenario è consapevole della manipola­zione affettiva a cui è vincolata. Rispetto ad esso la Filippini evidenzia (2005, 31) come la perver­sione relazionale giunga ad espressioni come la violenza psicologica che si manifesta nel control­lo e nel dominio, esercitati dal perpetratore, sul­l’altro, che si esprimono nell’intrusione nei rap­porti affettivi dell’altro, nelle sue attività nonché nei suoi contesti di autonomia (per es. economica) Anche se vengono indicati riferimenti al legame di coppia, la perversione relazionale non coinvol­ge solo ed esclusivamente tale scenario ma si rea­lizza in molteplici contesti ed ambiti della nostra vita e, soprattutto, trascina dentro sé svariati rap­porti ed affetti.

In merito alla dimensione interpersonale del qua­dro narcisistico, Ponsi sostiene (2003, I) che non si può parlare di una vera e propria sindrome con specifici comportamenti perversi, quanto invece di un modo perverso di rapportarsi con gli altri. L’autrice ribadisce la difficoltà a rendere oggetti­vamente osservabile il ricatto che sottende i rap­porti affettivi del narcisista in quanto non è misu­rabile né distinguibile l’abuso psichico, il dominio e soggiogamento affettivo dell’altro.

Tale concetto si ricollega a ciò che già preceden­temente era stato affrontato da Racamier ed Ei­guer i quali in primis avevano individuato la per­versione all’interno del quadro della moralità. Ra­camier ha maturato (1993, 124) il concetto di per­versità all’interno dell’analisi delle psicosi e degli stati-limite intendendolo come una modalità rela­zionale ed interpersonale che si fonda sulla mali­gnità, sulla manipolazione ed il pervertimento dei propri legami. Un pensiero affine a questo è quello espresso da Eiguer. Chi si relaziona ad una tale personalità viene sottoposto ad una pressione eccessiva, manipolata, sfruttata in quanto il perverso morale desidera diventare l’unico vero padrone del rapporto poiché tale obiettivo gli procura godimento e porta con sé un senso di trionfo e di superiorità di cui il suo spirito ha fortemente bisogno, perseguito tramite l’arma della seduzione.

Per quanto la seduzione e il desiderio di esercitare una certa influenza sull’altro siano aspetti che sono riscontrabili nelle normali relazioni, ciò che distingue queste dagli espedienti perversi è da ri­cercare negli obiettivi: il perverso infatti cerca di assoggettare la sua vittima, di asservirla e sotto­metterla al suo essere; a fronte di ciò la vittima ri­schia di sentirsi svalutata e di perdere la possibili­tà di pensare e di agire in autonomia (Eiguer, 2006, 6-7).

Dunque ci sono diverse modalità, espressioni e connotazioni della perversione; in linea generale tale termine rimanda ad un significato, ad un’illa­zione di un pervertimento di tipo sessuale. In un certo senso ciò può essere riconducibile al fatto che le prime delucidazioni circa tale concettualiz­zazione si rifanno alle teorie sessuali di stampo freudiano; Freud infatti aveva definito le perver­sioni come attività sessuali che, da un punto di vi­sta anatomico vanno oltre le zone che sono legate all’atto sessuale in sé per sé, come uno dei possi­bili esiti del fallimento dello sviluppo psicoses­suale (Freud, 1905, 477). Date le prime definizio­ni sessualizzate di tale concetto, è importante co­gliere le differenze ed i nessi che intercorrono tra la perversione manifestata tramite gli affetti ed una sottesa violenza psicologica e quella più pro­priamente fisica che si esprime tramite una sessualità insana ed irrispettosa, considerando la labilità dei confini che possono intercorrere tra una dimensione e l’altra e collocando la personali­tà perversa lungo un continuum che va da condot­te più adattive ad espressioni prettamente patolo­giche. Una delucidazione esplicativa circa le sfu­mature della perversione ci è offerta da Nazare-A­ga, la quale, ricollegandosi ad alcune teorie psi­coanalitiche, riporta (2008, 18):

  • il perverso narcisista;

  • il perverso di carattere;

  • il vero perverso.

Per quanto riguarda il primo, abbiamo vi­sto come alcune forme di perversione trovano le sue radici nella manifestazione del Narcisismo. Rispetto a ciò, nel diniego dell’umanità, il narcisi­sta perverso tesse la sua tela dentro l’animo del prossimo con fili sottili, insinuanti; essi sono fili apparenti perché fatti di parole e di azioni (Filip­pini, 2006, 254).

Il perverso di carattere trova le sue esplicazioni nelle teorie di Bergeret. Per l’autore la perversione del carattere è considerata la più alienante tra le varie manifestazioni patologiche in quanto è quel­la che arreca danni più gravi alla persona, rivelan­dosi principalmente come una patologia di natura relazionale. La perversione del carattere progredi­sce nel tentativo di rinnegare il narcisismo altrui al fine di tutelare quello proprio (Bergeret, 2002, 260-273).

Rispetto a ciò sembra che il perverso di carattere ricada in una sorta di sadismo morale. Ricollegan­dosi a Bergeret, Nazare-Aga attua (2008, 19) un’ulteriore opera di chiarimento circa le delinea­zioni di perversione narcisistica e “perversità” de­scritta dall’autore psicoanalitico, utilizzando in larga misura il concetto di manipolazione:

  • il perverso di carattere è conflittuale e poco accettato dal suo gruppo in quanto si rifiuta di rispettare l’altro rispetto al mani­polatore (perverso narcisista) il quale agi­sce in modo più discreto e tacito;

  • il perverso di carattere è più intransigente mentre il manipolatore è in grado anche di suscitare compassione, apparendo come una vittima;

  • il perverso di carattere è un aggressivo e ha delle reazioni violente ed esagerate in quanto pensa che tutto gli sia dovuto, mo­stra apertamente piacere nel prendersi gio­co della sua vittima e dei suoi sentimenti.

Tale più approfondita delucidazione non individua due distinti quadri psicopatologici, ma implica di­versi modi di pervertire la relazione e la realtà in­torno a sé, modalità ed espressioni che si ricondu­cono a forme manipolative più sistematiche ri­spetto ad altre che mirano chiaramente allo sface­lo dei rapporti umani tramite manifestazioni ag­gressive più intense. Altri importanti distinzioni riguardo tali definizioni sono riconducibili al pen­siero di De Masi. La personalità cristallizzata nel­l’Io narcisistico fondamentalmente utilizza la vio­lenza, l’odio e, dunque, l’aggressività per difender­si, per garantire la propria conservazione psico-fi­sica, per la sopravvivenza rispetto alle minacce che il narcisismo altrui arreca nel confronto con l’Io vulnerabile (De Masi, 181, 2012). Invece, le forme perverse agiscono tramite l’indifferenza emotiva. Ed è questo l’abisso che circoscrive que­sti due concetti. L’odio, pur presentando la sua ostilità, preclude un sentimento, un vissuto emoti­vo che è rivolto ad un qualcuno in relazione; l’in­differenza, invece, altro non è che un rifiuto di qualunque tipo di esperienza psichica, di fatti esistenziali. Un elemento preponderante nei meccanismi della perversione è l’utilizzo e l’impiego dell’intimità, in un’accezione svincolata dalla dimensione prettamente corporea. La perversione crea uno scenario fittizio, disilluso, in cui la condivisione di un momento, di un sentimento, di uno spazio emotivo diventa lo scempio strumento di un controllo manipolativo che il perverso tende a mantenere e a pretendere nell’incontro con l’altro, per evitare paradossalmente di entrare in contatto intimo con lui. Rispetto a ciò, l’autrice Chasseguet-Smirgel.sostiene (1987, 43-50) che il perverso vive illusoriamente nel tentativo di creare uno spazio psichico in cui eliminare quelli che sono i sentimenti di angoscia e di inadeguatezza dettati dalle differenze sostanziali riscontrabili nei rapporti umani; in quest’ottica ci si riconduce alla primissima relazione con la madre che ha portato alla nascita e al dilagarsi di un deficit narcisistico tale da rinnegare l’esame di realtà.

Il sentimento dell’amore ci porta a ridimensionare il nostro essere nella condivisione della nostra identità affettiva, apre le porte ad un progetto esi­stenziale condiviso. Per il narcisista tutto ciò rap­presenta una minaccia alla propria integrità e l’o­dio, l’ostilità sono la defezione dal tormento degli affetti. L’odio si traduce in aggressività, l’aggressi­vità in perversione. E sotto la spinta di un amore che coinvolga fin nel profondo, antichi fantasmi ricompaiono, immagini assestate si scompongono in inquietanti tensioni sepolte dal tempo, mentre si rivitalizzano spunti perversi sessuali dimenticati (Filippini, 2006, 282).

Alcuni volti della perversione relazionale

La perversione implica il pervertimento, la costru­zione di un clima affettivo illuso, fittizio, inganna­tore, che sovrasta qualsiasi logica razionale, quin­di assume diverse delineazioni e forme, mira e bersaglia molte persone in diversi contesti. Data la complessità di tali manifestazioni, verranno prese in esame essenzialmente tre di esse, ognuna con proprie peculiarità ma allo stesso tempo affi­nità.

LA VIOLENZA PSICOLOGICA…

Nella delineazione della perversione relazionale si è colto il meccanismo operato dal narcisista del pervertire e dello stravolgimento della realtà e dei legami. Essa è una vera e propria violenza psico­logica che dilaga nei contesti quotidiani. In uno studio condotto da Baumeister, Campbell e colle­ghi (2000, 26-28) sulla correlazione tra l’egoismo e l’aggressività, un gruppo di persone venivano sottoposte ad una serie di offese: quelle che rile­vavano tratti narcisistici tendevano a rispondere con più aggressività rispetto ad altre. Con questo non si allude all’idea che i narcisisti siano indiffe­renziatamente aggressivi ma che sicuramente tali tratti di personalità costituiscono un fattore di ri­schio e contribuiscono ad aumentare la violenza e le risposte aggressive.

nella coppia

Uno scenario molto comune è quello relativo alla violenza psicologica all’interno della coppia. La letteratura (Nazare-Aga, 2008; Filippini, 2005; Hirigoyen, 2006) si riconduce anche a casi di cop­pie omosessuali, ma dalle esperienze cliniche vit­tima e carnefice hanno una distinzione ben precisa di genere: infatti, solitamente il perverso narcisi­sta è un uomo mentre, la sua vittima è una donna. Tale scelta non può essere ricondotta solo ed esclusivamente a distinzioni stereotipiche e culturali dell’uomo come “sesso forte” e la donna come “sesso debole” ma si rifà a peculiari e defi­nite riflessioni. Effettivamente i casi clinici ripor­tati dalle autrici suggeriscono un pubblico vitti­mizzato formato prevalentemente da donne, ma ciò non deve portare a sottovalutare la possibilità che anch’esse possano essere perverse narcisiste. Ponzio evidenzia (11, 2004) come la violenza do­mestica ci ponga di fronte ad una constatazione incontestabile, ossia l’asimmetria all’interno di una relazione di non-reciprocità; tale squilibrio non è dato solo dalle chiare differenze fisiche ma anche da fattori culturali, sociali e psicologici. Il back­ground culturale e tradizionale ha investito l’uomo e la donna di rispettivi ruoli e poteri discostanti. Tale asimmetria si ricollega, inevitabilmente ad un altro tipo di vulnerabilità che è quella sociale (ibidem). Per quanto i movimenti femministi ab­biano portato con sé le rivendicazioni delle pari opportunità ancora oggi vigono delle disugua­glianze e discriminazioni riscontrabili non solo nei rapporti sociali o negli ambienti lavorativi, ma anche negli stessi valori educativi trasmessi al ge­nere femminile. Nelle donne vittime di violenza è semplice riscontrare come durante l’infanzia ab­biano interiorizzato delle “qualità” femminili qua­li il sopportare, il saper tacere, l’abnegazione, la disponibilità totale e la responsabilità del buon andamento della relazione, che, di per sé, redimo­no già uno squilibrio relazionale (Ponzio, 2004, 14). Nonostante i grandi cambiamenti culturali, sociali che interessano il ruolo della donna all’in­terno della società, per molte, ancora, la femmini­lità consiste nell’essere avvenenti sul piano fisico, gradevoli, dolci e attente ai bisogni degli altri, tutti elementi che vengono manifestati tramite la dipendenza e la fragilità (Hirigoyen, 2006, 76).

Nonostante tutte queste considerazioni sicuramen­te importanti, risulta opportuno considerare la possibilità (fortemente dimostrata e sostenuta da alcuni studi) che la violenza possa anche essere perpetrata sugli uomini. È stata condotta, nel 2012, una ricerca da alcuni studiosi sulla violenza fisica, psicologica, sessuale sugli uomini. In modo quasi del tutto sorprendente dai dati rilevati emer­ge che ciascun partecipante a tale indagine (un campione italiano di 1.058 persone di sesso ma­schile dai 18 ai 70 anni) ha subito un tipo di vio­lenza dalle donne (fisica, sessuale, economica, psicologica); altro aspetto rilevante che emerge dalle indagini operate (tramite gli stessi strumenti e scale impiegate nell’indagine ISTAT condotta nel 2006), è che quella più subita dagli uomini è proprio la violenza psicologica (Macrì et al., 2012, 34-38). Tale studio è la dimostrazione che la violenza, qualunque sfumatura o sembianza essa assumi, non preclude differenze di razza o genere ma si tramuta nell’universalità della soffe­renza.

La violenza psicologica si articola su diversi assi comportamentali ed assume diverse forme, a volte difficili da cogliere. Esse possono essere: il con­trollo, l’isolamento, la gelosia patologica, la mole­stia assillante, le critiche avvilenti, le umiliazioni, le intimidazioni, l’indifferenza alle richieste affet­tive e le minacce (Hirigoyen, 2006, 23-37). Il controllo è letto in termini di intrusività e posses­sività, si estende dalle semplici abitudini quotidia­ne fino ai rapporti sociali e privati del partner. Vi è, poi, l’isolamento. Tale meccanismo consiste principalmente nell’impedimento del partner di qualunque contatto o vita sociale, o anche impiego lavorativo (ibidem). La gelosia patologica, invece, si presenta come sospetto continuo e sotto forma di infondate attribuzioni di intenzioni, è l’esasperazione del comportamento controllante. In tal senso le insicurezze interiori vengono proiettate sul partner in quanto si sospetta un’ipotetica perdita del controllo relazionale. Altro aspetto centrale è la molestia assillante: essa infatti, consiste nel ripetere continuamente all’altro una serie di messaggi. Essi , nello specifico, hanno contenuti verbali sempre offensivi, deleteri ed ostili, sono critiche avvilenti che portano allo sfinimento chi è preso di mira; infatti hanno come obiettivo centrale lo sfaldamento dell’autostima della persona, della sua importanza esistenziale. Dunque qui la violenza si traduce in atteggiamenti sarcastici, parole offensive, discorsi sprezzanti e osservazioni sgradevoli (Hirigoyen, 2006, 29). Ciò comporta un peso non indifferente nell’equilibrio psichico della persona. L’impiego di tale meccanismo sovversivo e manipolativo induce ad instillare nella persona il dubbio su di sé, sulla propria identità; il fatto stesso che tali critiche provengano dalla persona con cui si condivide un legame, la stessa persona che dice e sostiene di amarci, piega ancora di più l’individuo in uno svilimento lento e continuo. Tali denigrazioni sistematiche provocano un senso di vergogna e possono anche portare ad una frattura identitaria, in quanto mirano all’autostima della persona la quale finirà per interiorizzare il disprezzo e non si sentirà più degna di essere amata (Hirigoyen, 2006, 32).

Un altro aspetto centrale della violenza psichica è l’indifferenza che il partner mostra di fronte alle richieste affettive; esse, infatti, richiedono il rico­noscimento della propria esistenza, dei propri bi­sogni emotivi e non. L’indifferenza significa rifiu­tarsi di parlare con l’altro, di uscire insieme, di ac­compagnarlo all’ospedale, di andare alle feste di famiglia (ibidem). Ultimo aspetto riscontrabile nella violenza psicologica è determinato dalle mi­nacce; esse, altro non sono che l’anticipazione di un ipotetico colpo (suicidarsi, prendere a botte, ecc.), avvertimento che può danneggiare allo stes­so modo del colpo vero per via dell’incertezza e della minaccia che suscita nella persona (Hiri­goyen, 2006, 35).

Quando si vive un rapporto di coppia, si entra in contatto intimo con l’altro, vi è la condivisione di uno spazio emozionale, di aspettative, di progetti a lungo termine in cui si punta alla costruzione di certezze. Nei legami di coppia si conosce l’altro, si sanno le sue debolezze e, quindi, è più facile renderla vulnerabile; ma in un legame di coppia le debolezze non devono tramutarsi in un terreno fertile per battaglie psichiche e/o fisiche nell’an­nullamento reciproco, nell’avvilimento dei senti­menti e delle emozioni. Se ciò dovesse avvenire, bisogna, allora, rivalutare e chiedersi se il proprio legame amoroso si possa definire tale.

nella famiglia

La violenza, il maltrattamento, le manifestazioni dell’odio e delle dinamiche perverse trovano radi­ce fertile in un ambiente più esteso che vede pro­tagonisti un numero più consistente di legami ri­spetto alla diade amorosa: essa è la famiglia.

.Miller sostiene (1989, 27-30), nelle teorizzazioni circa la cosiddetta “pedagogia nera” che l’eserci­zio del potere da parte dell’adulto sul bambino è quell’esercizio che più di ogni altro rimane celato ed impunito; in un bambino che si trovi nella situazione di essere manipolato in modo inconsapevole non si possono presentare sentimenti di collera e di sdegno ma, invece, sentimenti di paura, smarrimento.

Tornando alla violenza psicologica L’Office for the Study of the Psychological Rights of the Child nel 1985 (cit. in Brassard et. al., 1993, 23), in una rivisitazione di una precedente definizione di tale forma di violenza, ha evidenziato alcuni elementi fondamentali che determinano questa di­mensione di maltrattamento:

  • rifiutare, di riconoscere, di credere e di ac­cogliere;

  • umiliare, nel senso di discreditare o di­sprezzare;

  • intimorire, ossia adoperare delle intimida­zioni;

isolare, allontanare il bambino da sé e/o dagli altri;

corrompere, cioè favorire il disadattamen­to degli stessi bambini alle esigenze o usanze so­ciali;

sfruttare nel senso di strumentalizzare;

non riconoscere la sensibilità psicologica, ossia privare il bambino di quella cura attenta e responsabile necessaria per la promozione di un sano sviluppo socio-emotivo.

Per quanto nella delineazione di queste forme di abuso e nei profili genitoriali non ci sia un chiaro collegamento alla personalità propria­mente perversa narcisistica, vediamo come possa­no essere riscontrabili numerosi meccanismi e modalità relazionali che sono tipiche di tale confi­gurazione e fanno ricadere le stesse nella morfolo­gia dell’abuso e della violenza psicologica.

Gli ambiti della violenza psicologica sono molte­plici e si configurano sotto varie sfumature e de­notazioni ed implicano una pluralità di scenari e processi. Essi possono assumere forme indirette e dirette: la violenza indiretta è frutto di un rapporto aggressivo tra i partner e che in modo trasversale si abbatte anche sui figli i quali prendono parte a tale scenario di ostilità, rabbia, disagio e condivi­dono con il genitore la sofferenza legata a tale di­namica.

Ciascun bambino, poi, porta una parte di sofferen­za con sé che riprodurrà altrove se non cerca un appianamento in se stesso (Hirigoyen, 2000, 35). A tal proposito, infatti, de Zulueta sostiene (2009, 253-254) che i bambini che sono stati sottoposti a maltrattamenti e abusi (nonché traumi psichici), tendono poi, loro stessi, a diventare promotori della violenza, tramite quel processo di identifica­zione con l’aggressore, ruolo che permette di con­servare un certo controllo di fronte alle minacce e di esercitare una certa vendetta.

La violenza psicologica diretta, invece, prende forma tramite la trascuratezza ed il distacco emo­tivo ed affettivo che si fanno portavoce del dinie­go del bambino. Il genitore si giustifica spiegando che tale rifiuto altro non è che un’azione orientata al benessere del bambino, ha, quindi, una conno­tazione prettamente educativa, ma la verità è che quella presenza gli dà fastidio e costituisce una minaccia alla preservazione di se stesso (Hiri­goyen, 2000, 41).

Ci rendiamo conto come tali maltrattamenti psico­logici riversano le loro gravose conseguenze sui bambini, in via di crescita e di sviluppo, le quali possono assumere molteplici espressioni. Sicura­mente si riconosce la gravità accentuata delle si­tuazioni di trascuratezza emotiva che può non solo arrecare gravi danni medici, ma anche psicologici come l’annullamento delle potenzialità affettive oltre che il rischio di condotte violente ed autodistruttive (come per es. l’uso di droghe) (Brassard et al. 1993, 180).

al lavoro

La violenza psicologica supera quelle che sono le cosiddette “mura domestiche” per estendere la sua ombra a contesti più generalizzati ma non per questo meno significativi per l’individuo, quali, per esempio quello lavorativo; condotte, compor­tamenti, gesti e parole che mirano alla degrada­zione psicofisica, spogliano l’impiego professio­nale del suo valore umano.

Tale fenomeno prende il nome di mobbing. Il fe­nomeno complesso del mobbing riguarda le rela­zioni nel mondo del lavoro e si esprime in un cli­ma di violenza psichica e morale esercitata da una o più persone verso un singolo individuo; le ves­sazioni sono abituali o sistematiche e derivano da un’alterazione delle relazioni interpersonali e/o da una strategia dell’azienda o dell’organizzazione e tendono ad offendere la dignità personale e/o pro­fessionale della vittima, tendendo ad escluderla dal processo produttivo (Pastore, 2006, 15).

In merito a tale fenomeno, sono state individuate 5 categorie di condotta degli aggressori (Domini­ci, Montesarchio, 2003, 128):

  • impedire alla vittima di esprimersi;

  • isolare la vittima;

  • provocare la disistima presso i colleghi e distruggere la sua reputazione;

  • discreditare la vittima nel suo lavoro;

  • compromettere la salute della vittima affi­dandogli incarichi gravosi o stressanti o pericolo­si.

Tutte queste differenti espressioni della molestia e violenza psicologica hanno degli effetti devastanti su chi ne è assoggettato i quali, a lungo andare, si manifestano sotto forma di veri e propri danni psi­chici nonché quadri psicopatologici. Essi sono es­senzialmente (Favretto, 2005, 68):

  • problemi di ansia;

  • disturbo da stress post-traumatico ;

  • il disturbo dell’adattamento;

  • alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico

  • disturbi del comportamento;

  • alterazioni dell’equilibrio sociale.

Risulta chiaro come gli aspetti rilevati dal mob­bing indicano la presenza di un conflitto anche se non necessariamente esso comporta uno sfacelo grave e profondo delle relazioni umane. C’è da precisare che la molestia deriva sempre da un conflitto anche se non significa che ogni tipo di conflitto sfoci poi nell’abuso; ciò che determina il passaggio da un’ostilità alla molestia sono, in pri­mis, la disumanizzazione dei rapporti di lavoro, l’onnipotenza dell’impresa, la tolleranza e la com­plicità che il perverso riesce ad innescare nel con­testo lavorativo nella perpetrazione di un indivi­duo (Hirigoyen, 2000, 92).

IL CINISMO

In uno studio condotto da Antes, Brown e colleghi si è analizzata (2007, 17) la correlazione tra il nar­cisismo, il cinismo e le scelte e decisioni etiche nelle professioni; nello specifico, mentre il narci­sismo rappresenta un costrutto che rivela quella che è la percezione della propria immagine, il cinismo, invece, è di natura prettamente inter­personale, nel senso che rappresenta la percezione distorta che si matura nei confronti degli altri. Tale sensazione negativa tende a costruire, dun­que, una visione inconsistente circa gli aspetti e le caratteristiche degli altri, la quale cela una sorta di scetticismo circa i comportamenti, le intenzioni e le motivazioni altrui.

Eiguer sostiene (1999, 672) che il cinismo rappresenta un aspetto che ricade nella perversio­ne e che evidenzia la convinzione radicata del perverso che non vi sia bontà alcuna negli altri. Questo aspetto si ricollega al meccanismo, in ter­mini psicodinamici, della proiezione dei propri aspetti maligni, e delle proprie parti cattive nel­l’oggetto, nell’altro. Il perverso narcisista, ricono­scendo le proprie lacune e le proprie aree di vul­nerabilità non può far altro che difendersi da esse tramite l’attribuzione del proprio stato interiore sull’altro, utilizza la propria esperienza come mi­sura per costruire le immagini di quel mondo esterno, percepito, dunque, come minaccioso.

Rispetto a ciò quindi il fine, ossia quello di difen­dersi dall’altrui malevola intenzionalità, giustifica il mezzo, cioè le tendenze distruttive ed alienanti nei confronti dell’identità e degli aspetti positivi dell’altro. Tramite l’onnipotenza e la grandiosità che proviene dalla personalità narcisistica, il cini­co riesce a persuadere e ad influenzare gli altri, inculcando in loro sentimenti o comportamenti che essi non vogliono provare come, per esempio, suscitando in loro sensi di colpa (Filippini, 2005, 35). Ed è proprio per questa sfumatura così sov­versiva e manipolativa che le vittime di perversi narcisisti, nella convinzione di essere loro la cau­sa di qualunque problema o conflitto relazio­nale, cominciano a nutrirsi di colpevolizzazioni.

IL GASLIGHTING

Un’altra forma di violenza psicologica che attual­mente la criminologia sta approfondendo è quella del Gaslighting. Tale termine viene preso a presti­to da un film chiamato Gaslight (la cui rivisitazio­ne italiana si chiama Angoscia) in cui un marito tenta continuamente di manipolare sua moglie e per fare ciò tende a spegnere e a riaccendere le luci a gas della casa, facendole credere di essere pazza (Gass, Nichols, 1988, 5). Dunque dall’ex­cursus di tale film emerge il fatto che tale fenome­no altro non è quel meccanismo sovversivo, da parte del partner, di indurre l’altro a credersi folle, a non affidarsi più alle proprie percezioni e al pro­prio sguardo sulla realtà, a sentirsi confuso. Que­sto comportamento mirato e sistematico si confi­gura come un attacco alle certezze della persona, scalfisce, oltre che la reale percezione delle cose e delle situazioni, la sua identità, la fiducia che ri­pone nello sguardo tangibile al susseguirsi degli eventi di coppia. Tale meccanismo manipolatorio può assumere diverse connotazioni. Principal­mente si individuano 3 tipi di gaslighter:

  1. Il manipolatore bravo ragazzo: si presenta premuroso e attento nei confronti della sua vittima ma, in modo più o meno inconsa­pevole, lo fa solo per arrivare al persegui­mento dei propri bisogni;

  2. il manipolatore affascinante che utilizza tutti i suoi strumenti seduttivi per condi­zionare ed imporre la sua figura sulla vitti­ma;

  3. l’intimidatore che presenta comportamenti apertamente ostili e aggressivi (Stern, 2009, 27-36).

Gass e Nichols, nell’approccio al gaslighting in quanto sindrome coniugale legata al tradimento e alle menzogne derivate da esso da parte di un ma­rito nei confronti della moglie evidenziano (1988, 7-9) alcune reazioni che le donne possono avere nei confronti del sovvertimento e dello stato di confusione provocato dai loro partner e dai loro tentativi di mascherare le loro relazioni extraco­niugali; esse sono fondamentalmente:

  • il rifiuto; esso rappresenta la prima reazio­ne al sospetto di una relazione extraconiu­gale del marito. Il rifiuto si tramuta nella tendenza, da parte della vittima, di negare quelli che sono i meccanismi manipolatori del partner, di precludere un cambiamento ed un declino nel proprio rapporto affetti­vo.

  • La sensazione di star perdendo la propria testa: i molteplici e reiterati dubbi innesca­ti dal gaslighter conducono la moglie a pensare “se lui non è pazzo, forse lo sono io” e a condurla ad un duplice bivio tra la sensazione di essere paranoici e l’idea di star perdendo il rapporto con il proprio marito (ibidem).

  • Il dolore: quando comincia ad insinuarsi sempre di più l’idea di un presunto tradi­mento da parte del marito, la donna cade in uno stato di dolore, rabbia disperazione, senso di colpa; ma il lutto non può essere elaborato se il partner continua a negare e ad innescare insicurezza circa la presunta pazzia (Gass, Nichols, 1998, 8).

  • Le razionalizzazioni maschili: oltre alla dissimulazione della realtà e ai tentativi di sovvertire ed inculcare la convinzione del­la pazzia, i gaslighter tendono a dare delle spiegazioni ai propri comportamenti tra­mite meccanismi colpevolizzanti nei con­fronti della vittima o spiegazioni come per esempio “Ti stai immaginando le cose solo per coprire te stessa” o, ancor peggio “Sei così fredda a letto che qualunque uomo vorrebbe un’altra” (ibidem). Ora, questi esempi si rifanno sempre alla sfera del tra­dimento ma indicano comunque la tenden­za da parte del narcisista perverso a river­sare le colpe sull’altro, deresponsabilizzan­dosi completamente delle proprie azioni e condotte sovversive e manipolative in quanto è l’altro che, con i suoi comporta­menti, lo ha portato a tutto ciò.

Facendoci aiutare dalla metafora del film a cui si è ispirato l’analisi di tale fenomeno coniugale, l’accensione e lo spegnimento continuo delle luci a gas altro non sono che il perpetuo e persistente vacillamento delle certezze e delle sicurezze che l’individuo perpetrato erige rispetto alla propria relazione affettiva, alle proprie facoltà mentali e, soprattutto, rispetto alla propria integrità e stima di sé. D’altronde, eticamente parlando, nessuno ha il diritto di credersi migliore sminuendo l’altro e facendolo sentire inadatto (ibidem).

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La perversione affettiva del narcisista Michela Vespe

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Il presente articolo si propone di esplorare e approfon­dire la personalità narcisistica e la relazione che la stessa sembra avere con la perversione affettiva. Ver­ranno analizzate la comunicazione perversa e la dipen­denza affettiva, sulla base dei più recenti studi, con l’intento di tracciare una linea di intervento psicologi­co efficace.

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Il termine “Narcisismo” deriva dal mito greco di un bellissimo fanciullo, Narciso, il quale, spec­chiatosi in un laghetto, era rimasto incantato e completamente rapito dalla sua stessa bellezza. Tale innamoramento era così forte da portarlo ad ignorare l’interesse e le avance della ninfa Eco, la quale, consumata dal dolore per il rifiuto subito, morì. Per antonomasia quindi con il nome dell’in­sensibile giovane si designa una persona egocen­trica, ripiegata solo su di sé ed incapace di amare e si conferisce il nome al corrente disturbo di per­sonalità con, tuttavia, una serie di confusioni ed imprecisioni circa il costrutto ed il significato del narcisismo nelle sue molteplici accezioni. In pri­mo luogo quelle che sono delle forme di autosti­ma non sono riferibili ad un quadro patologico, ma ad un narcisismo sano che esprime un’imma­gine del sé positiva che non preclude rapporti malsani con gli altri e non viene messo a repenta­glio in seguito ad un’esperienza negativa (Gab­bard, 2007, 41). Inoltre non tutte le manifestazioni narcisistiche rivelano questo senso di grandiosità o di spropositato egocentrismo cui si potrebbe pensare ma possono, invece, prendere forma tramite un’eccessiva sensibilità e chiusura in sé. A fronte di ciò si fa una distinzione tra un tipo di narcisismo più estrovertito che rivela un senso di grandiosità e fantasie di potere e di successo, tipo overt, ed un’altra tipologia (covert), invece, molto più tendente alla chiusura che indica, al contrario, un senso di inferiorità che cela sentimenti di vergogna e fragilità nel tentativo continuo di ricercare potere e gloria (Cooper, 2001, 53-60).

Per comprendere a fondo tale quadro di personali­tà e le sue modalità interpersonali, risulta opportu­no indicare i criteri diagnostici che il DSM – 5 ha riportato per orientare la diagnosi. In primis la de­scrizione che ne offre è quella di un pattern perva­sivo di grandiosità (nella fantasia o nel comporta­mento), bisogno di ammirazione ed assenza di empatia, presente in svariati contesti e con esordio nella prima età adulta, secondo i seguenti criteri (APA, 2014, 775-776):

  • senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di es­sere considerato/a superiore senza un’ade­guata motivazione);

  • è’ assorbito/a da fantasie di successo, pote­re, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale;

  • crede di essere “speciale” e unico/a e di poter essere capito/a solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata;

  • richiede eccessiva ammirazione;

  • ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative);

  • sfrutta i rapporti interpersonali (cioè ap­profitta delle altre persone per i propri scopi);

  • manca di empatia: è incapace di riconosce­re o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri;

  • è spesso invidioso/a degli altri o crede che gli altri lo/a invidino;

  • mostra comportamenti o atteggiamenti ar­roganti, presuntuosi.

Dunque da quanto emerge da tali criteri, tale indi­viduo all’interno dei propri rapporti interpersonali si mostra incapace di entrare in contatto affettivo ed empatico con il prossimo, in quanto l’altro e la relazione con esso, altro non sono che un modo tramite cui rispecchiare la propria grandiosità ed il proprio bisogno di riconoscimento. Infatti la scel­ta delle amicizie si basa proprio sulla possibilità di favorire i propri propositi abusando apertamen­te di tali rapporti, svalutando i bisogni e le debo­lezze altrui e mostrando una certa freddezza emo­tiva (APA, 2014, 776-777).

Tuttavia, per quanto una classificazione diagno­stica sia importante e vantaggiosa per la compren­sione di tale quadro patologico, essa non è esente da limitazioni. Il vincolo più importante è rappre­sentato dal fatto che la descrizione offertaci dal DSM sembra considerare solo gli aspetti del nar­cisista overt, decisamente più manifesti ed aggres­sivi, tralasciando altri aspetti quali ipersensibilità e fragilità dell’immagine di sé, tipici, invece, del tipo covert. Inoltre bisogna considerare il proble­ma della comorbilità con altri disturbi di persona­lità (borderline, istrionico, ecc.). Tale comorbilità non si riscontra solo in disturbi dello stesso clu­ster B ma anche in cluster differenti (Morey, in Lingiardi, 2014, 407-408). La presente questione però non è ascrivibile solo ai disturbi di personali­tà ma si riconduce anche ad altre manifestazioni patologiche, appartenenti all’ormai tramontato Asse I. Vi sono tra questi, per esempio, depressio­ne maggiore, disturbo da uso di sostanze, disturbi dell’alimentazione e così via (Ronningstam, 2001, 313-318). Nonostante la presenza di numerosi studi circa le correlazioni tra NPD e tali disturbi sono emerse comunque alcune discrepanze. In­nanzitutto la presenza di un disturbo specifico, per es. nell’alimentazione o nell’abuso di sostanze, rende più probabile la diagnosi di NPD così come, al contrario, un NPD implica automatica­mente una comorbilità specifica con tali manife­stazioni patologiche; dunque questo sottolinea maggiormente le interazioni complesse tra il nar­cisismo patologico e sindromi specifiche (Ron­ningstam, 2001, 319).

Rispetto a tali questioni e tematiche è importante e risulta doveroso, ai fini di un assessment più esaustivo e completo, comprendere non solo le espressioni manifeste del Narcisismo ma cogliere anche quelli che sono i suoi meccanismi più insiti e reconditi, abbandonando un approccio mera­mente fenomenologico per vagliare invece una di­mensione integrata e dalle molteplici sfaccettature di tale disturbo.

Narcisismo ed interpretazioni teoriche

Significativo è stato il contributo delle teorie psi­codinamiche riguardo la comprensione dell’ezio­logia, degli elementi costitutivi e di possibili dise­gni di intervento rispetto al Narcisismo. Già il pa­dre della psicanalisi, Freud (1974, 112-124), ave­va accennato a forme di Narcisismo primario e se­condario ma in linea di massima per indicare ed interpretare il ripiegamento su di sé nell’investi­mento omosessuale e descrivere alcuni aspetti dello sviluppo psico-sessuale del bambino. Chi appianò tale questione in modo più approfondito furono generalmente Kernberg (2008; 2010) e Kohut (1976) i quali si ricondussero ad osserva­zioni, esperienze cliniche con pazienti affetti da tale configurazione.

Kernberg, innanzitutto, riconosce l’esistenza del narcisismo normale, il quale consiste nell’integra­zione equilibrata tra l’immagine del Sé e quella delle relazioni oggettuali in modo maturo e adul­to. Allo stesso tempo, l’autore individua un narci­sismo patologico collocabile lungo un continuum a seconda del livello di gravità. Vi sono precisa­mente tre categorie di narcisismo patologico:

  1. Vi è una prima manifestazione in cui l’attivazione di conflitti basati sull’aggressività, con i mec­canismi della regressione o fissazione ai con­flitti infantili legati ad un Sé ben integrato, costituisce un’intensa fonte di frustrazione e minaccia al narcisismo normale (Kernberg, 2008, 328).

  2. Vi è un secondo tipo decisamente più grave che rileva la presenza di un Sé grandioso patolo­gico. Esso si riferisce a quegli individui che si identificano con un oggetto e amano un og­getto che rappresenta il loro Sé (Kernberg, 2008, 328). Dunque questo è proprio di chi ama una persona nella misura in cui vorrebbe essere amato; è chiaro il bisogno continuo di riconoscimento e di certezze da parte dell’e­sterno. Tale tipologia di paziente, inoltre, im­pronta le proprie relazioni secondo modalità parassitarie e tendenti allo sfruttamento (Kernberg, 2010, 222).

  3. Vi è poi la sindrome patologica narcisistica vera e propria. Qui fondamentalmente il rapporto si riduce tra il Sé ed il Sé, nel senso che la rela­zione narcisistica ha sostituito quella ogget­tuale (Kernberg, 2008, 330). Essa rappresenta la situazione di quei casi al limite della realtà che fanno degli impulsi le loro modalità af­fettive e relazionali. In questi pazienti la grandiosità e l’autoidealizzazione patologica sono rinforzate dal senso di trionfo sulla pau­ra e sul dolore, il tutto espresso tramite l’irro­gazione del dolore e della paura agli altri e tramite l’uso del piacere sadico, derivato dal­l’aggressività e dalle manifestazioni pulsiona­li sessuali, per accrescere il proprio livello di autostima (Kernberg, 2010, 224). Dunque i tratti patologici essenziali dei pazienti con tale disturbo si riferiscono rispettivamente al­l’amore di sé patologico, all’amore oggettuale patologico e al Super-Io patologico (Kern­berg, 2001, 39).

Diversi e disparati furono gli studi e le prospettive di Kohut. Ispiratosi agli studi di Freud, egli portò alla luce dei nuovi spunti per l’approccio al narci­sismo tramite, in modo particolare, l’osservazione e l’analisi accurata del transfert nelle relazioni terapeutiche; infatti egli notò che il modo di porsi dei pazienti, le loro forme relazionali con annesse richieste ed aspettative celassero delle concezioni dell’altro/oggetto come funzione e strumento per plasmare, invece, l’immagine del sé, concezioni radicatesi durante il percorso di crescita e tramite le prime esperienze infantili. Nello specifico egli individuò tre tipi di traslazione:

    1. traslazione speculare, che ha vita quando l’altro viene percepito come un prolungamento ed un’estensione del Sé grandioso; infatti la re­lazione diventa strumentale al mantenimen­to della propria immagine, un rispecchia­mento di essa nel tentativo costante di con­ferirle sicurezza.

    2. Traslazione idealizzante; rispetto a ciò, Kohut (1976, 45) sostiene che la perfezione narci­sistica presente nello sviluppo del bambino viene spostata sull’altro, sull’oggetto; la sua idealizzazione infatti rende la persona vuota ed impotente quando è separata da esso, spingendola a ricercare costantemente il suo contatto. Dunque l’altro in relazione viene inteso come essere perfetto ed ineguagliabi­le ed il narcisista si sente fortemente legato ad esso; se prima l’altro era lo specchio del sé, ora quest’ultimo diventa lo specchio del­l’altro in un rapporto in cui quest’ultimo in­carna quelle che sono le proprie fantasie di perfezione. Bisogna chiarire che l’idealizza­zione della relazione (in primis quella pa­rentale), è fondamentale per il nostro svi­luppo, ma se non viene superata con l’accet­tazione del reale, può creare aree di vulnerabilità.

    3. Traslazione gemellare o alteregoico; tale denomi­nazione deriva dal fatto che la persona per­cepisce l’oggetto/altro come simile a lui, un suo alter ego e che tale omogeneità, che essa pretende e sostiene, altro non è che un modo per confermare il proprio essere.

Un importante contributo di tale autore, in ultima analisi è il concetto della rabbia narcisistica: Ko­hut (2002, 142-144), infatti, sostiene che essa non solo si manifesti con collera e attacchi irruenti ma anche con chiusura e vergogna, in quanto tale rab­bia è il risultato di ferite narcisistiche che si stabi­liscono nell’individuo ogniqualvolta egli si sente attaccato.

Successivamente allo sviluppo di varie teorie ed approcci di stampo psicodinamico, ulteriori studi presero avvio rispetto al disturbo narcisistico, tra questi il modello relativo all’orientamento cogniti­vo.

Alla luce dell’approccio cognitivista contempora­neo, Semerari e Dimaggio interpretano la psicopatologia come un insieme di contenuti e processi disfunzionali e distorti circa le rappresen­tazioni degli stati mentali propri e altrui, che in­fluenzano radicalmente l’approccio all’ambiente, alla realtà, alla vita. Rispetto al disturbo narcisisti­co, gli autori, pur riconoscendo la presenza di sen­timenti di grandiosità e di pienezza di sé, eviden­ziano come esso tenda ad esprimersi tramite una vaga insoddisfazione ed insofferenza, sintomi an­siosi e distacco, il tutto metaforicamente parago­nato a un arroccamento e ritiro dell’uomo in una torre solitaria la cui chiave di accesso è stata get­tata via (Dimaggio, Semerari, 2007, 162). Il di­stacco menzionato rivela una tendenza, da parte del narcisista, di tenersi alla larga dai suoi stati emozionali, in quanto erroneamente intesi come segno di debolezzad. Nel mondo del narcisista non è permesso essere fragili e poter esprimere liberamente questo aspetto di sé e, dunque, mere spiegazioni e giustificazioni astratte, prive di un reale riferimento alla realtà, prendono il sopravvento sulla percezione della reale natura delle cose. In modo specifico quegli stati interni a cui i narcisisti hanno scarso accesso sono quelle emozioni legate all’attivazione del sistema di attaccamento e i desideri non integrati nell’immagine grandiosa di sé, desideri, scopi, obiettivi che se irrinunciabili, rendono il soggetto schiacciato, oppresso (Dimaggio, Semerari, 2007, 163). I due autori hanno individuato quattro tipologie di stati mentali associabili al NPD che sono rispettivamente:

  1. Stato grandioso: in esso i costrutti ed i con­tenuti del pensiero sono prevalentemente le­gati al senso di grandiosità, autosufficienza, dominio sul mondo e di non appartenenza ad un gruppo;

  2. Stato depresso/terrifico: qui i domini centrali riguardano il senso di fallimento, di rifiuto, minaccia, sconfitta, auto-svalutazione in cui le configurazioni emozionali rispecchiano vergogna, paura, tristezza, nostalgia del “pa­radiso perduto”;

  3. Stato di vuoto devitalizzato: in tale condizio­ne, la consapevolezza emotiva è spenta su qualsiasi fronte in cui vi è il dominio di sen­sazioni quali la freddezza, il distacco, la lon­tananza dall’altrui e dalla propria esperienza interiore; tali percezioni non si configurano come spiacevoli ma piuttosto come un modo per sottrarsi alla fluttuazione della propria autostima;

  4. Stato di transizione: esso si attiva quando la persona sente minacciati quegli obiettivi che fondano l’autostima, portandolo a provare rabbia, ad essere auto/etero-aggressivo e a ricercare negli altri la causa dei suoi falli­menti; inoltre peculiarità di tale stato è l’at­teggiamento seduttivo, l’uso di sostanze e l’i­per-lavoro per ripristinare il proprio prestigio ((Dimaggio, Semerari, 2007, 166-168).

Alla strenua di quanto detto, il narcisista, nel con­fronto ed incontro con l’altro, combatte i rischi dell’intimità tramite l’evitamento, l’annichilimento emotivo che annulla qualunque possibilità di esse­re rifiutati, in quanto ciò è considerato inaccetta­bile.

In vista di una visione più ampia ed approfondita delle teorie di personalità, risulta opportuno indi­care i modelli interpersonali, di cui A. L. Pincus costituisce un rappresentante importante; egli, in­fatti, rappresenta un promotore della teoria inter­personale integrata contemporanea (CIIT) della personalità, che interpreta la patologia ed i distur­bi come una disfunzione interpersonale cronica ri­collegabile a problemi con il sé e l’identità. Le si­tuazioni interpersonali sono lo specchio e lo spa­zio di prova della persona nell’espressione del suo modo di vivere e rapportarsi alla vita, nel conti­nuo processo di regolazione della propria parven­za e di organizzazione delle proprie esperienze con gli altri. Rispetto al Narcisismo le ricerche e le applicazioni empiriche di Pincus hanno portato al riconoscimento di una duplice manifestazione patologica, due stili di personalità narcisistica che sono rispettivamente quello grandioso e quello vulnerabile (Pincus, Lukowitski, 2009; Pincus, Dickinson, 2003). Entrambe le manifestazioni im­plicano processi intrapsichici peculiari e com­portamenti interpersonali ben definiti. I processi intrapsichici includono la repressione delle diffi­coltà di auto-regolazione e di quelle rappresenta­zioni che smentiscono la propria immagine, di­storcendo le informazioni esterne; l’espressione comportamentale implica, invece, lo sfruttamento interpersonale, la mancanza di empatia ed una forma intensa di invidia (Pincus, Lukowitsky, 2009, 426-427). Tali aspetti implicano due ele­menti centrali nella configurazione narcisistica che sono il diritto a pretendere consenso ed indi­viduazione della propria preminenza sugli altri e lo sfruttamento dell’altro, che avviene in modo del tutto camuffato e celato da un’apparente funziona­lità nei rapporti sociali; ciò comporta un depaupe­ramento nelle relazioni, che designa le proprie fantasie di potere e di prevaricazione. La configu­razione narcisistica grandiosa implica una tenden­za all’esibizionismo, la ricerca di attenzioni e le difficoltà nello sviluppo di atteggiamenti di empa­tia nei confronti degli altri; inoltre gli individui con tale manifestazione tendono ad avere delle difficoltà interpersonali vincolate a tendenze ven­dicative, prepotenti e calcolatrici (Pincus, Dickin­son, 2003, 200). Rispetto alla configurazione dei narcisisti vulnerabili, vi sono una serie di diver­genze: la prima è relativa ai rapporti interpersona­li ossia alla difficoltà consapevole che riscontrano all’interno delle loro relazioni; infatti è chiara la loro mancanza di fiducia nella capacità di avviare e mantenere relazioni sociali, nella paura di essere delusi e nella vergogna che manifestano nell’e­spressione dei loro bisogni all’interno dei rapporti con gli altri (Pincus, 2003, 201). In un certo senso questa percezione e questa diffidenza che sentono li portano a sentirsi autorizzati a basare le loro modalità relazionali sullo sfruttamento. Un’analogia con le forme grandiose di narcisismo è rintracciabile nei comportamenti vendicativi e prepotenti che implicano il tentativo continuo di far fronte alle proprie difficoltà di auto-regolazione.

Nel tentativo difensivo di tutelare la propria auto­stima, questa tipologia di narcisisti tende essen­zialmente ad attuare delle condotte di evitamento del prossimo, di eludere un contatto troppo mi­naccioso che rischia di contro-bilanciare la perce­zione già fragile del sé.

Nonostante tale distinzione, Pincus tuttavia, espri­me (2009, 423) il suo dissenso nella distinzione delle forme narcisistiche di tipo overt e covert ol­tre che di altre forme tassonomiche, in quanto tali aspetti precludono il fatto che il Narcisismo possa assumere delle connotazioni dicotomiche che non colgono la relatività di qualunque situazione, mo­dalità interpersonale e possibilità d’azione dell’in­dividuo. Il narcisismo in sé per sé comprende sia un senso occulto di grandiosità sia una vulnerabi­lità tacita o palese.

Infine può risultare utile evidenziare alcuni aspetti dei modelli integrati, citando alcuni esponenti quali T. Millon, promotore del modello bio-psico-sociale e Young, leader del modello dello Schema – Therapy. Il modello proposto da Millon (1990, 47), vede l’integrazione di tre polarità (soggetto/oggetto; piacere/dolore; attivo/passivo): la prima si riferisce a tutte quelle azioni e piani che l’individuo attua verso se stesso e/o verso l’al­tro; la seconda, invece, è legata agli scopi dei pia­ni esistenziali dell’uomo i quali vertono verso il controllo del piacere e l’evitamento del dolore; l’ultima, infine, rispecchia il ruolo che l’individuo assume nel suo contatto, interazione e scambio continuo con l’ambiente d’appartenenza. Rispetto al Narcisismo l’autore ha individuato 5 sottotipi di personalità narcisistiche:

1. Narcisista normale: tale individuo mostra una buona autostima che lo porta ad essere ambizioso, mostrando comunque sempre una certa preoccu­pazione sociale ed empatia interpersonale che lo estromettono da tendenze sfruttatrici tipiche delle personalità narcisistiche;

2. Narcisista senza scrupoli: tale configurazione è propria di quei narcisisti che presentano un senso arrogante del proprio valore, di indifferenza nei confronti degli altri sui quali tendono a voler pre­varicare per sfruttarli;

3. Narcisista amoroso: la tendenza dominante in tale sottotipo è di tipo erotico e seduttivo in cui si attira l’altro per rinforzare il proprio valore in un gioco di tentazione sessuale;

4. Narcisista compensatorio. A differenza degli altri, tale sottotipo presenta dei comportamenti narcisistici per celare un senso di insicurezza e debolezza; dunque tali tendenze risultano com­pensatorie in quanto sono orientate a riparare le proprie ferite e le proprie mancanze;

5. Narcisista elitario. Tale configurazione risulta molto più tendente all’ideazione rispetto a quella compensatoria: il sé ideale ed il sé reale si mesco­lano e allontanano il soggetto dalla consapevolez­za degli inganni auto-inflitti in cui l’apparenza del mondo diventa realtà concreta e oggettiva (Mil­lon, 1996, 408 – 412).

Dunque, anche nelle teorizzazioni di Millon, vi sono delle analogie con le forme prototipiche di narcisismo analizzate dai precedenti approcci. In ogni caso è chiaro che lo sguardo clinico deve ab­bandonare quella che è l’idea circoscritta di criteri, manifestazioni sindromiche omogenee nei vari pattern di personalità patologiche e non, in quanto essi possono rivelare differenze significative da persona a persona ed avere espressioni diversificate e dalle molteplici entità.

Infine lo Schema Therapy nasce dall’esigenza di ampliare la terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dei disturbi di personalità, pre­stando attenzione all’analisi delle diverse fasi del­lo sviluppo della patologia, alla sfera emotiva, alla relazione terapeutica e alle modalità di coping di­sfunzionali (Young et al., 2007, 3-5). Il concetto di schema, già riscontrato nelle teorie cognitive, si ricollega a quei costrutti inerenti alla visione di se stessi e della realtà circostante, strutture cognitive che prendono avvio già dalle nostre esperienze in­fantili; ognuno di noi, infatti, a seconda del pro­prio vissuto, delle esperienze, delle influenze am­bientali o peculiarità tende a costruire un proprio schema tramite cui conferisce senso alla propria vita. Tale schema, inoltre, si configura in una serie di meccanismi e processi, ossia modalità di co­ping che sono quelle strategie specifiche e com­portamenti attuati da ognuno di noi in situazioni percepite come pericolose (Young et al., 2007, 36). Un aspetto centrale in tale modello è quello di mode, il quale corrisponde all’insieme di stati emotivi e risposte di coping. Esso si può rivelare disfunzionale quando coinvolge schemi o risposte di coping maladattivi e si esprimono sotto forma di emozioni negative, comportamenti autodistrut­tivi i quali, influenzando la risposta dell’individuo, agiscono sul suo funzionamento emotivo e com­portamentale (Young et al., 2007, 40). Essi sono delle modalità tramite cui il soggetto attiva una serie di schemi, processi o meccanismi, affronta determinate circostanze e che assumono moltepli­ci denotazioni a seconda della situazione. Rispetto ad esso vediamo come il narcisista sia portato ad assumere dei mode specifici e ben radicati. Essi sono essenzialmente di 10 tipologie appartenenti a 4 categorie principali (Young et al., 2007, 43-47):

1. il Bambino;

2. mode di Coping disfunzionale;

3. mode di Genitore disfunzionale;

4. mode di Adulto funzionale.

Secondo l’autore tale tipologia di paziente presen­ta, escludendo quello funzionale, 3 mode che sono rispettivamente (Young et al., 2007, 415-421):

1. Il bambino solo, che si attiva quando i suoi bi­sogni emotivi rimangono insoddisfatti;

2. il Presuntuoso, che indica in tentativo compen­satorio di far fronte alla sua inadeguatezza tramite la deprivazione emotiva;

3. il Consolatore distaccato che implica la tenden­za ad evitare il dolore associato al bambino solo.

Il primo implica la tendenza, da parte di tali per­sonalità, di sentirsi deprivato, distante dagli altri. In questo senso predomina la convinzione di sen­tirsi poco apprezzati e amati dagli altri; tale aspet­to si riconduce al fatto che le proprie capacità, il proprio valore, non vengono adeguatamente rico­nosciuti, facendo inevitabilmente scaturire nel soggetto la percezione di umiliazione, solitudine e abbandono.

Il secondo implica quelle strategie di coping orientate alla compensazione, nel senso che, di fronte ai sentimenti e alle conseguenze della de­privazione emotiva, inadeguatezza, criticismo, umiliazione e fallimento, il soggetto tende ad uti­lizzare il suo senso di grandiosità rispetto agli al­tri. Egli in modo del tutto difensivo tende a ma­scherare la sua fragilità e sensibilità alle insolven­ze. Quando i narcisisti si trovano in questo mode adottano generalmente tali stili di coping (Young et al., 2007, 419):

  • aggressività e ostilità;

  • dominanza ed eccessiva auto-affermazio­ne;

  • ricerca di ammirazione e status;

  • manipolazione e sfruttamento.

Il terzo mode, invece, dal momento che è legato al bambino solo, assolve allo scopo di rimunerare quel senso di vuoto, di solitudine che emerge quando la persona percepisce la distanza tra sé e gli altri. Inoltre in tale modello i vari autori hanno individuato (2007, 423-426) quattro fattori che possono generalmente caratterizzare l’ambiente familiare entro il quale crescono gli individui che presentano tale configurazione patologica, che sono principalmente:

1. solitudine ed isolamento: esperienze pre­gresse di deprivazione emotiva in cui le fi­gure genitoriali sono state poco affettuose ed empatiche;

2. limiti insufficienti: infanzia dominata da po­che regole ed eccessiva permissività da parte dei genitori non, però, nei bisogni emotivi;

3. sfruttamento e manipolazione: ambiente abusante in cui sono stati sfruttati per far fronte ai bisogni genitoriali;

4. approvazione condizionata al posto di amore e affetto disinteressato ed autentico.

In un certo senso ciò che viene avvertito è lo stato di inadeguatezza e di imperfezione determinato dal fallimento delle richieste di ammirazione ed è proprio questo che avvia nel narcisista il continuo pensiero dicotomico e disfunzionale secondo cui l’approvazione si traduce in valore e la disappro­vazione, invece, in un totale ed insostenibile smacco.

Il perverso narcisista o aggressore

Nella delineazione delle peculiarità che sottendo­no la perversione relazionale e la configurazione narcisistica si sono già analizzati alcuni aspetti. Tuttavia risulta importante approfondire ulterior­mente i suoi molteplici aspetti, in vista della pos­sibilità di riconoscerli nella propria quotidianità.

CARATTERISTICHE

Riprendendo l’analisi mossa da Hirigoyen (2000, 136-144), vi sono varie forme tramite cui si espri­me la perversione del narcisista; esse sono la me­galomania, la vampirizzazione, l’irresponsabilità e la paranoia.

I perversi narcisisti sono degli esseri me­galomani,. Sono poco interessati ed empatici nei confronti degli altri, ma, allo stesso tempo, pre­tendono attenzioni, credendo che tutto gli sia do­vuto (Hirigoyen, 2000, 136). Il perverso narcisista è ben inserito nella società, è brillante e rispettabi­le, dimostra apparentemente di possedere valori morali ed autostima. La sua prima forma di mani­polazione consiste nel mostrare quello che non è (Morelli, Couderc, 2014, 84-86). E’ chiaro, dun­que, come egli costruisca un falso sé. Ciò che at­tua è un processo di seduzione verso il prossimo. Tale processo solitamente interviene nello svilup­po di alcune relazioni. In esso, infatti, si mettono in atto una serie di codici sociali e culturali che implicano il tentativo di farsi piacere dall’altro mostrando quello che è il proprio lato migliore, come è normale e legittimo che sia all’inizio di un rapporto (Nazare-Aga, 2008, 22). Ma la seduzione del perverso si distingue sia per il suo fine, il quale è quello di subordinare, sia per quello che mostra, in quanto non si tratta di enfatizzare le proprie qualità ma di mostrare una falsa identità.

Vi è poi la vampirizzazione. Con tale termine si vuole evidenziare come il perverso si serve del narcisismo dell’altro (si parla in questo caso del narcisismo sano), della sua energia, della sua au­tostima per alimentarsi, per mantenere integra la propria identità. Dunque il partner esiste non in quanto essere umano ma come sussidio. La per­versione di tale meccanismo sta nel tentativo di evitare, rinnegare la propria sensazione di vuoto tramite la relazione con l’altro (Hirigoyen, 2000, 138). Ciò che muove il perverso nello scalfire l’autostima e la fiducia in sé del partner è l’invidia che esso nutre per il suo senso di integrità e quali­tà. Infatti nella maggior parte dei casi i perversi scelgono le loro vittime tra individui pieni di energia, che hanno gioia di vivere, come se voles­sero accaparrarsi un po’ della loro forza, appro­priandosi delle loro qualità morali (Hirigoyen, 2000, 140-141). Quindi l’unico motivo che spinge il perverso a costruire un legame si innesta nella misura in cui l’altro, oltre a rispecchiare la propria grandiosità, possa soddisfare i tentativi di risanare la propria vulnerabilità, le proprie manchevolezze.

Un altro aspetto è l’irresponsabilità che è ricon­ducibile alla colpevolizzazione che si attua nelle varie espressioni della violenza psicologica. Nella formazione della propria personalità, la responsa­bilità corrisponde ad un processo di progressiva interiorizzazione delle esperienze, che porta con sé un vincolo più circoscritto ed esigente sotto forma di coscienza morale, ma, allo stesso tempo, una maggiore autonomia della personalità rispetto alle credenze, usi, costumi della propria cultura o gruppo d’appartenenza (Filippini, 2006, 338). La colpevolizzazione che opera il narcisista altro non è che lo svuotamento del significato intrinseco di tale costrutto e la rivelazione della propria vacuità. Tramite meccanismi di proiezione i narcisisti addossano al prossimo ogni loro difficoltà e ogni loro fallimento eludendo il dolore psichico e trasformandolo in negatività (Hirigoyen, 2000, 142). Il narcisista, essendo molto sensibile alle critiche, ai fallimenti, non potrà mai accettare di essere agente indiscusso e diretto di essi; di conseguenza l’attribuzione causale è esterna poiché rappresenta una minaccia incombente alla propria integrità. Si rende, insomma, la relazione perversa un luogo sicuro entro cui poter controllare e dirigere affetti e dinamiche relazionali. Tendono a sollecitare negli altri il rifiuto perché ciò li rassicura circa il corso degli eventi e della vita secondo i loro piani e previsioni, ma nel momento in cui un legame si conclude, vanno alla ricerca di un altro rapporto che possa fornire loro il sostegno di cui necessitano (Hirigoyen, 2000, 142).

Vi è poi la paranoia. Ciò che, però, distingue un narcisista da un paranoico vero e proprio è il fatto che il perverso narcisista tende a raggirare gli altri utilizzando la seduzione a differenza del paranoi­co che, invece, utilizza la forza; l’obiettivo intrin­seco è la distruzione dell’altro in quanto potenzia­le minaccia; infatti, proiettare tutto il male su qualcun altro consente loro di essere migliori nel susseguirsi della loro esistenza garantendo quindi una relativa stabilità (Hirigoyen, 2000, 144).

Un altro aspetto che bisogna prendere in conside­razione nel focus sulla dinamica di coppia ricade nella sfera della sessualità, in quanto componente importante e profondamente intima nella costru­zione di un rapporto. Dal momento che il perverso mira a rispecchiarsi completamente nel­l’altro, nella vita sessuale il suo primo obiettivo è quello di essere considerato un bravo amante; è chiaro che ciò dimostra come il perseguimento del piacere sessuale dell’altro sia finalizzato ad una sorta di soddisfazione personale, una conferma delle proprie “doti” (Morelli, Couderc, 2014, 107). Dunque anche tale momento di condivisio­ne diventa per il narcisista un’esperienza di isola­mento, un’estraniazione psico-fisica proiettata verso il pensiero continuo e quasi ossessivo di do­ver piacere, di essere e dimostrare la propria per­fezione. Altre connotazioni della vita sessuale di un perverso narcisista riguardano la tendenza ed il desiderio di spingersi oltre i limiti possibili di una sessualità “tradizionale”, chiedendo al partner di fare nuove esperienze. Da qui la strada può essere spianata verso una sessualità che comincia a di­ventare sempre più distorta, meno irrispettosa e più improntata sull’ egoismo. Nella sessualità il modello dominatore-dominato è molto frequente nelle coppie (Nazare-Aga, 2008, 75). Date le de­scrizioni precedenti, risulta facile comprendere come il perverso tenda, quindi, ad assumere il ruolo di dominante, ma egli, attuando modalità re­lazionali sovversive, può anche rivestire il ruolo di dominato, aspetto che sottolinea ulteriormente come sia lui stesso a stabilire il ruolo, lo stile e il corso dei rapporti sessuali.

Come già accennato prima non esiste solo un nar­cisismo al maschile. I meccanismi di dominio e di controllo, la violenza delle donne nei confronti degli uomini, però, è meno denunciata; questo po­trebbe essere associato ad alcune motivazioni: una è riferibile al fatto che il maltrattamento subito dall’uomo è vissuto con più vergogna, mentre un’altra è essenzialmente che gli uomini vittime riescono a sbarazzarsi più facilmente della relazione e a trovare maggiori risorse esterne (per esempio materiali) (Hirigoyen, 2006, 114-118). Nonostante i meccanismi perversi e sovversivi possano essere adoperati sia da uomini che donne narcisiste esistono alcune differenze. Nel narcisismo femminile patologico vi è una tendenza all’ideazione persecutoria che porta con sé continui conflitti e rotture motivate dall’ingratitudine e cattiveria degli altri; ella si impegna in un incessante invischiamento con il compagno nella pretesa di cambiarlo completamente, evidenziando il suo senso di inadeguatezza ed innescando, così la sua dipendenza affettiva (Secci, 2014, 58-59).

LA COMUNICAZIONE PERVERSA

Oltre allo sfruttamento affettivo che opera il per­verso nel monopolio della relazione, altro stru­mento d’impatto è senza dubbio la comunicazio­ne. Essa rivela ulteriormente la distorsione della realtà che il perverso ha, opera ed infligge. Innan­zitutto è fondamentale cogliere e far presente un elemento centrale: il perverso relazionale non co­munica, si limita ad alludere e rifiuta ogni scam­bio autentico in quanto esso costituisce un veicolo che racchiude in sé contenuti emotivi potenzial­mente pericolosi e disorganizzanti (Guerrini del­l’Innocenti, 2011, 7). Lo sviamento di un argo­mento o di una questione, la negazione del rim­provero o del conflitto, l’aggressione verbale, sono tutti aspetti rappresentativi di tale rifiuto che, implicitamente, esprime la negazione dell’altro, del suo diritto di esprimersi nonché della sua esi­stenza (Hirigoyen, 2000, 104). In maniera analoga Nazare Aga riporta (2008, 112) alcuni esempi che indicano la tendenza dei manipolatori narcisisti ad evitare le discussioni:

  • evita qualsiasi confronto;

  • non si presenta ad un appuntamento anche se ha promesso di venire;

  • interrompe bruscamente una conversazio­ne;

  • mette il broncio prima che il discorso sia terminato e, per colpevolizzare, dice all’altro che ne conosce il motivo.

Di fronte ad una discussione autentica invece:

  • cambia argomento;

  • quando l’interlocutore si innervosisce dice frasi inaspettate come “sei bella quanto ti arrabbi”;

  • interpreta;

  • proietta ossia accusa l’altro di avere un comportamento o un’intenzione che in realtà corrisponde ai suoi comportamenti e alle sue intenzioni (per es. accusa l’altro di avere un amante quando desidera una rela­zione extraconiugale).

Gli esempi continuano e sono svariati. Tutti impli­cano l’assenza totale di qualsiasi forma di rispetto nei confronti della relazione e del partner.

Il perverso, quando comunica con la sua vittima. ha una voce fredda, incolore e piatta, utilizza mes­saggi vaghi ed imprecisi, non termina le frasi co­sicché possa aprire la strada ad una serie di inter­pretazioni e malintesi (Hirigoyen, 2000, 105-107).

L’utilizzo di un tono neutro anche durante le di­scussioni può creare ulteriori forme di confusione in quanto, in modo manipolativo e sotteso, sottoli­nea e crea un’ulteriore distanza tra sé e l’al­tro, implica la negazione di un’effettiva questione. Un altro espediente verbale del perverso è l’uso di un linguaggio tecnico, astratto, dogmatico che coinvolga l’altro in ragionamenti ambigui, poco comprensivi (ibidem). Tali manovre, oltre a raggi­rare i conflitti, sono un tentativo indiretto ed estremamente sottile di insinuare il dubbio nell’al­tro circa le proprie facoltà di comprendere il con­fronto e le sue parole e, dunque, di affermare la propria superiorità. La comunicazione perversa si basa sulle menzogne. Esse non sono dirette in modo tale da renderle difficilmente imputabili. Tali mezzi indiretti destabilizzano la persona e la portano a dubitare che quanto è appena successo sia accaduto davvero (Hirigoyen, 2000, 109). Un aspetto analogo è l’utilizzo della menzogna per sa­pere, invece, la verità. Essa consiste nel trasfor­mare una supposizione in affermazione o di fare una domanda che prevede un elemento sbagliato (Nazare-Aga, 2008, 115). Questa tecnica indica la sistematicità con cui il narcisista manipola il rap­porto, le parole e la realtà. Altro elemento predo­minante è l’uso del sarcasmo, della derisione e del disprezzo. Il narcisista, disprezzandosi profonda­mente, proietta anche verbalmente e direttamente sull’altro tale suo svilimento in modo tale da ri­durre il suo disagio e conflitto interiore. Il con­fronto verbale con un perverso deve considerare un altro punto cruciale: l’uso del paradosso, quali, per esempio, l’espressione di un contenuto a livel­lo verbale ed uno completamente opposto ed av­verso a livello non verbale. Già con le teorie di Bateson circa l’impiego di tale distorsione si sono analizzati gli effetti devastanti di tale misura co­municativa nel contesto familiare in grado di por­tare, addirittura allo scompenso psicotico. Si im­magini quanto questo, all’interno di una relazione possa essere altamente destabilizzante e avvilente.

La vittima

Quando si parla di violenze e abusi di qualunque tipo e quando si viene a conoscenza di certe real­tà, l’opinione pubblica fa presto a pensare che chi si trova in certe situazioni è perché se l’è andata a cercare (Ponzio, 2004, 23). Tale preconcetto ri­manda e si confonde con la questione del maso­chismo. Già Freud aveva parlato (1974, 110) di masochismo in senso morale che consiste nella ri­cerca intenzionale della sofferenza per rispondere al proprio desiderio di espiazione; il masochista non solo gode dei suoi dolori e sofferenza ma se ne lamenta continuamente. Tuttavia ci sono alcuni motivi che escludono tale intepretazione dall’ana­lisi del profilo della vittima che si intende offrire in tale trattazione. Nazare – Aga ha evidenziato (2008, 109-110) alcuni aspetti che escludono il meccanismo masochistico:

  • la maggior parte delle vittime lascia il pro­prio carnefice anche se ciò non significa che chi resta è un masochista;

  • vi è un senso di liberazione da parte di chi si è svincolato da questa relazione;

  • alcuni intraprendono un legame più co­struttivo e riacquistano fiducia in se stessi;

  • la fase di seduzione offre pochi indici circa l’excursus futuro della relazione ed è pro­prio in questo momento che il perverso pone i cardini del dominio sull’altro;

  • le vittime dei perversi sono in uno stato di forte disperazione.

Il fatto che alcune donne restino non im­plica necessariamente la presenza di forme di masochismo. Per quanto possano esistere quelle coppie perverse in cui masochismo e narcisismo si intersecano perfettamente non si può estendere tale concetto a individui che sono divorati da tale legame patologico e lo vivono in uno stato di con­fusione e angoscia per cui né trovano giovamento né se ne lamentano, ma anzi lo seppelliscono.

Un’altra questione che merita un’ulteriore rifles­sione è l’utilizzo del termine “vittima”; infatti tale designazione fa pensare ad un qualcuno che subi­sce passivamente un qualcosa, come suggerisce anche il dizionario italiano che la definisce come “chi soccombe all’inganno, alla prepotenza, alla violenza” (De Mauro, 2007, 2911). In tal modo emerge una certa passività e de-responsabilizza­zione della persona di fronte a tale dinamica, escludendo la sua agentività e valorizzando la di­storsione che il perverso attua. Ed è qui il para­dosso. La vittima è attiva, segue le sue prospetti­ve, le sue emozioni, i suoi affetti ma tutto ciò vie­ne posto in uno spazio artefatto, simulato dalla se­duzione narcisistica, dalla perversione. Dunque, in realtà, la vittima sta esaurendo un rapporto de­vastante in modo inconsapevole, con l’unica colpa di “amare troppo”. Rispetto a questo concetto, ri­facendosi al prototipo femminile di donna, Robin Norwood argomenta i motivi per cui le donne amano troppo, riportando la favola della Bella e la Bestia: essa infatti è esemplificativa di come vi sia una tendenza da parte delle donne di candidar­si come salvatrici e protettrici di uomini inetti, de­boli, ma anche crudeli, instabili, offensivi.

In un certo senso questo concetto è riconducibile al triangolo drammatico di Karpmann in cui, iden­tificando i tre principali ruoli del carnefice, della vittima e del salvatore, quest’ultimo viene assunto da chi intraprende queste relazioni, ritrovando l’incastro perfetto in tali relazioni malsane. Ma, data la dinamicità di tali ruoli, si fa presto ad assistere ad uno stravolgimento effettivo di tali dinamiche relazionali e perciò, quel partner salvifico si trasforma in un oppresso, vittima dei suoi stessi propositi.

LA DIPENDENZA AFFETTIVA

Un ulteriore aspetto che può essere considerato un tassello perfettamente combaciante con quello della dinamica narcisistico-perversa è quello rela­tivo alla dipendenza affettiva. La dipendenza af­fettiva è un disturbo della sfera emotiva e relazio­nale determinato dalla centralità di un “oggetto d’amore” (l’altro, il partner) verso il quale il sog­getto nutre sentimenti disfunzionali di centralità; essa si manifesta a livello cognitivo, emotivo e comportamentale e porta ad un peggioramento graduale nei vari ambiti dell’esistenza quotidiana della persona (Secci, 2014, 72-74).

A livello cognitivo le caratteristiche sono:

  • pensiero costantemente concentrato sul­l’oggetto d’amore;

  • tendenza a riportare a sé e/o alla relazione ogni comportamento dell’altro;

  • tendenza a sovrastimare i segnali di con­ferma e a sottostimare quelli di disconfer­ma;

  • difficoltà di concentrazione;

  • idealizzazione della persona amata (Secci, 2014, 73-74).

Da un punto di vista emotivo, invece, vi sono ul­teriori stati instabili. Alcune caratteristiche delle emozioni sono (Secci, 2014, 74-75):

  • ansietà e sensazione di allarme o pericolo imminente;

  • umore tendenzialmente depresso con pic­chi di eccitazione;

  • tendenza, in modo proiettivo, ad attribuire le proprie emozioni all’oggetto d’amore;

  • vissuto di abbandono e solitudine;

  • sentimenti di vuoto e di mancanza di sen­so;

  • graduale disinvestimento emotivo dal mondo circostante con ritiro sociale;

  • emozione costantemente rivolta sull’ogget­to d’amore.

Appare chiaro che l’emozionalità si fonda su versanti negativi che si discostano dalla costru­zione di un rapporto sano ed equilibrato. Vi è infi­ne la dimensione comportamentale la quale verte sull’impulsività. La persona, infatti, è travolta da­gli impulsi e dal bisogno di trasformarli in azioni; alcuni aspetti comportamentali sono (Secci, 2014, 75-76):

  • comportamenti compulsivi come ad esem­pio chiamate, sms, email;

    • atteggiamento accondiscendente verso l’oggetto di dipendenza pur di catturare la sua attenzione;

  • incapacità di prendere decisioni;

  • tendenza a delegare proprie responsabilità;

  • tendenza a rinunciare a impegni o attività importanti pur di incontrare l’altro.

I pensieri, le emozioni, i comportamenti a lungo andare e nella loro perpetrazione disfunzio­nale si innestano nel vissuto della persona e ren­dono il rapporto con l’altro un circolo vizioso. Come lo stesso autore sostiene (2014, 70) la di­pendenza nei confronti della relazione, oltre ad essere ricollegata ad esperienze peculiari negli scambi con il caregiver, può esplodere in situazioni affettive apparentemente normali ed equilibrate. In questo senso il narcisista, tramite i suoi meccanismi manipolativi, induce la dipendenza nell’altro, gli fa credere di essere indispensabile. La dipendenza della persona può essere coltivata in molti modi: spingerlo verso obiettivi che non può raggiungere da solo, persuaderlo di non disporre di risorse adeguate o convincerlo di non avere alternative (Lingiardi, 2014, 421).

LE CONSEGUENZE…

La relazione con un narcisista può portare a con­seguenze devastanti che non si limitano al solo ed unico annichilimento della persona ma si riper­cuotono su altri molteplici aspetti. Uno fra questi, senza dubbio è la possibilità di ribellarsi (Ponzio, 2004, 76). La vittima sembra cercare un compro­messo all’interno del legame, con l’aspettativa di mantenere un certo equilibrio relazionale. Tutta­via, l’evitamento di un’esplosione, di un confron­to, di una decisione, della realtà circa la natura del rapporto e dei propri pensieri porta, ineluttabil­mente, all’implosione, alla somatizzazione dei propri contenuti mentali ed emotivi. Tutto ciò ha delle conseguenze sia a breve termine che a lungo termine.

a breve termine

Durante il rapporto e la fase di condizionamento molteplici sono i segnali che indicano il deteriora­mento psico-fisico della vittima. In primis vi è lo stato di confusione: la vittima si sente vuota, av­verte il suo impoverimento, le ingiustizie del part­ner alle quali non riesce a dare un senso, non comprende a pieno la presenza o meno di proprie responsabilità (Hirigoyen, 2000, 164). Come ha rilevato Amati – Saas (1992, 329-330) in uno studio condotto su vittime di esperienze traumatiche, la confusione, l’ambiguità sono strumenti per sopravvivere, un modo per non definire la situazione ed eludere il conflitto interiore. L’incapacità di trovare nell’altro delle risposte concrete porta la persona a ricercare dentro sé delle risposte, dei gesti o dei comportamenti sbagliati che possano rappresentare il motivo dei comportanti del proprio partner, innescando, in alcuni casi, colpevolizzazioni.

Campbell, nell’analisi delle conseguenze fisiche della violenza di qualunque tipo, evidenzia (2002, 1333-1334) una serie di sintomatologie, quali per esempio:

  • diarrea, stitichezza, nausea, sindrome del colon irritabile;

  • mancanza di appetito, vomito auto-indotto, bulimia;

  • dolori addominali, ulcere;

  • rapporti dolorosi, mancanza di desiderio sessuale;

  • cefalee, emicranie;

  • svenimenti, convulsioni;

  • mal di schiena, dolori cronici alle spalle, al collo;

  • influenza e raffreddori;

  • ipertensione.

Insomma il corpo riflette quello che sen­tiamo e viviamo.

Un altro aspetto che viene a sommarsi a tutto ciò è l’ansia, in quanto la vittima è in perenne stato di allerta, spia i gesti e lo sguardo dell’altro, vive nel timore di eventuali sue reazioni nel caso non ri­spondesse alle sue richieste (Hirigoyen, 2000, 168).

Ponzio inoltre sottolinea (2004, 87) come le ri­chieste di aiuto delle vittime nei confronti di pa­renti o amici siano sottovalutate e affrancate a semplici litigi coniugali che possono essere risa­nate in quanto normalizzate e relative alla quoti­dianità di coppia. Questo aspetto rappresenta un tassello aggiuntivo verso la propria emargina­zione psichica.

a lungo termine

Tra i retroscena e gli esiti a lungo termine del maltrattamento vi è il trauma prolungato.

Nel DSM-5 nella descrizione delle caratteristiche del DSPT, si fa riferimento (2014, 318) ad eventi traumatici estremi quali disastri naturali, aggres­sioni fisiche, malattie, torture e così via, ma, allo stesso modo, viene evidenziato il fatto che l’entità del disturbo risulta particolarmente grave e pro­lungata quando l’evento in questione è generato e dipeso dall’uomo, è interpersonale ed intenziona­le. A tal proposito Herman (in Williams, 2009, 269-270), facendo presente l’associazione del trauma prolungato ad uno stato di prigionia o di controllo da parte di un persecutore, evidenzia come il controllo coercitivo trovi i suoi luoghi non solo nella violenza fisica ma anche al cospet­to di una combinazione di coercizioni di diversa natura (sociale, psicologica o economica). Dun­que risulta opportuno analizzare quelle che sono alcune aree del disturbo del trauma prolungato che si riferiscono alla sintomatologia, la quale ri­sulta molto più complessa rispetto al DSPT, alla riorganizzazione del carattere delle vittime e la loro vulnerabilità a violenze ripetute (ibidem). Ri­spetto alla sintomatologia, già nella descrizione delle conseguenze a breve termine si era accenna­to a dei malesseri prettamente fisici che si riper­cuotono nella vittima che fanno pensare a delle vere e proprie somatizzazioni. Oltre a ciò vi è un’altra conseguenza sintomatica ossia la disso­ciazione, la quale è una funzione normale della mente, in quanto esclude da essa forme di soffe­renza intollerabili al fine di proteggere l’Io; ma quando si protende verso una reiterazione eccessi­va essa può portare ad una distorsione del senso di sé fino alla perdita del contatto vitale e reale, fino alla dipendenza patologica (Bromberg, 2007, IX). Attraverso la pratica della dissociazione, del­la minimizzazione, della soppressione volontaria del pensiero e a volte anche della negazione asso­luta, l’individuo impara a modificare l’insostenibi­le realtà (Williams, 2009, 272). Altra conseguenza è determinata dalle modificazioni emozionali; il trauma prolungato arreca con sé una depressione persistente, che si mescola all’apatia, al senso di impotenza e alla compromissione dei legami af­fettivi la quale rinforza il ritiro e l’isolamento (Williams, 2009, 274). Si frantuma l’integrità emotiva portando l’individuo ad un tracollo sem­pre più solitario e lontano dal contatto psichico con il mondo. Dunque la persona proietta il senso di rabbia inespresso sugli altri ed il controllo che esercita su tale stato psichico lo conduce sempre più al ritiro sociale; l’interiorizzazione della rabbia infine può scatenare un odio perverso verso se stessi ed una persistente ideazione suicidaria (ibi­dem). Non a caso la letteratura (Nazare-Aga, 2008, Hirigoyen, 2006, Filippini, 2005) riporta come alcune esperienze cliniche si siano concluse con l’atto estremo del suicidio.

Le tecniche di controllo, oltre a ledere l’autonomia dell’altro, suscitano terrore, senso di impotenza e, soprattutto, un attaccamento patologico verso il persecutore (Williams, 2009, 274-275). In tal sen­so la persona non si preoccupa di liberarsi di un legame di tale tipo, ma di trovare espedienti per accettarlo ed adattarsi.

Inoltre la distorsione della realtà circostante, la tendenza a ricercare in sé le risposte a tali situa­zioni di abuso e maltrattamento, le innumerevoli colpevolizzazioni inflitte ed auto-inflitte ledono il senso di integrità e l’immagine reale ed autentica che l’individuo ha di se stesso.

Altra potenziale conseguenza di una vittimizza­zione prolungata è la ripetizione del trauma, che si esplica nella ricerca di situazioni analoghe. Alcuni studi epidemiologici hanno dimostrato come i so­pravvissuti ad un abuso nell’infanzia hanno un ri­schio maggiore di subire violenze nell’età adulta (Williams, 2009, 279). Insomma, esperienze pre­gresse di maltrattamento e trascuratezza inducono la persona a ricercare legami, contesti e scenari che ripropongano e confermino la propria imma­gine ed il proprio copione di vita.

La presa in carico

Moltissimi autori (Beck e Freeman, 1998; Stone, 2007; Clarkin et al., 2004; Kernberg, 1987; Ron­ningstam, 2001) sono d’accordo nel considerare le personalità narcisistiche difficili da trattare e lon­tane dalla pretesa di avere una prognosi favorevo­le. D’altro canto Kohut sostiene (1980, 245-247) che tramite l’empatia si possa aspirare a risultati concreti nel trattamento di tali pazienti. . In merito a ciò un tipo di trattamento preso in considerazio­ne è quello di tipo integrato dello Schema-Thera­py.

Alla luce del concetto di mode, obiettivo principa­le del trattamento è quello di favorire il mode Adulto funzionale di tali tipologie di pazienti tra­mite il modellamento e l’esempio offerto dal tera­peuta; quest’ultimo infatti nel lavoro di accudi­mento del Bambino solo del narcisista, ha come scopo quello di renderlo più consapevole dei reali bisogni e di dissuaderlo nell’utilizzo di meccani­smi di coping di ipercompensazione e di evita­mento (Young et al., 2007, 438). Nella promozio­ne di un mode Adulto funzionale, dunque, si mira alla capacità di esso di:

  • aiutare il Bambino solo a sentirsi accudito e capito e ad occuparsi ed empa­tizzare con gli altri;

  • ostacolare il mode Presuntuoso per permettere al narcisista di rinunciare al suo eccessivo bisogno di ammirazione ma di rivolgersi agli altri tramite senso di reci­procità;

  • aiutare il mode Consolatore distac­cato a rinunciare ai comportamenti mala­dattivi di evitamento e a sostituirli con la capacità di provare sentimenti autentici (Young et al., 2007, 438).

Insomma è evidente il ruolo attivo e centrale della relazione con il terapeuta.

Ma il Narcisismo non cela solo bisogni di cura e di accettazione incondizionata ma evidenzia an­che atteggiamenti arroganti, provocatori e scredi­tanti nei confronti dell’altro.

Quando ciò succede un aspetto utile è l’afferma­zione assertiva, da parte del terapeuta, dei propri diritti tutte le volte che sembra che essi siano vio­lati dal paziente. Alcune linee guida rispetto a tale assunto sono:

  1. il terapeuta empatizza con la prospettiva del paziente su alcune condotte egoiste considerate da esso normali e ne contrasta, con il dovuto tatto, l’atteggiamento preten­zioso, sottolineandone gli effetti negativi;

  1. il terapeuta non si difende dalle critiche del paziente né lo attacca a sua volta in quanto, facendo ciò si rischia di stare al suo gioco e di dare il controllo della sedu­ta al narcisista;

  2. il terapeuta afferma i propri diritti senza essere punitivo;

  3. il terapeuta non cede alle pressioni del pa­ziente;

  4. il terapeuta spiega al paziente che la rela­zione terapeutica deve essere paritaria e che deve basarsi sul principio di reciproci­tà e non uno spazio di competizione e pre­dominio;

  5. il terapeuta individua e sottolinea ogni se­gnale di vulnerabilità del bambino solo af­finché il paziente si concentri su di esso;

  6. il terapeuta sminuisce l’episodio in se stes­so ed incoraggia il paziente ad analizzare le ragioni che si nascondono dietro le sue affermazioni sfrontate, presuntuose e sva­lutanti,

  7. il terapeuta identifica gli aspetti tipici del disturbo portandoli all’attenzione del clien­te;

  8. il terapeuta trova il nome più adatto a rap­presentare i mode Presuntuoso e Consola­tore distaccato del singolo paziente per renderlo più consapevole di se stesso (Young et al., 2007, 444-446).

Nel passo terapeutico dell’introduzione del con­cetto di Bambino solo al paziente narcisista, il te­rapeuta deve adoperare procedure immaginative per analizzare le origini infantili dei mode (Young et al., 2007, 447-450).

Tale passaggio può facilitare ulteriormente il nar­cisista a comprendere se stesso, le origini trauma­tiche dell’isolamento ed evitamento psichico che adotta nelle relazioni, nel tentativo di abbandona­re i propri schemi.

Una tecnica orientata al cambiamento è il Mode work, ossia, un lavoro fatto di dialoghi tra i vari mode individuati nelle precedenti fasi di com­prensione in modo tale da poter avviare anche la funzione di educare la persona ad organizzare mode più validi; qui prende spazio e voce il ruolo dell’Adulto funzionale il quale oltre a gestire la comunicazione tra i diversi mode, deve riuscire a sostituirsi a quei mode che proteggono il Bambi­no solo (il Presuntuoso, il Consolatore distaccato) al fine di aiutare quest’ultimo a cogliere i suoi bi­sogni emotivi.

(Young et al., 2007, 453-458). Questo spinge ulte­riormente il paziente ad una responsabilizzazione del proprio vissuto. Ed è proprio tramite tale gra­duale processo che si concretizza una tecnica ag­giuntiva che si propone di mettere in contatto il Bambino con le persone significative. Il terapeuta in tal caso, invita il paziente a far emergere il Bambino che è in lui nei rapporti con gli altri si­gnificativi per la propria vita in modo tale che rie­sca a dare e ricevere amore (Young et al., 2007, 460-461). Tutto ciò innesca anche il pensiero che, richiedere amore, saperlo anche custodire per gli altri, è un aspetto fondamentale per la propria esi­stenza e fa parte di quell’intimità, quell’autenticità interiore e condivisa cui si allude nella costruzio­ne del rapporto terapeutico. Il narcisista deve ab­battere le sue convinzioni radicate di essere auto-sufficiente e provvisto di quei riconoscimenti di­sfunzionali che lo hanno portato, con il tempo, a ritirarsi nella prigionia del suo narcisismo.

LIMITI E DIFFICOLTA’

Come accennato prima, il trattamento del disturbo narcisistico di personalità presenta i suoi nodi cru­ciali e le sue non poche difficoltà. I pazienti narci­sisti sono tra quelli più propensi ad abbandonare il trattamento, soprattutto dopo le prime sedute, al­l’interno delle quali emergono i punti cruciali e le problematiche derivate dalle sue modalità relazio­nali. . Altra questione su cui è bene riflettere sta nella manipolazione e nelle tendenze del narcisi­sta a pervertire, tutti aspetti che possono abbatter­si brutalmente nella relazione terapeutica. Ma fon­damentalmente se quest’ultima pone le basi per un rapporto autentico e se verte verso quell’intimità psichica cui si è accennato in precedenza, il narci­sista comprenderà e farà esperienza di dimensioni emotive mai padroneggiate oppure negate nei pro­pri processi di deprivazione.

La presa in carico della vittima

Una massima riportata dagli autori Morelli e Cou­derc dice (2014, 142) che “non si ruba una cassa vuota”; e il perverso narcisista ha scelto proprio quella persona perché essa non è vuota ma, anzi ricca di risorse. Viste le diverse sfaccettature circa le caratteristiche della vittima, si indicheranno sia alcuni aspetti della terapia con personalità dipen­denti sia degli strumenti e delle strategie che pos­sono risultare utili nel dissenso dei meccanismi perversi e manipolativi. In linea generale, però lo psicologo deve porre anche significativa attenzio­ne alle condizioni della domanda e della presa in carico della vittima. Infatti quando una vittima di maltrattamento chiede spontaneamente un intervento e, allo stesso tempo, dichiara di non essersi ancora separata dal partner, che non è sicura, che ci sa riflettendo, risulta opportuno ipotizzare un elemento manipolatorio nella domanda, ossia un tentativo di ricercare nel contratto terapeutico una giustificazione al suo permanere nella relazione (Velotti, 2012, 199-200).

Per il dipendente affettivo nei rapporti conflittuali, la presenza del partner costituisce una difesa illu­soria contro la sofferenza; la richiesta di un sup­porto psicologico avviene quando la loro relazio­ne volge al termine portando con sé un profondo stato di disperazione e l’idea che un aiuto terapeu­tico possa aiutarli a riconquistare il partner perdu­to (Sophia et al., 2007, 59-60).

Compito del clinico, dunque, è quello di incorag­giare il funzionamento ed il senso di agency del soggetto dipendente, evitando di colludere con le sue richieste implicite e non di subordinazione.

Secci, sulla base della propria esperienza clinica e del proprio approccio basato sulla terapia breve focale evidenzia (2014, 91-92) quelle che sono delle aree-obiettivo verso le quali orientare le fi­nalità a breve e medio termine della psicoterapia, da lui stesso indicate come le “grandi sette A”. Esse sono:

  • Autonomia: implica l’acquisizione del de­cision making rispetto a quelli che sono i propri bisogni affettivi e di maturare un senso di autonomia ed integrità rispetto alle scelte ed orientamenti altrui;

  • Autostima che si tramuta nella riconquista di un proprio valore nell’integrazione di aspetti piacevoli o no di se stessi tramite auto-accettazione;

  • Auto-realizzazione che possa spingere l’in­dividuo ad utilizzare le proprie risorse per perseguire mete e obiettivi personali;

  • Auto-consapevolezza ossia la capacità di individuare e riconoscere il proprio fun­zionamento emotivo, cognitivo e relazio­nale ed essere consapevole delle conse­guenze delle proprie condotte;

  • Assertività: utilizzare strumenti comunica­tivi costruttivi ed efficaci;

  • Apertura ossia confrontarsi autenticamente con gli altri;

  • Affettività ossia cogliere il ponte tra passa­to e presente del significato delle relazioni importanti per l’individuo, il quale spesso soggiace degli schemi relazionali disfun­zionali.

Alcuni autori (Sophia, 2007; Lingiardi, 2014; Norwood, 2007, Sperry, 2000) sono d’accordo nel sostenere l’efficacia delle terapie di gruppo nel trattamento di tali tipologie di personalità.

Rispetto a ciò, infatti, gli elementi indicati come considerevolmente terapeutici in una terapia di gruppo sono ( Yalom, 2009, 25-40):

  • la speranza;

  • l’universalità;

  • l’informazione;

  • l’altruismo;

  • ricapitolazione correttiva del gruppo pri­mario familiare;

  • forme di socializzazione;

  • comportamenti imitativi.

Il sostegno percepito dagli altri porta la persona a fare esperienza di un riconoscimento, della possi­bilità di auto-determinarsi nelle scelte di vita e nei cambiamenti.

Visto nello specifico gli interventi orientati alla dipendenza affettiva, è importante affrontare alcu­ni punti inerenti ad una eventuale terapia rivolta, più in senso generale, alle vittime di perversi nar­cisisti. . La presa in carico di chi ha subito la dina­mica perversa ci spinge a ridimensionare le nostre conoscenze e metodi di riferimento nel bisogno di accostarci ad esso, senza assumere una posizione di potere (Hirigoyen, 2000, 201).

Definire la perversione risolleva la persona dal­l’ambiguità in cui è inevitabilmente caduta nel rapporto disfunzionale, dà un volto a quel legame confuso, indefinito, privo di confini; tuttavia ciò non deve implicare lo spostamento delle rispettive responsabilità sul partner perverso. Un ulteriore passo fondamentale nella terapia è capire come venire fuori dalla situazione violenza e maltratta­mento. Il rinforzo delle parti psichiche intatte, l’at­tenzione centrale che si pone sulla sua sofferenza, consente alla vittima di trovare quel senso di fidu­cia perduto e respingere ciò che più viene vissuto in modo angoscioso (Hirigoyen, 2000, 203).

Come già affrontato prima il perverso mette in dubbio le riflessioni e l’obiettività della persona nella distorsione della realtà concreta; dunque un aspetto centrale nel lavoro con la vittima è de­strutturare quel condizionamento subìto che si manifesta tramite il senso di colpa. Liberarsi del senso di colpa consente di rimpossessarsi del pro­prio vissuto e solo quando esso sarà respinto, quando si sarà fatta esperienza di libertà, si potrà ritornare alla propria storia personale e compren­dere il percorso che ha condotto fino alla propria distruzione (Hirigoyen, 2000, 204). Come già ac­cennato prima, il perverso si nutre del narcisismo dell’altra persona, la quale, al culmine della rela­zione, ne esce devastata, afflitta dal senso di vuoto. E’ necessario, dunque, ripristinare la sua autonomia ed autostima facendo luce e rinforzan­do le sue risorse.

Nel percorso terapeutico, in seguito al lavoro sulla propria situazione di maltrattamento, è importante cogliere la propria storia individuale, per com­prendere vissuti e meccanismi che hanno portato la persona a cadere in una relazione perversa. Si affrontano, dunque, i nodi critici della propria bio­grafia che hanno reso la persona vulnerabile nel­l’individuazione di quella crepa in cui l’altro si è preso il suo spazio (Hirigoyen, 2006, 185). Un ri­schio che si può correre nella presa di contatto con la propria situazione è lo spostamento del senso di colpa verso la propria relazione al senso di colpa verso se stessi (Ponzio, 2004, 47). In tal senso la persona si accusa per aver permesso a qualcun altro di violare la propria ricchezza inte­riore. Guarire significa riallacciare le proprie parti sparse, riconoscere la sofferenza come una parte di sé degna di stima, guardare in faccia la propria ferita e sulla base di ciò costruire il proprio avve­nire (Hirigoyen, 2000, 207). E’ importante, dun­que, accettare ogni vissuto che investe le proprie esperienze, maturare un’intelligenza emotiva che permetta di gestirle in modo adeguato.

L’uso delle parole, di peculiari meccanismi comu­nicativi da parte di un narcisista, ha le sue gravose conseguenze sull’altro; risulta opportuno, dunque, indicare e far presente alcune strategie comunica­tive che possono rivelarsi utili per la gestione di questi scontri verbali. L’obiettivo di tale delucida­zione, oltre all’indicare le possibilità di respingere la manipolazione, sta nell’offrire degli strumenti a coloro che decidono di permanere in una situazio­ne di tal genere.

Alla luce di ciò è bene indicare alcuni strumenti di difesa da quei meccanismi alla base del controllo mentale; essi sono (Rizzuto, 2014):

  • il coinvolgimento emotivo;

  • il rispetto;

  • l’empatia;

  • la gestione del tempo;

  • il controllo sulla persona;

  • il controllo sulla relazione;

  • gli obiettivi personali.

Rispetto al coinvolgimento emotivo, vi sono ulte­riori aspetti da tenere a mente. Tra questi vi sono (Rizzuto, 2014):

  • Non interiorizzare le accuse immotivate così come i complimenti eccessivi o gra­tuiti;

  • adoperare il principio di simpatia nella ri­cerca di sostegno in chi ha vissuto la stes­sa esperienza ma anche nell’indicare cos’è che ci interessa dell’altra persona;

  • mostrare prudenza quando l’altro si propo­ne e si descrive come vittima (offre l’im­pressione di avere potere o il senso di col­pa);

  • identificare il principio dell’amicizia ossia paura di rompere il rapporto o di dare di­spiacere (se l’altro è vero capirà le nostre ragioni).

Altro elemento chiave è il rispetto ossia il credere nel valore e nelle capacità sia proprie che dell’al­tro; esso, dunque, implica:

la verifica di quanto il manipolatore ci consideri validi ed indipendenti da un punto di vi­sta affettivo;

riconoscere capacità ed azioni del manipo­latore;

rispetto per sé stessi e di propri bisogni/di­ritti;

comprendere quando l’altro utilizza il lo­cus of control esterno conferendo al di fuori gli aspetti negativi (ibidem).

Un altro punto fondamentale è l’empatia. Essa consiste nella comprensione del contenuto e dei sentimenti espressi nel messaggio dell’altro e im­plica:

l’individuazione del manipolatore;

l’utilizzo dello strumento del sorriso in quanto la gentilezza può abbassare le difese del­l’altro o può destabilizzarlo in quanto non è questa la reazione che si aspetta;

liberarsi dal senso di pietà che maschera la paura, in quanto non riconoscendo i sentimenti dell’altro si prova ciò che si spera che l’altro provi nei nostri confronti.

Per quanto riguarda la gestione del tempo, essa consiste nel:

– darsi tempo per riflettere sulle richieste; nel caso l’altro mostri fretta:

– cogliere la natura di tale urgenza

– frenare i propri meccanismi decisionali a secon­da del senso di urgenza percepita (Rizzuto, 2014).

Il controllo sulla persona e sulla relazione impli­cano esplicitamente l’importanza del mantenere l’autocontrollo e la padronanza di sé e delle situa­zioni di fronte ad un manipolatore che adopera le parole per provocare, per ledere il rispetto dell’al­tro in interazione. Alcuni aspetti da considerare sono:

  • rispondere elusivamente quando le richie­ste del manipolatore diventano compulsi­ve;

  • evitare di assumere il ruolo di “salvatore” nei confronti di chi vuole esercitare il con­trollo mentale;

  • sapere che il manipolatore è tendenzial­mente una persona rigida che in ogni scambio comunicativo cerca di esercitare un controllo sull’altro;

  • di fronte alla nostra incertezza circa le rea­li intenzioni del manipolatore, è bene uti­lizzare frasi corte o frasi fatte in quanto ciò ci permetterà di esercitare un po’ il po­tere nella relazione;

  • porre chiarezza sul contesto comunicativo;

  • assumere controllo nella relazione facendo domande insistenti che solitamente stanca­no ed in seguito ad esse non offrire rispo­ste ma prendersi del tempo per i propri dubbi;

  • evitare di raccontare dettagli della propria vita se prima non si è considerati adegua­tamente contesto e uditorio coinvolti nella comunicazione;

  • porre al centro della propria attenzione gli scambi comunicativi e la relazione per co­gliere eventuali aspetti persuasivi;

  • in caso di transazioni con un manipolatore fare appello a possibili testimoni;

  • non rispondere alle domande che non sono elaborate in modo chiaro;

  • imparare a rifiutare con cautela in quanto le condizioni del rifiuto possono essere utilizzate dall’altro a proprio vantaggio;

  • farsi porre per iscritto le richieste, ove pos­sibile;

  • nelle situazioni in cui non è chiara l’auto­nomia affettiva, evitare di fare da interme­diari.

Ultimo aspetto ma non per questo meno rilevante è quello relativo agli obiettivi personali. Dunque bisogna (Rizzuto, 2014):

  • tenere presente che temere il giudizio del­l’altro solo perché non si risponde alle sue richieste sostituisce gli obiettivi personali con altri obiettivi esterni;

  • impostare il processo comunicativo sulla discussione in situazioni confuse e ambi­gue in quanto ciò destabilizza il manipola­tore;

  • avere sempre presente i propri obiettivi, interessi e bisogni in quanto se tutto ciò è chiaro ed implica il benessere della perso­na, funge da rinforzo per gli altri strumenti di difesa.

Dare voce ai propri obiettivi e propri bisogni ci aiuta non solo a rispettarci ma a porre le basi per richiedere ed aspettarsi dagli altri di essere ricono­sciuti nell’adempimento della propria umanità.

La terapia di coppia

Nonostante molti autori (Nazare-Aga, 2008; Sper­ry, 2000; Hirigoyen, 2006) indichino la difficoltà ed una possibile inefficacia della terapia di coppia in quei legami che hanno come sfondo la violenza ed il maltrattamento, vi sono tuttavia dei suggeri­menti e delle indicazioni terapeutiche circa il trat­tamento di quelle relazioni in cui abbiamo una configurazione narcisistica. In linea generale una problematica legata a tale considerazione sta nella difficoltà che il narcisista possiede nel riconosci­mento dei propri limiti. Inoltre solitamente è sem­pre l’altro partner a spingere il narcisista ad intra­prendere una terapia. Altro limite di tale tipologia di terapia sta nel fatto che quella di coppia preclu­de la divisione delle reciproche responsabilità di fronte ad una relazione disfunzionale e complessa, meccanismo e condizione che può ulteriormente gettare la vittima in un percorso di colpevolizzazione (Hirigoyen, 2006, 186).

Tuttavia è bene considerare e valutare un inter­vento di questo tipo nel momento in cui il presun­to narcisista si trovi d’accordo nell’intraprendere un percorso terapeutico. La terapia risulta profi­cua, infatti solo se i due partner hanno il desiderio comune di ricostruire insieme la loro felicità (Na­zare-Aga, 2008, 131). Alla luce della configura­zione e il grado di patologia individuale, la com­binazione tra trattamento congiunto e quello indi­viduale, lì dove sia possibile, costituisce la solu­zione migliore (Solomon, 2001, 221). Detto ciò, gli obiettivi terapeutici includono (ibidem):

  1. aiutare i partner a comprendere i reciproci bisogni arcaici di dipendenza;

  2. trovare delle strategie per riassetta­re quelle ferite che entrambi si impongono per di­fendere le proprie aree di vulnerabilità;

  3. risanare le strutture danneggiate del Sé tra­mite una relazione riparativa.

La traduzione delle difese narcisistiche

Ognuno presenta una diversa “narrazione” che contiene in sé il volto del passato e del presente della relazione (Spence, 1987, 85-87). L’attribu­zione della colpa al partner e il tentativo di trovare un alleato nel terapeuta sono fenomeni tipici in tale trattamento; per questo, compito del terapeuta è porre attenzione al pattern delle interazioni e scambi tra i partner ed esso, identificare chi inizia, chi segue, come si reagisce alle emozioni negative (rabbia, tristezza, paura) ma anche a quelle positi­ve (Solomon, 2001, 234-235).

A fronte di ciò è importante osservare e cogliere le modalità interattive dei partner quando emergo­no emozioni negative, per poter comprendere come le relazioni passate vengano poi tradotte nella loro relazione e in quella con il terapeuta. E’chiaro come tale tipo di lavoro terapeutico non sia finalizzato all’analisi dei trascorsi e dei vissuti arcaici, ma si propone di cogliere gli aspetti pas­sati non tradotti che si sono gettati nel rapporto con l’altro e che conducono sempre più ad un iso­lamento psichico.

Il terapeuta, dunque, nell’assistere al processo di comprensione dei rispettivi sentimenti, traduce i contenuti delle interazioni per riflettere i bisogni e le emozioni sottostanti (Solomon, 1985, 145).

Dalla decodifica terapeutica alla comunicazione diretta tra i partner

Come già detto precedentemente, all’inizio si ri­cerca nel terapeuta un alleato per mettere in di­scussione l’altro. È di fondamentale importanza, quindi, mantenere e tutelare il contatto con ognu­no dei partner, rimanendo coerentemente empatici con entrambi in quanto qualunque prova o segno di preferenza nei confronti di uno dei due, verrà vissuto dall’altro come una forma di tradimento (ibidem). L’importanza dell’imparzialità nello sta­bilire una relazione di fiducia ed empatica è una prerogativa centrale nel rifiuto di qualunque tenta­tivo collusivo da parte di entrambi di trovare con­ferme ed agganci alle loro modalità relazionali di­sfunzionali. Inizialmente la terapia si svolge tra­mite la mediazione del terapeuta nel processo co­municativo che avviene tra entrambi al fine di ri­durre gli attacchi distruttivi; allo stesso tempo of­fre un esempio e modello di sintonizzazione em­patica con la quale comprendere ed accogliere i reciproci bisogni e paure nonché nuovi modi di proteggersi in situazioni di particolare stress (Solomon, 2001, 237-238). Nella centralità del modellamento del terapeuta come elemento formativo educativo per l’utente, la terapia diventa quello spazio entro cui offrire all’altro esperienze più costruttive, di condivisione, di comprensione reciproca, in cui si mostrano la pluralità delle alternative interpersonali sulle quali nutrire i propri legami significativi. I partner sono educati alla comunicazione chiara, intima e rispettosa, una comunicazione in grado di portare alla luce reciproche esigenze ma anche le rispettive necessità di condivisione, di partecipazione e di comunione emotiva ed affettiva.

Rinforzare la trasformazione

Il proporre nuovi modelli personali e relazionali svincolati dalla rigidità dei propri schemi mentali indirizzano la persona verso traiettorie più sane e funzionali. Le pretese e le richieste narcisistiche possono tramutarsi in normale assertività, la timi­dezza ed il ritiro, che si precostituiscono come strumenti per preservarsi dalle fantasie grandiose infantili, possono essere sostituite dal desiderio di nutrire elevate aspirazioni ed ideali, oppure da una equilibrata accettazione di una grandiosità sana (ibidem). L’elaborazione dei propri limiti, delle proprie esperienze, del proprio “lutto” esi­stenziale richiamano inevitabilmente l’accettazio­ne. Essa conduce, dunque, al cambiamento in quanto conferisce ad entrambi i partner nuovi oc­chi con cui guardare se stessi e la relazione. In quest’ottica le stesse problematicità riportate da entrambi rappresentano paradossalmente l’oppor­tunità per cogliere quelle aree di vulnerabilità in­dividuali che entrano nella dimensione di coppia e che si configurano in modo reattivo di fronte agli epiteti narcisistici; tutto ciò è alla luce dell’obiettivo di ridimensionare il vissuto delle emozioni, contenerle, approfondirle piuttosto che agirle o difendersi da esse (ibidem). Scopo del trattamento è proprio quello di poter dare un nome ed identità a quelle emozioni che sottostanno le nostre azioni, che contornano i nostri affetti e che spesso celano e seppelliscono altre emozioni, più autentiche e più complesse da accettare e da esprimere. Dunque la terapia di successo è quella che si configura come una “esperienza riparativa interpersonale” in cui si offre all’altro un sostegno di risonanza empatica, un supporto che è stata carente nelle precedenti relazioni e scenari di vita; quando vi è un dare e ricevere, il ciclo delle ferite e fantasie narcisistiche, le convinzioni legate alle pretese innumerevoli può essere interrotto (Solomon, 2001, 240).

Le forme della prevenzione

Il protrarsi di situazioni frustranti, di scelte mala­dattive, di legami sofferti si configurano, nella prospettiva evolutiva dell’esistenza, come il risul­tato di rotture interne ed esterne avvenute durante la propria crescita.

La prevenzione preclude la promozione del be­nessere individuale ed interpersonale tramite l’e­ducazione della persona a rispettare se stesso e gli altri.

Possibili interventi

Alla luce di un intervento terapeutico che vada a prevenire il protrarsi di relazioni disfunzionali e meccanismi perversi la riflessione si pone sul rin­forzo e sul lavoro sulle proprie risorse. Un possi­bile programma che orienta all’acquisizione di alcune abilità può essere quello della promozione delle abilità sociali di Becciu e Colasanti. Per abilità sociali si intende quei comportamenti situazionali specifici, di carattere verbale e non, che ognuno di noi manifesta nel proprio contesto interpersonale e che rappresentano quel pre­requisito per un’adeguata competenza sociale, la quale implica abilità cognitive, emozionali e com­portamentali (Becciu, Colasanti, 2000, 2-4).

Dunque l’acquisizione di tali strumenti assume una valenza sia da un punto di vista personale che relazionale; infatti sempre che l’incompetenza so­ciale sia correlato a molteplici comportamenti ma­ladattivi. Alla luce dell’analisi della violenza fami­liare, Bagnara propone (1999, 89) alcuni suggeri­menti di natura preventiva circa le forme di mal­trattamento; essi sono:

  • costituire un comitato etico composto da esperti (psichiatri, psicologi, sociologi) e giornalisti che siano in grado di fornire in­formazioni corrette ai mass-media circa tali fenomeni al fine di sfruttare l’impatto sociale dell’informazione;

  • avvio di campagne pubblicitarie per incre­mentare l’informazione;

  • potenziare centri di consulenza convenzio­nati ed intervento precoce per favorire il libero accesso a quelle risorse che mettono tali realtà in condizioni di poter operare ef­ficacemente.

Ampliando il focus sui vari tipi di violenza, sareb­be più corretto e più funzionale, oltre che favorire un intervento di questo tipo, affiancare anche una preparazione ed una formazione all’affettività, un’educazione rivolta non solo agli adulti, ma an­che agli stessi giovani e bambini. Come abbiamo già precedentemente accennato, la violenza ed il maltrattamento hanno probabilità di trovare radici in esperienze traumatiche e di deprivazione già nell’infanzia, lacune che vengono riproposte nell’età adulta. A fronte di ciò è importante proporre degli interventi che possano spezzare la continuità della violenza e favorire rapporti autentici. Interessante è il manuale proposto da Ellerani e Pavan (2006) in cui vengono date importanti indicazioni ad operatori ed educatori scolastici per la progettazione di training di apprendimento ai ragazzi circa alcune competenze personali e sociali. Alcuni di essi sono orientati, per esempio alla comprensione dell’identità di genere e all’alfabetizzazione emozionale: la prima si orienta verso la scoperta dell’iter culturale e storico nel rapporto uomo/donna e della definizione delle pari opportunità e quindi dell’importanza e valore di un rapporto paritetico e rispettoso; la seconda, invece, orienta all’importanza dell’esplicitare e comprendere i propri dialoghi interni, saperli orientare ed essere al timone della propria vita (Ellerani, Pavan, 2006, 167-184). Questi due aspetti conferiscono la possibilità di educare i ragazzi di oggi alla scoperta del significato intrinseco di se stessi e dei rapporti umani, dei valori, della definizione di ciò che è umano e ciò che non lo è. In una società dove i ruoli di genere stanno diventando sempre più vacui e confusi, in cui i reciproci compiti stanno venendo meno e si mescolano nella poliedricità delle situazioni e della quotidianità, è necessario che un principio sia sempre valido e fatto proprio: il rispetto dell’umana dignità. Il lavoro di prevenzione e di educazione non trova slancio solo nei contesti scolastici ma anche nel micro-sistema familiare. A tal proposito Martorelli, alla luce di una prevenzione primaria contro gli abusi nell’infanzia e nell’adolescenza, sottolinea l’importanza della preparazione della coppia al ruolo genitoriale, alle sfide che questo compito arreca con sé nel dialogo continuo tra figli e genitori (107, 1997). Dunque è chiaro come il lavoro preventivo tenda a coinvolgere più realtà e, soprattutto interessi molteplici tappe evolutive della persona che vanno dall’infanzia al mondo adulto.

Il Decreto italiano contro la violenza di genere

Per quanto il maltrattamento in questione abbia delle manifestazioni peculiari rispetto allo stal­king o alla violenza fisica, è importante fare luce sui provvedimenti del territorio italiano contro qualsiasi forma di violenza.

In seguito alla Convenzione del Consiglio d’Euro­pa tenutosi a Istanbul nel 2011 per la prevenzione nei confronti della violenza sulle donne e della violenza domestica, in Italia è stato adottato Il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (articolo 5 del decreto legge n. 93 del 14 agosto 2103, convertito nella legge n. 119/2013) con Decreto del Presidente del Consi­glio dei Ministri del 7 luglio 2015.

Il quadro normativo entro cui si muove il Piano ha l’obiettivo di stabilire le azioni a favore delle donne vittime di violenza maschile, secondo un approccio olistico e multilivello, al fine di supera­re la logica emergenziale che ancora connota la gestione del fenomeno (DIP. PARI OPPORTUNI­TA’, 5, 2015).

Le azioni specifiche proposte da tale Piano sono volte a:

  • prevenire il fenomeno della violenza sulle donne tramite gli strumenti primari del­l’informazione e sensibilizzazione della collettività;

  • promuovere nell’ambito scolastico l’edu­cazione alle diversità;

  • potenziare le forme di assistenza e soste­gno alle donne e ai loro figli;

  • garantire un’adeguata formazione per tutte le figure professionali coinvolte con la violenza di genere;

  • accrescere la protezione delle vittime tra­mite una forte collaborazione tra istituzio­ni ed associazioni;

  • prevedere un’adeguata raccolta dei dati del fenomeno;

  • prevedere specifiche azioni che valorizzi­no le competenze delle amministrazioni impegnate nella prevenzione, nel contrasto e sostegno delle vittime della violenza di genere;

  • definire un sistema strutturato di gover­nance tra tutti i livelli di governo (DIP. PARI OPPORTUNITA’, 6-7, 2015).

Secondo i dati del Ministero degli Interni i maltrattamenti familiari e le forme di violenza sessuale dal 2013/14 al 2015 sono diminuiti rispettivamente del 22, 31% e del 14, 79% (www.interno.gov.it).

Dunque ciò può essere considerato un dato si­gnificativo alla strenua di un graduale proces­so di consapevolezza, in cui il disagio legato ai maltrattamenti, agli abusi e violenze si fa sempre più percepibile all’interno di una so­cietà che cambia rapidamente e che si ridefini­sce continuamente, sottolineando l’urgenza di definire anche altre forme di violenza meno manifeste come quelle affettive e psicologi­che.

A riflessione e conclusione delle questioni analiz­zate è importante spostare il focus dal singolo alla civiltà. Nella società moderna è sempre più radi­cato quel “narcisismo culturale” all’interno del quale si incoraggia e si orienta le persone ad esse­re sempre più concentrate su se stesse nell’affievo­limento progressivo dei legami con la comunità (Lasch, 1988, 209-210). Il successo, l’auto-realiz­zazione e i desideri di affermazione spingono ver­so la costruzione di una società sempre più sola nella pluralità di scambi e di mezzi di comunica­zione. La modernità produce immagini del Sé fra­gili che si associano alla paura nei confronti dei rapporti duraturi e dell’impegno (Paris, 2013, 110). Si assiste ad una estremizzazione dello spa­zio privato winnicottiano che eclissa la valenza della relazione e valorizza bisogni emotivi ed af­fettivi sempre più auto-referenziati ed auto-centra­ti. Ciò che sembra accomunare il perverso narcisi­sta e la vittima è la capacità di amarsi. La capacità di amarsi coinvolge inevitabilmente la capacità di amare in quanto la strada per vivere e ricercare il proprio valore esistenziale non è un percorso soli­tario ma condiviso, in quanto, come afferma Paris (2013, 113) nessuno è un’isola. Nelle problemati­cità legate al pensiero dicotomico, valorizzare l’altro in relazione non significa perdere la propria autonomia, così come apprezzare se stessi non ri­chiede l’isolamento.

La manipolazione affettiva del perverso genera nell’altro la convinzione di non poter fare a meno di tale rapporto, di essere inutile senza di esso, privo di valore, rendendo sempre più labili il si­gnificato intrinseco dell’amore. Riconoscersi come persona degna di stima, affetto e amorevo­lezza è il primo passo verso il perseguimento di un amore libero, rispettoso ed autentico, che non completa ma arricchisce.

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La Psicologia Positiva Cristina Bianchi

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La Psicologia Positiva (PP) è un approccio che si sviluppa a partire dal 2000 (Seligman, Csikszetmihalyi, 2000) e si inserisce all’interno di un panorama psicologico dominato dall’interesse per lo studio del disagio e dei problemi mentali, allo scopo di invitare i professionisti della salute mentale a porre maggiore attenzione al benessere e alla felicità delle persone (Dambrun, Dubuy, 2014). Il suo principale intento è quello di rivendicare il ruolo che le emozioni positive (felicità, gratitudine, realizzazione), i tratti positivi (ottimismo, resilienza, i punti di forza del carattere) e le istituzioni positive hanno nel rafforzare il benessere dell’individuo e della comunità, senza ignorare gli aspetti angoscianti della vita (Kobau et al., 2011). Tale spostamento di focus dalla patologia al funzionamento ottimale, è stato favorito da una nuova visione del concetto di salute: la salute non è più considerata come assenza di malattia, e questo rende necessario comprendere e promuovere tutti i fattori che permettono ai singoli individui, alle comunità e alle società di prosperare (ibidem).

Infatti, la PP, aderisce al paradigma biopsicosociale che considera la persona come il frutto dell’integrazione reciproca tra tre diverse componenti: biologica, psicologica e sociale (Engel, 1977). In particolar modo, a differenza del precedente modello biomedico, evidenzia l’impatto che le componenti psichiche e sociali esercitano nello stato di salute e rivendica il ruolo attivo dell’individuo nel determinare la propria condizione (Delle Fave, Bassi, 2007).

Le attività realizzate dalla PP si sono sviluppate a partire da due prospettive. La prima, definita edonica, caratterizzata da studi volti prevalentemente ad analizzare la dimensione del piacere, inteso come benessere prettamente personale e legato a sensazioni ed emozioni positive (Boniwell, 2015). La seconda, detta eudaimonica (riprende il concetto aristotelico di eudaimonia), si occupa di analizzare i fattori che favoriscono lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità individuali e dell’autentica natura umana (Seligman, Peterson, Park, 2005). L’eudaimonia, spesso confusa con il concetto di felicità, rappresenta uno stato di benessere che comprende non solamente la soddisfazione individuale, ma anche un percorso di sviluppo verso l’integrazione con il mondo circostante (Zambianchi, 2015). Infatti comprende un campo semantico molto più ampio rispetto alla felicità, in quanto implica un processo di integrazione e mutua influenza tra benessere individuale e collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale (ibidem).

Lo scopo principale della PP è quello di dare basi empiriche a temi come: il benessere, il flusso (flow), i punti di forza personali, la saggezza, la creatività, la salute psicologica, e le caratteristiche dei gruppi e delle istituzioni positive (Boniwell, 2015).

A questo proposito, il fine comune di tutti gli interventi realizzati dalla PP, è permettere alle persone di “fiorire”, di esercitare al meglio le proprie potenzialità, di raggiungere la massima espressione di sé e dei propri talenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

L’articolo, è strutturato in quattro parti. La prima ha l’intento di offrire una descrizione degli avvenimenti che hanno contribuito alla nascita della PP. La seconda ha lo scopo di presentare i principi fondanti e gli elementi caratterizzanti la PP. La terza parte contiene una breve rassegna sul tema della felicità che parte dal benessere soggettivo fino a giungere al benessere psicologico e sociale. Infine, la quarta ed ultima parte, vuole chiarire lo stato attuale in cui si trova la PP e le sfide che è chiamata a superare.

Le origini della Psicologia Positiva

Sebbene la PP si sia sviluppata in tempi recenti presenta delle radici storiche molto antiche, persino riconducibili ai filosofi dell’antica Grecia (Zambianchi, 2015).

A questo proposito, non si contraddistingue per aver dato origine ad un approccio innovativo quanto, piuttosto, per aver recuperato e racchiuso attorno ad una cornice teorica, singoli temi come: il benessere, il flusso, i punti di forza personali, la saggezza, la creatività, l’ottimismo, la salute psicologica e le caratteristiche dei gruppi e delle istituzioni positive (Boniwell, 2015).

Come suggerito dallo stesso termine “positiva” nasce con il proposito di correggere lo squilibrio della psicologia verso la patologia, attraverso l’integrazione delle sue conoscenze sulle malattie mentali, con un più ampio interesse verso le emozioni positive, le potenzialità e le virtù (Seligman, 2005).

Infatti, la PP, si caratterizza per lo spostamento di focus dalla malattia alle risorse degli individui, dal dolore alla felicità, dai limiti alle opportunità (Laudadio, Mancuso, 2015). Tuttavia, se in precedenza, il principale obiettivo era quello di ridurre i sintomi, ora, diventa quello di favorire lo sviluppo dell’individuo (o del gruppo) attraverso la scoperta e il potenziamento delle sue risorse, allo scopo di promuovere la salute e la felicità (ibidem).

A questo proposito, la PP, si inserisce all’interno del paradigma biopsicosociale e adotta un modello di intervento di tipo preventivo-promozionale (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Nel seguente paragrafo sono riportati gli antecedenti storici che hanno contribuito alla nascita della PP e il paradigma teorico-applicativo al quale aderisce.

Le radici storiche

La PP non si vuole affermare come una disciplina innovativa bensì come una evoluzione delle prospettive precedenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

A questo proposito, le sue radici possono essere già identificate nei filosofi dell’antica Grecia come Aristotele, il quale sosteneva che in ogni individuo fosse presente un dàimon, uno spirito personale, capace di indirizzarlo verso la propria felicità (Boniwell, 2015).

Pertanto, molti temi trattati dalla PP sono stati ripresi da illustri psicologi che se ne sono occupati in passato. Tra i più noti troviamo, C. V. Jung (1933) con il concetto di individualismo; M. Jahoda (1958) con la nozione di salute mentale; G. Allport (1955) con l’assunto di maturità individuale (Zambianchi,2015).

Infine, in tempi più recenti, il più importante antecedente della PP viene considerata la Psicologia Umanistica. Quest’ultima, nata intorno agli anni Cinquanta e sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta, si è da sempre interessata ad approfondire temi come la crescita personale e l’identificazione del sé autentico dell’individuo. Non a caso, Carl Rogers, introdusse il concetto di “funzionamento ottimale” della persona, e Abram Maslow, mise in evidenza l’importanza dell’autorealizzazione. Ma ciò che più di tutti accomuna la PP alla Psicologia Umanistica è la nota di criticità rivolta verso gli approcci alla persona focalizzati sulla patologia. Maslow è persino considerato il primo psicologo ad aver utilizzato il termine “psicologia positiva” (Boniwell, 2015). Tuttavia, occorre precisare che, nonostante le molteplici similitudini esistenti tra i due approcci psicologici, ciò che li contraddistingue è la metodologia utilizzata: mentre la Psicologia Umanistica rivendica l’utilizzo di un metodo qualitativo capace di comprendere l’individuo nella sua complessità; la PP, si avvale dell’utilizzo di metodologie scientifiche per garantire una solida base empirica ai contenuti trattati (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

A questo proposito, così come è possibile scorgere un legame tra la PP e Psicologia Umanistica determinato dagli argomenti d’interesse, è altrettanto possibile coglierlo con la Psicologia Cognitiva per quanto concerne la metodologia e le tecniche di studio e, infine, con la Psicologia della Salute e la Psicologia di Comunità, per quanto riguarda gli ambiti d’intervento (Laudadio, Mancuso, 2015).

Da quanto detto sin ora traspare come la PP non rappresenti una vera e propria innovazione, tuttavia, è necessario riconoscere il suo grande merito: quello di offrire una visione sistemica e olistica ai diversi contenuti presenti in letteratura riguardanti tutto ciò che rende la vita migliore e soddisfacente, con il proposito di favorire il loro sviluppo (ibidem). Infatti, grazie alla PP temi come la creatività, l’ottimismo e la saggezza hanno finalmente trovato posto all’interno di una grande teoria unificatrice o altrimenti definita come un ampio e complesso quadro di riferimento (Boniwell, 2015).

Cornice storica

Per comprendere a pieno l’essenza della PP è opportuno chiarire il contesto storico in cui si inserisce. Proprio per questo, è bene precisare che la necessità di operare una distinzione tra Psicologia e Psicologia Positiva nasce nel panorama occidentale. Infatti, in altri contesti culturali, non si è mai rilevata tale esigenza proprio perché non è stata in nessun modo coltivata una visione negativa e patologica dell’uomo e della sua realtà sociale. Al contrario, la psicologia occidentale, non si è mai esplicitamente occupata di studiare le caratteristiche degli individui soddisfatti e delle comunità fiorenti (Goldwurm, Colombo, 2010).

Per comprendere meglio, è necessario andare a ritroso, più precisamente, prima della Seconda Guerra Mondiale, in cui la psicologia aveva tre obiettivi fondamentali: curare le malattie mentali, migliorare la vita delle persone normali, individuare e coltivare i talenti (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

A seguito della guerra, due importanti eventi cambiarono l’identità della psicologia: la fondazione nel 1946 della Veteran’s Administration Act, che a livello pratico era intenta ad occuparsi dei veterani emotivamente scossi; e la nascita nel 1947 del National Institute of Mental Health in cui si ritrovavano gli psicologi accademici dediti allo studio di soggetti psichicamente disturbati. Tuttavia, entrambi gli avvenimenti spinsero notevolmente gli psicologi nel realizzare studi e ricerche sulla psicopatologia, perdendo completamente di vista l’obiettivo di migliorare la vita delle persone normali e quello di individuare e coltivare i migliori talenti (Fata, 2004).

Nonostante i suoi numerosi limiti, l’attenzione verso la patologia ha permesso di apportare enormi progressi nella comprensione e trattamento dei disturbi mentali. Finalmente, infatti, si è arrivati a conoscere la cura e il trattamento di quattordici disturbi mentali in precedenza considerati intrattabili (tra cui la depressione, i disturbi di personalità, gli attacchi di ansia) (Boniwell, 2015).

In questo modo la psicologia risultava essere una vera e propria sotto-branca della medicina agli occhi della quale l’individuo appariva come un essere passivo e lo psicologo ricopriva il ruolo negativo di “vittimologo” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

In un secondo momento, il focus della psicologia si è spostato verso la valutazione e la cura della sofferenza umana. Presero avvio numerose ricerche intente ad identificare gli effetti negativi che producevano nella vita degli individui fattori ambientali come: il divorzio dei genitori, la morte, l’abuso fisico e psicologico (Seligman, 2002).

L’iniziale interesse della psicologia rispetto le grandi patologie mentali e il successivo interesse verso la sofferenza umana erano accomunati da una prospettiva di intervento psicopatologica ma, allo stesso tempo, avevano come differenza i limiti dai quali dipendevano gli studi. Se precedentemente il limite era rappresentato dalle patologie umane, successivamente, l’ambito di studio arrivò a ricoprire l’intera vita umana, basandosi sull’identificazione dei fattori capaci di limitare l’individuo nella sua libertà e nel suo sviluppo (Laudadio, Mancuso, 2015).

Secondo Seligman (2005), questa eccessiva attenzione per la patologia aveva totalmente trascurato l’idea di un individuo soddisfatto e di una possibile comunità fiorente, oltre che l’importanza di potenziare il benessere individuale e collettivo come arma vincente contro ogni forma di disagio.

Rivendica in questo modo la necessità di dare luce ad una psicologia non solamente interessata alla patologia e alla sofferenza ma soprattutto capace di comprendere al suo interno anche lo studio della forza delle virtù umane (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Questa esigenza dell’autore è nata soprattutto grazie ad una sua curiosità. Egli voleva comprendere “il perché” a seguito delle condizioni di precarietà determinate dalla Seconda Guerra Mondiale alcune persone che in precedenza erano fiduciose e di successo, diventavano sfiduciate e depresse; mentre, al contrario, molte altre, riuscivano a mantenere la loro integrità e la loro serenità. Per dare una spiegazione a tale dilemma, l’unico modo era conoscere quali erano i punti di forza di questi individui. Fu proprio questo aneddoto a far risvegliare nell’autore l’interesse verso lo studio dei punti di forza e delle virtù che hanno a che fare con il lavoro, l’educazione, l’introspezione, l’amore, la crescita, il gioco (Fata, 2004).

Nacque così la PP con l’intento di correggere lo squilibrio della psicologia verso la patologia, attraverso l’integrazione delle sue conoscenze sulle malattie mentali con un più ampio interesse sulle emozioni positive, le potenzialità e le virtù (Seligman, 2005).

Proprio per sottolineare la necessità di prendere le distanze da un’esclusiva attenzione verso aspetti negativi degli individui, Peterson e Seligman (2004) con la pubblicazione del “VIA-IS” (Values in Action Inventory of Strengths) hanno voluto dare forma ad un manuale che fosse opposto al “DSM” (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) e che si occupasse di dare voce anche agli aspetti positivi dell’uomo. Infatti, all’interno del VIA-IS è presente un elenco di 6 Virtù e 24 Punti di forza umani.

Paradigma di riferimento

Sulla base di quanto sostenuto nel paragrafo precedente è possibile collocare la PP all’interno del paradigma biopsicosociale, proprio per la volontà dei suoi fondatori di realizzare importanti cambiamenti nel panorama psicologico: ovvero passare dalla preoccupazione di curare la malattia all’individuazione delle strategie volte a garantire le migliori condizioni di vita attraverso un’ottica preventivo-promozionale (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

È importante precisare che cosa si intende per modello biomedico e per modello biopsicosociale in quanto ognuno di essi, con le proprie concettualizzazioni della salute e della malattia, hanno influenzato, in diverso modo, gli ambiti di studio e la pratica clinica (Zani, Cicognani, 2000).

Infatti, come si può evincere dalla direzione degli studi e degli interventi psicologici prima della Seconda Guerra Mondiale, la psicologia, faceva perno ad un paradigma di tipo biomedico. Quest’ultimo si lega radicalmente alla prospettiva filosofica cartesiana per quanto riguarda la presenza del dualismo mente-corpo (Zambianchi, 2015). Secondo tale impostazione, piuttosto riduzionista, la malattia è considerata come una deviazione dalla norma di variabili biologiche misurabili. Si presuppone, perciò, che per ogni malattia esista una causa biologica primaria e oggettivamente identificabile (Zani, Cicognani, 2000). In questo modo, la salute coincide con la mera assenza di malattia (Zambianchi, 2015), perdendo completamente di vista tutte le possibili influenze che i fattori comportamentali e i problemi sociopsicologici potevano avere sulla salute individuale (Zani, Cicognani, 2000).

Si tratta, pertanto, di un modello centrato sulla malattia secondo il quale la figura del medico esercita un notevole contributo nel processo di cura e il paziente viene raffigurato come il portatore passivo di un problema (Bertini, 2012).

George Libman Engel (1964), all’interno di un illustre articolo pubblicato nella rivista Science, evidenzia i limiti della concezione meccanicistica e riduzionista e sottolinea la necessità di adottare un approccio di tipo sistemico-integrato al tema della malattia e della salute (Zambianchi, 2015). Egli afferma: “Il modello biomedico non solo richiede che la malattia sia trattata come un’entità indipendente dal comportamento sociale, ma pretende anche che le deviazioni comportamentali siano spiegate sulla base di processi somatici (biochimici e neurofisiologici) disturbati. Così questo modello abbraccia sia il riduzionismo – la prospettiva filosofica, dogmatica, in base alla quale i fenomeni complessi derivano in definitiva da un singolo principio primario – sia il dualismo mente-corpo – la dottrina che separa il mentale dal somatico” (Engel, 1977, 130).

Dalle parole dell’autore emergono i numerosi limiti del modello biomedico: la presenza del dualismo mente-corpo, il riduzionismo, l’incapacità di descrivere e spiegare la complessità del concetto di salute perdendo di vista l’influenza dei fattori psicologici e ambientali, oltre che l’impossibilità di dare avvio ad un’azione preventiva non solamente incentrata alla riduzione delle malattie croniche (Zani, Cicognani, 2000).

Nonostante i numerosi limiti, occorre anche riconoscere i contributi apportati da tale modello per quanto concerne lo sviluppo di nuove metodologie di trattamento e cura di importanti disturbi mentali (Bertini, 2012).

Tuttavia, intorno agli anni Settanta del secolo scorso si rilevò il passaggio di paradigma: dal quello biomedico a quello biopsicosociale. Questo cambiamento apportò delle vere e proprie innovazioni nello studio della salute e del benessere per mezzo dell’integrazione tra i fattori di natura biologica e i fattori di origine psicologica e sociale, nel mantenimento della salute intesa come funzionamento ottimale (Zambianchi, 2015).

Il modello biopsicosociale è fondato sulla teoria generale dei sistemi, che mira a superare il vecchio dogma psiche-soma, allo scopo di giungere ad una concezione di malattia che tenga conto dell’interazione dinamica di fattori multipli. Tale modello evidenza l’importanza sia della specificità dei livelli di analisi, sia l’interdipendenza tra i livelli stessi (Bertini, 2012). Infatti, le tre dimensioni del modello – biologica, psicologica e sociale – contribuiscono singolarmente alla salute dell’individuo e, contemporaneamente, si integrano e si influenzano a vicenda (Delle Fave, Bassi, 2007). Tutto ciò richiede la necessità di integrazione/interazione tra i diversi livelli di analisi (interdisciplinarità) e tra i ruoli professionali diversi (Zani, Cicognani, 2000).

Sono molte le differenze visibili nel modello biopsicosociale rispetto al precedente modello biomedico. Finalmente, al paziente viene attribuito un ruolo centrale in quanto visto come un essere attivo e perciò in grado, non solamente di partecipare al processo di cura (pianificazione del trattamento da seguire) e nella fase di prevenzione (abbandono di comportamenti nocivi a favore di comportamenti salutari), ma anche di fornire una misura soggettiva al proprio stato (Delle Fave, Bassi, 2007). In questo senso, viene considerato importante, sia la forza del cliente e la sua capacità di autodeterminarsi, sia il rispetto dell’unicità dell’individuo e delle sue peculiarità e differenze (Laudadio, Mancuso, 2015). Un altro cambiamento considerato significativo è la visione che il modello biopsicosociale sviluppa della malattia. Quest’ultima, non coincide solamente con uno stato negativo, al contrario, viene considerata come un’opportunità di crescita sul piano psicologico (Zambianchi, 2015).

Anche questo paradigma non è esente da critiche. La principale riguarda il fatto di non aver né specificato la tipologia di legame esistente tra le componenti biologiche, psicologiche e sociali; né le metodologie di indagine più adeguate per analizzarle (Delle Fave, Bassi, 2007).

Tuttavia, sono numerosi i pregi attribuiti a questa nuova prospettiva.

Uno dei principali è quello di aver sollevato il problema della complessità del concetto di salute evidenziando la necessità di una stretta interdipendenza tra le diverse discipline che si occupano di salute, come: la medicina, la psicologia, la sociologia e l’antropologia (Bertini, 2012). Inoltre, la prevenzione ha iniziato, finalmente, a spostare la sua attenzione sulla necessità di impedire la comparsa del disturbo, anziché intervenire a posteriori per contenerlo o minimizzarne gli effetti. E, per la prima volta, ha iniziato a comparire il concetto di promozione della salute positiva, intesa come la risultante di uno stato di benessere individuale e sociale (Seligman, 2008). Questo lascia presagire l’importanza affidata all’influenza che il sociale esercita nello stato di malattia ma soprattutto di salute (Zani, Cicognani, 2000).

Pertanto, grazie al paradigma biopsicosociale, la psicologia ha iniziato ad occuparsi non soltanto della patologia ma soprattutto del modo attraverso il quale è possibile rendere più forti e produttive le persone sane, dando anche ampio spazio all’espressione delle potenzialità umane più elevate (Fata, 2004).

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha introdotto così il concetto di “funzionamento” in quanto consente di valutare, anziché la gravità di un disturbo o di una patologia, il grado di salute degli individui inteso nella sua complessità e multidimensionalità (abilità di realizzare le proprie aspettative, di soddisfare i propri bisogni, di interagire in maniera adattiva con il contesto sociale) (Zambianchi, 2015). Non a caso, l’ultima definizione di salute formalizzata dall’OMS ritiene che questa si identifichi con “uno stato di benessere in cui l’individuo realizza le proprie capacità, può gestire le normali situazioni di stress della vita, può lavorare produttivamente ed è in grado di contribuire attivamente alla propria comunità (OMS; 2004, 12).

Infine, sulla base di quanto detto, è possibile collocare la PP all’interno del paradigma biopsicosociale soprattutto per l’importanza affidata alla necessità di non focalizzarsi troppo sulla patologia e di iniziare a dare maggiore spazio agli aspetti costruttivi, creativi e propositivi di individui e gruppi (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Pertanto, in accordo con il modello biopsicosociale, la PP si fa portavoce di una nuova psicologia interessata a valorizzare le dimensioni positive, costruttive del funzionamento individuale; le risorse e i processi che permettono ai soggetti di affrontare le situazioni critiche ma soprattutto di crescere sul piano psicologico, trovando in esse significati utili a favorire una più profonda comprensione di sé e delle relazioni con gli altri (Zambianchi, 2015).

La nascita della PP

L’idea di dare forma ad una psicologia non più interessata esclusivamente alla patologia fluttuava nella mente di Seligman ancor prima della sua elezione come presidente dell’APA (American Psychological Association). L’evento che l’autore considera “catartico” nell’averlo ispirato a sviluppare i principi e i fondamenti della PP è una conversazione con sua figlia Nikki, avvenuta poco dopo aver ricevuto la nomina di presidente dell’APA nel 1998 (Seligman, 2005).

Tuttavia, la nascita ufficiale della PP risale al 2000, anno in cui Seligman e Csikszentmihalyi, hanno pubblicato un numero monografico nella rivista American Psychologist (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Nel seguente paragrafo sono riportati, in maniera dettagliata, tali avvenimenti e viene offerta la descrizione degli elementi caratterizzanti la PP.

Perché Psicologia Positiva

La nascita ufficiale della PP coincide con la pubblicazione di un numero monografico scritto da Martin E.P. Seligman e Mihaly Csikszentmihalyi e pubblicato nel 2000 all’interno della rivista American Psychologyst (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Seligman, ancor prima dell’anno della sua elezione, avvenuta nel 1998, come presidente dell’APA (American Psychological Association), aveva iniziato a discostarsi dall’enfasi esclusiva rivolta verso lo scoprire il deficit e rimediare ai danni. Dagli esiti di numerose terapie, si era reso conto che, grazie al protocollo basato sulla patologia, i pazienti miglioravano ma, allo stesso tempo, molti di essi, registravano dei cambiamenti in positivo determinati da circostanze che non potevano essere ricondotte a quel protocollo. Ben presto notò che se, nel corso della terapia, dava spazio all’individuazione e allo sviluppo delle potenzialità umane presenti nel paziente, queste esercitavano una sorta di “effetto tampone” contro le varie patologie (Seligman, 2005). Tali riflessioni lo spinsero, una volta divenuto presidente dell’APA, a formulare come obiettivo del suo mandato la “prevenzione” in quanto, a suo avviso, la terapia agiva troppo in ritardo mentre la prevenzione avrebbe permesso di risparmiare un sacco di problemi. L’azione preventiva immaginata da Seligman, non consisteva nel rimediare al deficit (in linea con il protocollo biomedico), al contrario, si basava sul riconoscimento e la valorizzazione di potenzialità, doni e virtù (come ad esempio la progettualità, la speranza, l’attitudine ai rapporti interpersonali, il coraggio, la capacità di appassionarsi a qualcosa, il buon umore, la fiducia, l’etica del lavoro) come antidoto contro i problemi che espongono l’individuo al rischio di una malattia mentale (ibidem).

Seligman sostiene che, in concomitanza con la sua nomina di presidente dell’APA, l’evento che più di tutti lo ispirò nel concettualizzare quelli che poi sarebbero diventati i principi della PP fu una conversazione che fece con sua figlia Nikki (Laudadio, Mancuso, 2015).

In quel giorno, lo psicologo, si trovava nel giardino di casa intento a togliere le erbacce mentre, sua figlia Nikki, di cinque anni, giocava a lanciare e cospargere per tutto il giardino le stesse erbacce che con tanta fatica cercava di eliminare. A causa di ciò, Seligman sgridò Nikki, ma quest’ultima prontamente gli rispose: “Papi ricordi prima del mio quinto compleanno? Dai tre anni in su ero stata una barba. Facevo i capricci tutti i giorni. Ma quando ho compiuto cinque anni, ho deciso che basta, non l’avrei più fatto. È stato difficilissimo. E se io sono riuscita a non fare più i capricci, tu la puoi smettere di essere così musone” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000,6).

Questo dialogo servì a Seligman per comprendere molte cose, prima fra tutte, la necessità di modificare il modo di allevare i figli. Sarebbe stato molto più produttivo, anziché correggere i limiti di sua figlia, concentrarsi nell’incrementare le sue potenzialità, così da renderla più forte di fronte alle sue debolezze e alle avversità che avrebbe incontrato nella vita (Seligman, 2005).

Secondo l’autore, lo stesso principio doveva iniziare a guidare anche la pratica clinica. Tale consapevolezza, lo spinse a dare origine ad una psicologia non più interessata alla sofferenza, quanto piuttosto alle risorse degli individui (come gentilezza d’animo, cordialità, creatività, autonomia, rispetto per la vita) con la missione di guidarli verso la felicità e il benessere attraverso l’incremento di tutte quelle potenzialità e virtù capaci di originare emozioni positive (come soddisfazione, felicità, speranza) (ibidem).

Gli elementi caratterizzanti

Seligman e Csikszentmihalyi definiscono la PP come: “lo studio scientifico del funzionamento ottimale dell’uomo, il cui obiettivo è scoprire e favorire i fattori che permettono agli individui e alle comunità di prosperare” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000, 5).

Lo stesso termine “positiva” lascia intendere che, l’oggetto di interesse, sono le emozioni positive (come felicità, gratitudine e realizzazione), i tratti positivi (come ottimismo, resilienza, i punti di forza del carattere) e le istituzioni positive; con l’intento di apportare il proprio contributo rispetto a tutto ciò che riguarda la salute e il benessere umano (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Proprio per questo, il suo scopo principale è: “catalizzare una modificazione dell’interesse centrale della psicologia, spostandolo dalla preoccupazione di porre rimedio agli aspetti peggiori della vita alla costruzione anche di qualità positive” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000, 5).

Infatti, le ricerche realizzate dagli psicologi positivi, si propongono di “integrare” e non “sostituire” tutto ciò che si conosce riguardo alla sofferenza, alle debolezze e ai disturbi umani. Questo perché, la PP, parte dal presupposto che una scienza completa e un’altrettanta completa pratica della psicologia dovrebbero includere una comprensione sia della sofferenza che della felicità, così come del carattere della loro interazione, oltre che interventi scientificamente fondati volti ad alleviare la sofferenza e accrescere la felicità (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Secondo la PP, promuovere i punti di forza e il benessere della persona rappresenta un vero e proprio antidoto per contrastare lo sviluppo dei deficit e dei disturbi mentali e consente di migliorare, allo stesso tempo, la comprensione dell’eziologia e dei trattamenti efficaci a contrastare i disturbi mentali resistenti. Quello di cui si vuole fare portavoce è la valorizzazione dell’azione preventiva-promozionale: liberare la persona dalla propria patologia, molto spesso, non basta a garantirle una condizione di benessere. Ciò che, invece, ritiene necessario fare è occuparsi di far “fiorire” la persona, garantendole una piena salute mentale caratterizzata da condizioni positive in termini di capacità e funzionamento (Goldwurm, Colombo, 2010).

Da quanto detto sin ora, emerge l’impegno mostrato dalla PP nel cercare di riequilibrare il campo di azione psicologico facendo in modo di integrare al suo interno l’interesse, sia per la cura delle patologie, sia per rendere la vita degli individui migliore dando ampio spazio allo sviluppo delle risorse e dei talenti personali (Laudadio, Mancuso, 2015).

La PP opera su tre livelli differenti: soggettivo, individuale e di gruppo.

Il livello soggettivo riguarda lo studio di esperienze positive come: il benessere, la soddisfazione rispetto al passato; la speranza e l’ottimismo per il futuro; il flusso e la felicità nel presente (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Questo livello si fonda soprattutto sul sentirsi bene piuttosto che il fare buone cose o l’essere una buona persona (Boniwell, 2015).

Il livello individuale si occupa di identificare gli elementi che costituiscono una “buona vita” e i tratti individuali determinanti per essere una “buona persona”. Di conseguenza l’oggetto di studio sono: l’amore e la vocazione; il coraggio; le capacità interpersonali; la sensibilità verso gli altri; la perseveranza; il perdono; l’originalità; la capacità di proiettarsi nel futuro; la spiritualità; il talento; e la saggezza (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Il livello di gruppo o di comunità si interessa delle virtù civiche e delle istituzioni capaci di rendere gli individui dei buoni cittadini (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Tuttavia, pone l’accento sulle azioni o i comportamenti positivi da rivolgere verso qualcosa di più grande e diverso da noi stessi (Boniwell, 2015). A questo proposito, si propone di studiare: le virtù civiche; la responsabilità sociale; il prendersi cura degli altri; l’altruismo; la civiltà; la moderazione; la tolleranza; e il lavoro etico (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Felicità o benessere?

La felicità è un tema che fa discutere sin dai tempi più antichi: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni, si sono trovati a pensare, interpretare e spiegare questo stato (Boniwell, 2015).

Come descritto nei paragrafi precedenti, la psicologia, a partire dal ‘900 fino a pochi anni fa, ha preso raramente in considerazione il tema della felicità, focalizzandosi, in particolar modo, sulla psicopatologia (Laudadio, Mancuso, 2015).

A questo proposito, la PP, ha voluto recuperare l’interesse per tale costrutto sino al punto di renderlo parte integrante della sua essenza. È così che, Boniwell, una delle più note psicologhe positive, l’ha definita come: “la scienza della felicità, del benessere e del fiorire” (Boniwell, 2015, 9).

Il motivo per il quale la PP considera così importante occuparsi della felicità risiede nel fatto che quest’ultima ha delle notevoli implicazioni nella vita umana (Seligman, Steen, Peterson, 2005). Sono, infatti, molteplici le ricerche in grado di testimoniare che, le persone felici, vantano di migliori condizioni di salute, sono maggiormente creative e soddisfatte del proprio lavoro, hanno un’intensa vita sociale e grande successo nella vita (Seligman, 2013). Uno studio esemplare condotto da Danner, Snowdon e Friesen (2001), su un campione di suore ha persino dimostrato che la felicità interferisce sulla longevità delle persone.

In passato si pensava che la felicità rappresentasse una qualità ereditabile, oggi, grazie alle nuove scoperte, sappiamo di possedere un grande potere nell’elevare il nostro livello di felicità (Lyubomirsky et al., 2005). È proprio sulla scia di questa scoperta che, la PP, sin dalla sua nascita, si è posta l’obiettivo di aiutare le persone a “costruire la propria felicità” realizzando interventi finalizzati a favorire la massima espressione di sé, dei propri talenti e delle proprie potenzialità (Laudadio, Mancuso, 2015).

La parola “felicità” deriva dal verbo feo che significa produco o fecondo. Ciò lascia intendere come la felicità sia la risultante delle nostre azioni migliori attraverso le quali generiamo, produciamo, creiamo e sviluppiamo. In questo senso, essere felici, non dipende dagli effetti che l’ambiente ha su di noi, bensì dalla nostra capacità di adattarci al suo interno e di produrre azioni in grado di renderlo fecondo (ibidem).

I primi studi sulla felicità sono stati condotti da Aristoppo e Aristotele: il primo parla di felicità edonica e il secondo sviluppa il concetto di felicità eudaimonica. Secondo Aristoppo, la felicità, è determinata dal piacere, proprio per questo, lo scopo della vita diventa massimizzare le esperienze di piacere e minimizzare quelle di dolore, andando costantemente alla ricerca di un maggior livello di piacere (Zambianchi, 2015). Aristotele, si pone in contrasto con questa concezione di piacere sensoriale, facendosi promotore di una teoria della felicità che esalta l’agentività umana. Egli, infatti, sviluppa il concetto di eudaimonia descritto nell’Etica Nicomachea come la risultante della piena attuazione delle potenzialità individuali (Seligman, Peterson, Park, 2005).

A partire da queste due concettualizzazioni, e riprendendo i contributi forniti dagli autori che si sono occupati di elaborare una propria teoria della felicità, la PP, ha lavorato affinché si arrivasse a formulare una teoria di riferimento unitaria, capace di superare lo stato di confusione generato dalle varie concettualizzazioni esistenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

Nei seguenti paragrafi sono riportate le diverse evoluzioni che la teoria della felicità ha subito all’interno della PP.

Benessere soggettivo

Il benessere soggettivo è anche detto benessere edonico poiché riprende la concezione di benessere come edonia proposta da Aristoppo (435-360 a.C. ca.). Quest’ultimo pensava che la felicità derivasse dalla totalità dei momenti di piacere sperimentati da ciascuno (Zambianchi, 2015).

In questo paragrafo i termini “felicità” e “benessere” verranno utilizzati in modo interscambiabile in quanto, secondo la letteratura scientifica, il concetto di benessere soggettivo (subjective well-being, SWB) equivale a quello di felicità (Boniwell, 2015).

Il benessere edonico viene definito da Diener e Lucas (1999) come il risultato delle valutazioni che le persone elaborano circa la propria vita sia in termini affettivi che in quelli cognitivi.

Sinteticamente, può essere schematizzato nel seguente modo:

BENESSERE SOGGETTIVO

SODDISFAZIONE DI VITA + STATO AFFETTIVO

La soddisfazione di vita rappresenta la valutazione cognitiva che il soggetto fa rispetto alla propria vita. La persona può considerarsi soddisfatta nella misura in cui vi è poca o nessuna discrepanza tra lo stato presente e quello ideale. L’insoddisfazione, invece, può emergere, sia nel caso in cui si manifesta una discrepanza significativa tra la condizione presente e il criterio ideale, sia dopo un confronto realizzato con altre persone (Boniwell, 2015).

Lo stato affettivo richiama le emozioni che accompagnano le nostre esperienze quotidiane che possono essere di tono positivo (come la gioia, la riconoscenza) oppure di tono negativo (come la rabbia, il dolore, l’indignazione). Il benessere emozionale esperito dipende dalla frequenza con cui vengono provate emozioni positive o negative, e non dalla loro intensità (Diener, Larsen, 1993). Infatti, mentre è importante che gli stati affettivi positivi siano frequenti, l’intensità non è una condizione necessaria per il benessere. Questo perché le emozioni positive intense hanno anche uno scotto da pagare in quanto sono, spesso, seguite da stati affettivi più deboli. Inoltre, possono influire negativamente sulla valutazione delle esperienze positive successive (e generalmente meno intense) (Diener, Sandvik, Pavot, 1991).

Ognuna delle componenti generali che costituiscono il benessere soggettivo può essere scomposta in elementi più specifici e legati a precisi ambiti di vita. Ad esempio si può parlare di soddisfazione per la vita facendo riferimento all’ambito familiare, sociale o lavorativo. Mentre, quando si parla di benessere emozionale, sarebbe bene valutare in che livello si manifesta in ciascun ambito. Un soggetto può registrare un alto livello di benessere emozionale in famiglia, ma molto basso nel contesto lavorativo, e intermedio nell’ambito delle amicizie (Zambianchi, 2015).

Dai risultati emersi in numerose ricerche è testimoniato lo stretto legame tra il benessere soggettivo e l’ottimismo, l’estroversione, i legami sociali (in particolare gli amici stretti), il matrimonio o la convivenza, la religione o la spiritualità, le attività di svago, la qualità del sonno, l’esercizio fisico, la classe sociale (a causa delle differenze nello stile di vita e nelle strategie di coping), la salute soggettiva (ciò che pensiamo della nostra salute) (Boniwell, 2015, 53).

La volontà dimostrata dalla PP nel correggere lo squilibrio della psicologia verso il disagio e le emozioni negative in favore di un’adeguata integrazione con conoscenze e dati sulle emozioni positive, ha fatto sì che i primi studi condotti sulla felicità si siano incentrati sull’emotività positiva (Laudadio, Mancuso, 2015).

Uno degli studi più famosi sulle emozioni positive e longevità è stato realizzato su un campione di 180 suore. La ricerca prevedeva la realizzazione di un’accurata analisi delle autobiografie scritte a conclusione del noviziato da tutte le suore. Quando venne quantificato il tasso di sensazioni positive espresse negli scritti, si notò che le suore più allegre erano proprio quelle che vivevano più a lungo (Danner et al., 2001). Tale studio ha permesso di rilevare come un’unica immagine di momentanea emozione positiva sia sufficiente per avanzare ipotesi rispetto la longevità, la felicità, la soddisfazione esistenziale (Laudadio, Mancuso, 2015).

Barbara Fredrickson, ricercatrice dell’Università della Carolina del Nord e tra le più esperte sull’argomento, ha stilato l’elenco delle emozioni positive più comuni: gioia, gratitudine, serenità, interesse, speranza, orgoglio, divertimento, ispirazione, ammirazione e amore (Achor, 2012).

L’autrice ha elaborato la Broaden-and-Build Theory (Fredrickson, 2001) nella quale descrive il ruolo evolutivo delle emozioni positive, che va ben oltre il piacere che provocano. Invece di limitare le nostre azioni come fanno le emozioni negative, quelle positive, aumentano il numero di possibilità che processiamo, rendendoci più riflessivi, creativi e aperti a nuove idee. Provare emozioni positive non ci rende solamente più creativi, ma favorisce un ampliamento delle nostre risorse intellettuali, fisiche e sociali di base, costituendo riserve a cui possiamo attingere quando si presenta una minaccia o un’opportunità (Fredrickson, 2001).

Quando ci troviamo in uno stato d’animo positivo, riusciamo persino a percepire con maggiore attenzione quello che c’è intorno a noi. Questo è proprio quello che è stato dimostrato in un recente studio realizzato all’Università di Toronto che ha rilevato come uno stato di umore positivo produce un notevole impatto sul modo in cui la corteccia visiva, parte del cervello responsabile della vista, processa le informazioni. Infatti, assumere un atteggiamento positivo ci consente di espandere la nostra visione periferica e, di conseguenza, cogliere elementi della realtà che altrimenti non riusciremmo ad osservare (Schmitz et al., 2009).

Come dimostrato da molteplici ricerche, le emozioni positive agiscono come antidoto contro lo stress fisico e l’ansia, e a sua volta migliorano la nostra concentrazione e la nostra abilità di funzionare ai massimi livelli (Fredrickson et al., 2000).

Inoltre, per mezzo di un esperimento in cui i ricercatori, dopo aver somministrato un questionario volto a rilevare il livello di felicità, hanno iniettato ad alcuni individui una dose di virus del raffreddore, è possibile rilevare come le emozioni positive rappresentano la causa diretta della buona salute: coloro che erano più felici avevano combattuto il raffreddore molto meglio rispetto alle persone meno felici (Cohen et al., 2003).

Secondo Seligman, trovarci in uno stato d’animo positivo ci permette di avere un rapporto migliore con il mondo: piacciamo di più alla gente, e aumentano le probabilità che nascano amicizie, coalizioni, amori. All’inverso di quanto accade quando proviamo emozioni negative, la nostra disposizione mentale è espansiva, tollerante, creativa. Siamo aperti a nuove idee e a nuove esperienze (Seligman, 2005). Risulta chiaro come l’emotività positiva rappresenti un ottimo indicatore per pronosticare sopravvivenza, mortalità e invalidità (ibidem).

L’importanza che Seligman affida all’emotività positiva è identificabile nella sua formula della felicità. Quest’ultima, presentata per la prima volta nel 2002 all’interno del celebre libro la Costruzione della felicità, è caratterizzata da tre elementi:

  • Emozione Positiva (Positive Emotion): si riferisce alle gratificazioni derivanti dai sensi (gioia, piacere, calore);

  • Coinvolgimento (Engagement): si riferisce a quelle attività che le persone scelgono in quanto capaci di condurre a delle esperienze ottimali;

  • Significato (Meaning): si riferisce alla ricerca di uno scopo nella vita, di un senso, andare al di là della propria individualità e mettere i propri talenti al servizio degli altri, contribuendo al benessere del mondo in generale (Seligman, 2005).

Secondo Seligman e da quanto dimostrato in numerose ricerche, le persone che si dichiarano più contente e soddisfatte, sono quelle che orientano la loro vita in tutte e tre le dimensioni (Salmaso, 2008).

Tuttavia, in linea con i risultati delle ricerche, la PP, ha ritenuto necessario precisare un importante intento: aiutare le persone a controllare e potenziare il loro benessere emotivo (Achor, 2012). Questo ha indotto diversi autori a formulare una teoria su come accrescere il livello di felicità degli individui (Laudadio, Mancuso, 2015).

Per necessità di sintesi ho scelto di riportare la seguente formula della felicità elaborata da Seligman (2002):

H = S + C + V

H” (Happiness) indica il livello permanente di felicità, “S” (Set range) la quota fissa personale di felicità, “C” le circostanze della vita, e “V” i fattori che dipendono dal nostro controllo volontario.

Con la lettera “H”, Seligman, intende il livello di felicità permanente presente nella persona. A questo proposito ci tiene a precisare che la felicità permanente è ben differente dalla felicità momentanea. Quest’ultima può essere incrementata facilmente da una molteplicità di stimoli (un vestito nuovo, una cioccolata, un mazzo di fiori, un complimento), ma interviene esclusivamente sulle sensazioni momentanee. Quello che interessa a Seligman è, invece, incrementare la felicità permanente, in quanto stabile e duratura (Seligman, 2005).

Con la lettera “S” fa riferimento a due elementi che interferiscono sul nostro livello di felicità: l’eredità genetica (fattore che determina fino il 50% della felicità) e la “macina edonistica”, ovvero la nostra tendenza ad adattarci alle cose positive, fino al punto di darle per scontate. Collegandosi all’eredità genetica, l’autore, parla di un termostato della felicità, per indicare come ciascuno di noi possegga una “quota fissa” di felicità che, inevitabilmente torna, dopo un certo lasso di tempo. Tuttavia, sia nella circostanza in cui abbiamo la fortuna di vivere un evento gioioso sia in un momento di sventura, il nostro termostato della felicità tenderà a riportare la nostra felicità al suo livello abituale (ibidem).

Con la lettera “C” intende le circostanze della vita che, in alcuni casi (10% circa) influenzano il livello di felicità (denaro, matrimonio, vita sociale. Istruzione, salute). Infatti, le ricerche testimoniano che, a differenza di come si pensava anni fa, avere un buono stipendio, essere giovani, registrare buone condizioni di salute e possedere una buona istruzione, influisce solo in piccola parte sul nostro livello di felicità. Ad esempio, si è notato che la crescita del reddito provoca la crescita del livello di felicità individuale solo fino ad un certo punto, al di là del quale il denaro non provoca più felicità (Laudadio, Mancuso, 2015).

L’aspetto ambientale che più di tutti sembra influire sul livello di felicità è la presenza di una ricca rete di relazioni sociali (Boniwell, 2015). Diener e Seligman (2002) hanno realizzato una ricerca su un gruppo di studenti universitari risultati eccezionalmente felici. I risultati hanno evidenziato un’unica differenza fra gli studenti più felici e gli altri: i più felici avevano una vita sociale ricca e appagante: trascorrevano meno tempo soli, erano in buoni rapporti con gli amici e avevano una relazione sentimentale.

L’elemento sul quale Seligman suggerisce di focalizzarci è il “V”: i fattori individuali alla base della nostra felicità, aspetti che dipendono dalla nostra volontà. L’autore considera importante agire su di essi in quanto possono determinare un cambiamento durevole. Tuttavia, lo stato di benessere non può dipendere da un singolo evento, ma è il risultato dell’intreccio tra passato, presente e futuro. Per questo è importante agire sui fattori personali, legati al controllo volontario, dando origine ad un lavoro combinato su dimensioni del passato (sviluppare gratitudine e perdono), del presente (riconoscere, potenziare e mettere in azione i nostri punti di forza) e del futuro (sviluppare l’ottimismo e speranza) (Seligman, 2005).

Benessere psicologico

Recentemente, nel campo della PP, è emersa una nuova visione della “buona vita”, fondata sul concetto aristotelico di “benessere eudaimonico”. Tale termine fu introdotto da Aristotele (384-322 a.C.) per porsi in antitesi alla concezione di benessere edonico (Zambianchi, 2015). Secondo l’autore, non tutti i desideri sono degni di essere perseguiti: sebbene, alcuni di essi possano generare piacere, non per questo producono qualcosa di buono (Boniwell, 2015).

Il benessere eudaimonico (dove il dàimon si riferisce alle potenzialità dell’individuo che, una volta attuate, gli permettono di realizzare la sua vera natura) sottolinea l’importanza di condurre una vita virtuosa attraverso la piena attuazione delle potenzialità personali che permettono all’individuo di raggiungere il suo fine ultimo (ibidem). Tuttavia la felicità autentica è frutto dello sviluppo, dell’attuazione e del dispiegamento dei valori e delle potenzialità individuali, di costruzione di significati e perseguimento di obiettivi condivisi in vista di un bene comune (Zambianchi, 2015). L’eudaimonia, infatti, comprende la realizzazione sia degli obiettivi individuali sia di quelli collettivi, legati a quel bene comune che pone gli esseri umani in tensione reciproca, e alla ricerca di tale condizione di benessere attraverso le opportunità offerte dalla società (Delle Fave, 2007). Tuttavia, la felicità rappresenta un processo che si realizza all’interno di un contesto sociale, in una visione che privilegia la dinamica attraverso l’espressione delle capacità individuali, piuttosto che la conquista di uno stato di equilibrio interno promosso dall’edonismo (Zambianchi, 2015).

Pertanto, il fondamento eudaimonico prevede che le persone sviluppino le proprie abilità e talenti e le mettano al servizio delle più grandi cose, in particolare, del benessere altrui o dell’umanità (Seligman, Peterson, Park, 2005).

Molto probabilmente, nel campo psicologico, i primi a parlare di “eudaimonia” furono gli psicologi umanisti del XX secolo come Maslow e Rogers i quali, partendo dal presupposto che le scelte che le persone compiono influenzano il loro benessere, riconoscevano in ogni individuo una tendenza attualizzante, una motivazione fondamentale rivolta alla crescita (Boniwell, 2015).

Tuttavia, il concetto di eudaimonia può essere simbolicamente paragonato ad un ombrello che comprende, contemporaneamente, il benessere psicologico, le virtù, l’eccellenza, la motivazione intrinseca, l’autenticità e lo scopo della propria vita (Laudadio, Mancuso, 2015).

Il PWB (psychological well-being, benessere psicologico) è un modello di benessere elaborato dalla psicologa Carol Ryff (1989). Quest’ultima, una volta aver analizzato le diverse concezioni di felicità presenti in psicologia, è giunta alla conclusione che il benessere è caratterizzato da sei componenti: l’autoaccettazione (la valutazione positiva di sé e della propria vita); la crescita personale; lo scopo di vita; le relazioni sociali positive; la padronanza dell’ambiente (la capacità di gestire in modo efficace la propria vita e l’ambiente circostante); e l’autonomia. Tale visione di benessere pone in risalto la realizzazione di sé nei diversi ambiti della vita che si integrano a vicenda e vanno a formare un globale senso di benessere (Zambianchi, 2015).

Con il tempo, la PP, ha dato origine a prospettive di natura più sociale, che affrontano lo studio del benessere partendo dalla relazione che si instaura tra individuo e contesto sociale in cui vive o tra individuo e società più ampia di cui fa parte (Zambianchi, 2015).

Keyes (1998), ha elaborato il costrutto di “benessere sociale”, complementare a quello di “benessere psicologico di Ryff, il quale include l’accettazione sociale, la realizzazione sociale, il contributo sociale, la coerenza sociale e l’integrazione sociale (Goldwurm, Colombo, 2010).

Infatti, lo stesso Seligman, si rese conto che la sua teoria della felicità autentica (2002) necessitava di alcune modifiche, poiché non contemplava variabili importanti come: il successo e il senso di controllo e le attività che le persone scelgono di fare per il loro valore intrinseco. In particolare, considerò riduttivo l’utilizzo del termine “felicità” per l’idea diffusa del significato attribuibile a tale termine, generalmente associato allo stato d’animo (“l’essere di buon umore”). Era opportuno identificare un termine capace di comprendere al suo interno, non solamente la componente emotiva, ma anche il significato e il coinvolgimento. Infine, nota che la soddisfazione per la vita non poteva rappresentare il giusto parametro per misurare la felicità e che l’utilizzo di autovalutazioni non era attendibile per una corretta rilevazione (Laudadio, Mancuso, 2015).

Alla luce di queste considerazioni, Seligman, arriva alla conclusione che al centro della PP non ci può più essere la felicità, e introduce il costrutto più ampio di Benessere (Zambianchi, 2015).

Il benessere contiene degli elementi misurabili che contribuiscono alla sua realizzazione, ma nessuno di essi lo definisce. Ogni elemento del benessere, per definirsi tale, deve contemplare tre caratteristiche:

  1. Contribuire al benessere;

  2. Contenere una motivazione intrinseca;

  3. Essere definito e misurato indipendentemente dagli altri elementi (Seligman, 2012).

Tuttavia, nella prima formulazione della teoria della felicità autentica (2002), Seligman, distingueva la vita piacevole caratterizzata dalle emozioni positive; la buona vita caratterizzata dal coinvolgimento, ovvero la completa immersione in un’attività; e la vita significativa, consistente nel mettere i propri punti di forza al servizio di qualcosa di più grande di sé (Boniwell, 2015).

Mentre, nella successiva formulazione del 2011 trasforma il modello della felicità autentica in un modello del benessere comprendente gli stessi tre elementi, più altri due: le relazioni sociali (relationships), ovvero stringere legami con altre persone e la realizzazione (accomplishment), intesa come perseguimento della riuscita e del successo per il valore intrinseco che possiedono (Seligman, 2012).

Seligman, inserisce nella sua teoria le relazioni positive per l’enorme valore attribuito agli “altri” in quanto considerati come una delle principali risorse che ognuno di noi ha a propria disposizione per contrastare i momenti difficili della vita (Seligman, 2012).

Una ricerca empirica su un campione di oltre 2.000 persone, ha dimostrato che compiere atti di altruismo fa diminuire lo stress e contribuiscono al potenziamento della nostra salute mentale (Post, 2005).

Sono molteplici le ricerche che evidenziano come le relazioni positive siano fondamentali per il benessere soggettivo della persona e, viceversa, il loro peggioramento rappresenti la principale causa di infelicità, questo perché la solitudine provoca alti livelli di ansia, rabbia e umore negativo, sino al punto di poter spingere la persona a compiere atti autolesionistici (Laudadio, Mancuso, 2015).

La realizzazione rappresenta il fondamentale scopo dell’individuo e viene ritenuto un elemento che contribuisce al benessere per l’intensa soddisfazione che comporta nella persona (Seligman, 2012).

Seligman, sostiene che il perseguimento e il significato sono da considerarsi come eudaimonici. Nelle ricerche realizzate con i suoi collaboratori si è reso conto che, nelle attività edoniche (per esempio, il divertimento, lo svago e il riposo) le persone sentono molte emozioni piacevoli, gli stati emotivi negativi sono ridotti e aumenta l’energia. In effetti, queste attività ci rendono più felici rispetto a quelle eudaimoniche. Con il passare del tempo, però, coloro che conducono un’esistenza eudaimonica (si impegnano a sviluppare le proprie potenzialità e capacità) sono più soddisfatti della propria vita (Boniwell, 2015).

Adottare una prospettiva sistemica del benessere ha permesso alla PP di fare luce sugli aspetti sia individuali sia contestuali che favoriscono condizioni positive e lo sviluppo dei punti di forza di ciascuno (Zambianchi, 2015).

Ne risulta che il benessere rappresenta un costrutto multidimensionale, caratterizzato dal sentirsi bene, saper instaurare buone relazioni, sperimentare realizzazione, identificare un senso, un significato e una direzione alla propria vita e vivere appieno ciò che viviamo (Laudadio, Mancuso 2015). Di conseguenza, il principale obiettivo della PP, non è più quello di incrementare il livello di felicità degli individui, ma di aumentare la quantità di flourishing nelle persone (Seligman, 2012).

Il concetto di flourishing è stato introdotto, per la prima volta, da Keyes, per fare riferimento agli individui “fiorenti”, coloro che riescono a realizzare appieno le proprie potenzialità e, contemporaneamente, stabiliscono delle relazioni costruttive con la società. Secondo l’autore, tale condizione, è costituita da tre dimensioni del benessere: soggettivo, eudaimonico e sociale (Keyes, 2007). Alla luce di uno studio condotto dallo stesso Keyes, emerge come coloro sperimentano una condizione di flourishing, presentano un’elevata resilienza, capacità di rapportarsi costruttivamente con l’ambiente, chiari obiettivi di vita ed elevata autoefficacia, oltre che un minor rischio di assenza dal lavoro dovuta a condizioni di salute precarie (Keyes, 2005).

Il concetto di flourishing può essere altrimenti sostituito con il termine funzionamento ottimale, uno stato che comprende emozioni positive, riuscita, coinvolgimento e relazioni positive (Laudadio, Mancuso, 2015).

Pertanto, l’obiettivo ultimo della PP diventa aiutare gli individui a raggiungere la condizione di funzionamento ottimale, attraverso l’incremento e lo sviluppo degli elementi che lo costituiscono (Seligman, 2012).

La Psicologia Positiva oggi

Al giorno d’oggi la PP si trova in uno stato di notevole espansione e fornisce rilevanti contributi in diversi ambiti della vita come: la scuola, la famiglia e le attività creative (Seligman, 2005).

Tuttavia, ha ancora davanti a sé molte sfide rimaste aperte, prima fra tutte, l’adozione di un approccio integrato che sappia includere sia il superamento del disagio sia il potenziamento della felicità (Laudadio, Mancuso, 2015).

Il panorama attuale

Negli anni successivi alla sua nomina di presidente dell’APA, Seligman ha organizzato una serie di incontri in Messico, ai quali hanno partecipato numerosi studiosi al fine di porre le basi della PP. È nato così il comitato direttivo di PP, costituito da: Mihaly Csikszentmihalyi, Ed Diner, Kathleen Hall Jamieson, Chris Peterson e George Vaillant. Successivamente ha preso forma il Positive Psychology Center presso l’Università della Pennsylvania, il primo Summit di PP, avvenuto a Washington DC e il primo numero speciale dedicato al tema della PP all’interno della rivista American Psychologist a cura di Seligman e Csikszentmihalyi (Laudadio, Mancuso, 2015).

Negli ultimi dieci anni si è rilevata una evidente esplosione di ricerche e interventi realizzati sulla base dei principi della PP (Kristjánsson, 2010). Si registrano iscrizioni record ai corsi di laurea in PP in nord America e in tutto il mondo (Gunnel, 2006). All’università di Harvard è addirittura il corso più popolare (Laudadio, Mancuso, 2015)

In Italia, l’interesse accademico e professionale per la PP ha favorito la nascita della Società Italina di Psicologia Positiva (SIPP) nel dicembre 2004. La SIIP è una società senza scopo di lucro con l’intento di promuovere la teoria e la prassi della PP, stimolare la ricerca nelle aree tipiche della PP, curare la formazione di professionisti operanti in questo settore, realizzare attività di intervento psicologico positivo con lo scopo di promuovere il benessere psicologico e la salute, promuovere, stabilire e mantenere relazioni scientifiche con studiosi o associazioni nazionali ed internazionali che perseguono gli stessi obiettivi (www.psicologiapositiva.it).

Nel 2009 è avvenuto a Philadelphia, in Pennsylvania, il Primo Congresso Mondiale di Psicologia Positiva al quale hanno partecipato oltre 1.500 persone provenienti da 52 paesi (Laudadio, Mancuso, 2015).

Critiche e nuove sfide per la Psicologia Positiva

La PP è stata oggetto di diverse critiche. Gran parte di esse, si collegano al fatto che molti contenuti della PP erano già presenti nel corpus della psicologia e delle materie ad essa affini, come la filosofia. In particolare, si fa riferimento alla relazione tra PP e le posizioni aristoteliche. Molti autori, infatti, apprezzano che Seligman abbia rivalutato le filosofie classiche, altri, ritengono che la PP abbia utilizzato in maniera strumentale le posizioni aristoteliche (Laudadio, Mancuso, 2015).

Un altro aspetto considerato controverso, è la relazione esistente tra la PP e la psicologia umanistica. Questi due approcci, infatti, sono accomunati dalla visione positiva dell’uomo, così come dall’utilizzo di molte tecniche simili di intervento; ma si distinguono per la diversità con cui si accostano al metodo scientifico e alle tecniche di ricerca (Wong, 2011).

Una delle critiche più note riguarda il fatto di aver, in qualche modo, realizzato una “ostentazione del positivo” che rischia di tradursi in una visione parziale e monodirezionale (Muzio et al., 2012). Questo ha portato a sottovalutare l’importanza di alcune emozioni non-positive, come la colpa, il rimpianto, la frustrazione e la rabbia, le quali possono avere un impatto nel motivare le persone a migliorarsi e a cambiare (Wong, 2011).

Detto ciò, non bisogna ignorare due importanti costatazioni. La prima, riferita al fatto che il principale intento della PP è eliminare le emozioni non-positive attraverso il miglioramento degli aspetti positivi. La seconda, che evidenzia come, recentemente, la PP, si sia aperta allo studio degli aspetti legati alla guarigione (Laudadio, Mancuso, 2015).

Molti autori rivendicano, perciò, il bisogno di sviluppare un approccio olistico, attento sia al positivo che al negativo, cosicché la PP possa aumentare la sua credibilità (Muzio et al. 2012). Tale pensiero, combacia pienamente con quanto sostenuto da Seligman rispetto alla necessità di dare origine ad una scienza psicologica completa e bilanciata, capace di includere al suo interno, sia la comprensione della sofferenza sia della felicità, così come lo studio della loro interazione (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Un ulteriore limite è riconosciuto nella forte spinta individualista promossa dalla PP. Molti autori come Cyrulink e Malaguti, ritengono importante considerare l’aspetto interpersonale e, in particolare, l’interazione tra le dimensioni individuali e quelle relazionali, capaci di indirizzare l’individuo verso la strada della felicità (Salmaso, 2008).

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