Il presente articolo si propone di esplorare e approfondire un fenomeno che sta diventando sempre più importante ed urgente e che investe in modo esplicito o no la quotidianità dei legami affettivi, ossia la perversione relazionale. L’obiettivo è quello di stimolare il lettore ad una riflessione generale sulle dinamiche affettive e relazionali, ponendo il focus specifico a quelle di coppia, sull’impatto emotivo che tali relazioni hanno sull’individuo ed eventualmente fornire strumenti importanti ed utili per riconoscere quei potenziali manipolatori che annichiliscono il legame affettivo. Dunque il conseguimento di tali finalità sta nel mostrare la possibilità di liberarsi dal dramma di un amore patologico, malato e distruttivo.
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Il concetto di perversione
La definizione di perversione ha portato con sé una serie di ambiguità e difficoltà nel cogliere essenzialmente il suo significato e l’ambito in cui esso si rispecchia. Nelle molteplici definizioni di alcuni dizionari di psicologia, sotto la voce “Perversione” vi sono delucidazioni orientate sulla sfera sessuale e sulle deviazioni relative a tale dinamica anche se Laplanche e Pontalis riconoscono (1993, 250) che esso, non solo è ascrivibile ad una deviazione in senso prettamente sessuale, ma anche in senso morale. Il concetto di moralità è molto labile e soprattutto relativo ad un sistema di valori che ricadono nei retroscena culturali d’appartenenza. Tuttavia la moralità non si dispiega nella dicotomica lotta per la sopravvivenza tra giusto e sbagliato ma nella violenza psichica che si infligge nei confronti dell’altro, il cosiddetto “oggetto” relazionale il quale diventa vittima indiscussa del maltrattamento.
Nelle trattazioni di Filippini (2005, 30-31) vi è una distinzione in chiave psicopatologica del maltrattamento fisico da quello psicologico ed affettivo; nel primo infatti, legato a configurazioni di personalità più gravi, vi ritroviamo disturbi borderline, antisociali e manifestazioni di narcisismo maligno, il secondo invece si erge sulla personalità narcisistica. Dunque nel segno del maltrattamento e della perversione vi è un continuum che va dalla violenza fisica a quella psicologica e mentale a cui rispettivamente sono vincolate dimensioni patologiche disparate. Per quanto effettivamente l’abuso fisico sia legato a quadri patologici e diagnosi più infauste nonché a tratti più gravi ed insalubri è comunque una realtà, una dinamica manifesta, visibile agli occhi di chi subisce, chi assiste. L’abuso psicologico, invece, si insidia nella vita incorporea della persona affondando le sue radici violente nel pensiero, nei principi dell’esperire mentale e non è percepibile concretamente da chi non è partecipe della dinamica affettiva perversa, per cui non sempre la presunta vittima di tale scenario è consapevole della manipolazione affettiva a cui è vincolata. Rispetto ad esso la Filippini evidenzia (2005, 31) come la perversione relazionale giunga ad espressioni come la violenza psicologica che si manifesta nel controllo e nel dominio, esercitati dal perpetratore, sull’altro, che si esprimono nell’intrusione nei rapporti affettivi dell’altro, nelle sue attività nonché nei suoi contesti di autonomia (per es. economica) Anche se vengono indicati riferimenti al legame di coppia, la perversione relazionale non coinvolge solo ed esclusivamente tale scenario ma si realizza in molteplici contesti ed ambiti della nostra vita e, soprattutto, trascina dentro sé svariati rapporti ed affetti.
In merito alla dimensione interpersonale del quadro narcisistico, Ponsi sostiene (2003, I) che non si può parlare di una vera e propria sindrome con specifici comportamenti perversi, quanto invece di un modo perverso di rapportarsi con gli altri. L’autrice ribadisce la difficoltà a rendere oggettivamente osservabile il ricatto che sottende i rapporti affettivi del narcisista in quanto non è misurabile né distinguibile l’abuso psichico, il dominio e soggiogamento affettivo dell’altro.
Tale concetto si ricollega a ciò che già precedentemente era stato affrontato da Racamier ed Eiguer i quali in primis avevano individuato la perversione all’interno del quadro della moralità. Racamier ha maturato (1993, 124) il concetto di perversità all’interno dell’analisi delle psicosi e degli stati-limite intendendolo come una modalità relazionale ed interpersonale che si fonda sulla malignità, sulla manipolazione ed il pervertimento dei propri legami. Un pensiero affine a questo è quello espresso da Eiguer. Chi si relaziona ad una tale personalità viene sottoposto ad una pressione eccessiva, manipolata, sfruttata in quanto il perverso morale desidera diventare l’unico vero padrone del rapporto poiché tale obiettivo gli procura godimento e porta con sé un senso di trionfo e di superiorità di cui il suo spirito ha fortemente bisogno, perseguito tramite l’arma della seduzione.
Per quanto la seduzione e il desiderio di esercitare una certa influenza sull’altro siano aspetti che sono riscontrabili nelle normali relazioni, ciò che distingue queste dagli espedienti perversi è da ricercare negli obiettivi: il perverso infatti cerca di assoggettare la sua vittima, di asservirla e sottometterla al suo essere; a fronte di ciò la vittima rischia di sentirsi svalutata e di perdere la possibilità di pensare e di agire in autonomia (Eiguer, 2006, 6-7).
Dunque ci sono diverse modalità, espressioni e connotazioni della perversione; in linea generale tale termine rimanda ad un significato, ad un’illazione di un pervertimento di tipo sessuale. In un certo senso ciò può essere riconducibile al fatto che le prime delucidazioni circa tale concettualizzazione si rifanno alle teorie sessuali di stampo freudiano; Freud infatti aveva definito le perversioni come attività sessuali che, da un punto di vista anatomico vanno oltre le zone che sono legate all’atto sessuale in sé per sé, come uno dei possibili esiti del fallimento dello sviluppo psicosessuale (Freud, 1905, 477). Date le prime definizioni sessualizzate di tale concetto, è importante cogliere le differenze ed i nessi che intercorrono tra la perversione manifestata tramite gli affetti ed una sottesa violenza psicologica e quella più propriamente fisica che si esprime tramite una sessualità insana ed irrispettosa, considerando la labilità dei confini che possono intercorrere tra una dimensione e l’altra e collocando la personalità perversa lungo un continuum che va da condotte più adattive ad espressioni prettamente patologiche. Una delucidazione esplicativa circa le sfumature della perversione ci è offerta da Nazare-Aga, la quale, ricollegandosi ad alcune teorie psicoanalitiche, riporta (2008, 18):
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il perverso narcisista;
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il perverso di carattere;
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il vero perverso.
Per quanto riguarda il primo, abbiamo visto come alcune forme di perversione trovano le sue radici nella manifestazione del Narcisismo. Rispetto a ciò, nel diniego dell’umanità, il narcisista perverso tesse la sua tela dentro l’animo del prossimo con fili sottili, insinuanti; essi sono fili apparenti perché fatti di parole e di azioni (Filippini, 2006, 254).
Il perverso di carattere trova le sue esplicazioni nelle teorie di Bergeret. Per l’autore la perversione del carattere è considerata la più alienante tra le varie manifestazioni patologiche in quanto è quella che arreca danni più gravi alla persona, rivelandosi principalmente come una patologia di natura relazionale. La perversione del carattere progredisce nel tentativo di rinnegare il narcisismo altrui al fine di tutelare quello proprio (Bergeret, 2002, 260-273).
Rispetto a ciò sembra che il perverso di carattere ricada in una sorta di sadismo morale. Ricollegandosi a Bergeret, Nazare-Aga attua (2008, 19) un’ulteriore opera di chiarimento circa le delineazioni di perversione narcisistica e “perversità” descritta dall’autore psicoanalitico, utilizzando in larga misura il concetto di manipolazione:
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il perverso di carattere è conflittuale e poco accettato dal suo gruppo in quanto si rifiuta di rispettare l’altro rispetto al manipolatore (perverso narcisista) il quale agisce in modo più discreto e tacito;
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il perverso di carattere è più intransigente mentre il manipolatore è in grado anche di suscitare compassione, apparendo come una vittima;
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il perverso di carattere è un aggressivo e ha delle reazioni violente ed esagerate in quanto pensa che tutto gli sia dovuto, mostra apertamente piacere nel prendersi gioco della sua vittima e dei suoi sentimenti.
Tale più approfondita delucidazione non individua due distinti quadri psicopatologici, ma implica diversi modi di pervertire la relazione e la realtà intorno a sé, modalità ed espressioni che si riconducono a forme manipolative più sistematiche rispetto ad altre che mirano chiaramente allo sfacelo dei rapporti umani tramite manifestazioni aggressive più intense. Altri importanti distinzioni riguardo tali definizioni sono riconducibili al pensiero di De Masi. La personalità cristallizzata nell’Io narcisistico fondamentalmente utilizza la violenza, l’odio e, dunque, l’aggressività per difendersi, per garantire la propria conservazione psico-fisica, per la sopravvivenza rispetto alle minacce che il narcisismo altrui arreca nel confronto con l’Io vulnerabile (De Masi, 181, 2012). Invece, le forme perverse agiscono tramite l’indifferenza emotiva. Ed è questo l’abisso che circoscrive questi due concetti. L’odio, pur presentando la sua ostilità, preclude un sentimento, un vissuto emotivo che è rivolto ad un qualcuno in relazione; l’indifferenza, invece, altro non è che un rifiuto di qualunque tipo di esperienza psichica, di fatti esistenziali. Un elemento preponderante nei meccanismi della perversione è l’utilizzo e l’impiego dell’intimità, in un’accezione svincolata dalla dimensione prettamente corporea. La perversione crea uno scenario fittizio, disilluso, in cui la condivisione di un momento, di un sentimento, di uno spazio emotivo diventa lo scempio strumento di un controllo manipolativo che il perverso tende a mantenere e a pretendere nell’incontro con l’altro, per evitare paradossalmente di entrare in contatto intimo con lui. Rispetto a ciò, l’autrice Chasseguet-Smirgel.sostiene (1987, 43-50) che il perverso vive illusoriamente nel tentativo di creare uno spazio psichico in cui eliminare quelli che sono i sentimenti di angoscia e di inadeguatezza dettati dalle differenze sostanziali riscontrabili nei rapporti umani; in quest’ottica ci si riconduce alla primissima relazione con la madre che ha portato alla nascita e al dilagarsi di un deficit narcisistico tale da rinnegare l’esame di realtà.
Il sentimento dell’amore ci porta a ridimensionare il nostro essere nella condivisione della nostra identità affettiva, apre le porte ad un progetto esistenziale condiviso. Per il narcisista tutto ciò rappresenta una minaccia alla propria integrità e l’odio, l’ostilità sono la defezione dal tormento degli affetti. L’odio si traduce in aggressività, l’aggressività in perversione. E sotto la spinta di un amore che coinvolga fin nel profondo, antichi fantasmi ricompaiono, immagini assestate si scompongono in inquietanti tensioni sepolte dal tempo, mentre si rivitalizzano spunti perversi sessuali dimenticati (Filippini, 2006, 282).
Alcuni volti della perversione relazionale
La perversione implica il pervertimento, la costruzione di un clima affettivo illuso, fittizio, ingannatore, che sovrasta qualsiasi logica razionale, quindi assume diverse delineazioni e forme, mira e bersaglia molte persone in diversi contesti. Data la complessità di tali manifestazioni, verranno prese in esame essenzialmente tre di esse, ognuna con proprie peculiarità ma allo stesso tempo affinità.
LA VIOLENZA PSICOLOGICA…
Nella delineazione della perversione relazionale si è colto il meccanismo operato dal narcisista del pervertire e dello stravolgimento della realtà e dei legami. Essa è una vera e propria violenza psicologica che dilaga nei contesti quotidiani. In uno studio condotto da Baumeister, Campbell e colleghi (2000, 26-28) sulla correlazione tra l’egoismo e l’aggressività, un gruppo di persone venivano sottoposte ad una serie di offese: quelle che rilevavano tratti narcisistici tendevano a rispondere con più aggressività rispetto ad altre. Con questo non si allude all’idea che i narcisisti siano indifferenziatamente aggressivi ma che sicuramente tali tratti di personalità costituiscono un fattore di rischio e contribuiscono ad aumentare la violenza e le risposte aggressive.
…nella coppia
Uno scenario molto comune è quello relativo alla violenza psicologica all’interno della coppia. La letteratura (Nazare-Aga, 2008; Filippini, 2005; Hirigoyen, 2006) si riconduce anche a casi di coppie omosessuali, ma dalle esperienze cliniche vittima e carnefice hanno una distinzione ben precisa di genere: infatti, solitamente il perverso narcisista è un uomo mentre, la sua vittima è una donna. Tale scelta non può essere ricondotta solo ed esclusivamente a distinzioni stereotipiche e culturali dell’uomo come “sesso forte” e la donna come “sesso debole” ma si rifà a peculiari e definite riflessioni. Effettivamente i casi clinici riportati dalle autrici suggeriscono un pubblico vittimizzato formato prevalentemente da donne, ma ciò non deve portare a sottovalutare la possibilità che anch’esse possano essere perverse narcisiste. Ponzio evidenzia (11, 2004) come la violenza domestica ci ponga di fronte ad una constatazione incontestabile, ossia l’asimmetria all’interno di una relazione di non-reciprocità; tale squilibrio non è dato solo dalle chiare differenze fisiche ma anche da fattori culturali, sociali e psicologici. Il background culturale e tradizionale ha investito l’uomo e la donna di rispettivi ruoli e poteri discostanti. Tale asimmetria si ricollega, inevitabilmente ad un altro tipo di vulnerabilità che è quella sociale (ibidem). Per quanto i movimenti femministi abbiano portato con sé le rivendicazioni delle pari opportunità ancora oggi vigono delle disuguaglianze e discriminazioni riscontrabili non solo nei rapporti sociali o negli ambienti lavorativi, ma anche negli stessi valori educativi trasmessi al genere femminile. Nelle donne vittime di violenza è semplice riscontrare come durante l’infanzia abbiano interiorizzato delle “qualità” femminili quali il sopportare, il saper tacere, l’abnegazione, la disponibilità totale e la responsabilità del buon andamento della relazione, che, di per sé, redimono già uno squilibrio relazionale (Ponzio, 2004, 14). Nonostante i grandi cambiamenti culturali, sociali che interessano il ruolo della donna all’interno della società, per molte, ancora, la femminilità consiste nell’essere avvenenti sul piano fisico, gradevoli, dolci e attente ai bisogni degli altri, tutti elementi che vengono manifestati tramite la dipendenza e la fragilità (Hirigoyen, 2006, 76).
Nonostante tutte queste considerazioni sicuramente importanti, risulta opportuno considerare la possibilità (fortemente dimostrata e sostenuta da alcuni studi) che la violenza possa anche essere perpetrata sugli uomini. È stata condotta, nel 2012, una ricerca da alcuni studiosi sulla violenza fisica, psicologica, sessuale sugli uomini. In modo quasi del tutto sorprendente dai dati rilevati emerge che ciascun partecipante a tale indagine (un campione italiano di 1.058 persone di sesso maschile dai 18 ai 70 anni) ha subito un tipo di violenza dalle donne (fisica, sessuale, economica, psicologica); altro aspetto rilevante che emerge dalle indagini operate (tramite gli stessi strumenti e scale impiegate nell’indagine ISTAT condotta nel 2006), è che quella più subita dagli uomini è proprio la violenza psicologica (Macrì et al., 2012, 34-38). Tale studio è la dimostrazione che la violenza, qualunque sfumatura o sembianza essa assumi, non preclude differenze di razza o genere ma si tramuta nell’universalità della sofferenza.
La violenza psicologica si articola su diversi assi comportamentali ed assume diverse forme, a volte difficili da cogliere. Esse possono essere: il controllo, l’isolamento, la gelosia patologica, la molestia assillante, le critiche avvilenti, le umiliazioni, le intimidazioni, l’indifferenza alle richieste affettive e le minacce (Hirigoyen, 2006, 23-37). Il controllo è letto in termini di intrusività e possessività, si estende dalle semplici abitudini quotidiane fino ai rapporti sociali e privati del partner. Vi è, poi, l’isolamento. Tale meccanismo consiste principalmente nell’impedimento del partner di qualunque contatto o vita sociale, o anche impiego lavorativo (ibidem). La gelosia patologica, invece, si presenta come sospetto continuo e sotto forma di infondate attribuzioni di intenzioni, è l’esasperazione del comportamento controllante. In tal senso le insicurezze interiori vengono proiettate sul partner in quanto si sospetta un’ipotetica perdita del controllo relazionale. Altro aspetto centrale è la molestia assillante: essa infatti, consiste nel ripetere continuamente all’altro una serie di messaggi. Essi , nello specifico, hanno contenuti verbali sempre offensivi, deleteri ed ostili, sono critiche avvilenti che portano allo sfinimento chi è preso di mira; infatti hanno come obiettivo centrale lo sfaldamento dell’autostima della persona, della sua importanza esistenziale. Dunque qui la violenza si traduce in atteggiamenti sarcastici, parole offensive, discorsi sprezzanti e osservazioni sgradevoli (Hirigoyen, 2006, 29). Ciò comporta un peso non indifferente nell’equilibrio psichico della persona. L’impiego di tale meccanismo sovversivo e manipolativo induce ad instillare nella persona il dubbio su di sé, sulla propria identità; il fatto stesso che tali critiche provengano dalla persona con cui si condivide un legame, la stessa persona che dice e sostiene di amarci, piega ancora di più l’individuo in uno svilimento lento e continuo. Tali denigrazioni sistematiche provocano un senso di vergogna e possono anche portare ad una frattura identitaria, in quanto mirano all’autostima della persona la quale finirà per interiorizzare il disprezzo e non si sentirà più degna di essere amata (Hirigoyen, 2006, 32).
Un altro aspetto centrale della violenza psichica è l’indifferenza che il partner mostra di fronte alle richieste affettive; esse, infatti, richiedono il riconoscimento della propria esistenza, dei propri bisogni emotivi e non. L’indifferenza significa rifiutarsi di parlare con l’altro, di uscire insieme, di accompagnarlo all’ospedale, di andare alle feste di famiglia (ibidem). Ultimo aspetto riscontrabile nella violenza psicologica è determinato dalle minacce; esse, altro non sono che l’anticipazione di un ipotetico colpo (suicidarsi, prendere a botte, ecc.), avvertimento che può danneggiare allo stesso modo del colpo vero per via dell’incertezza e della minaccia che suscita nella persona (Hirigoyen, 2006, 35).
Quando si vive un rapporto di coppia, si entra in contatto intimo con l’altro, vi è la condivisione di uno spazio emozionale, di aspettative, di progetti a lungo termine in cui si punta alla costruzione di certezze. Nei legami di coppia si conosce l’altro, si sanno le sue debolezze e, quindi, è più facile renderla vulnerabile; ma in un legame di coppia le debolezze non devono tramutarsi in un terreno fertile per battaglie psichiche e/o fisiche nell’annullamento reciproco, nell’avvilimento dei sentimenti e delle emozioni. Se ciò dovesse avvenire, bisogna, allora, rivalutare e chiedersi se il proprio legame amoroso si possa definire tale.
…nella famiglia
La violenza, il maltrattamento, le manifestazioni dell’odio e delle dinamiche perverse trovano radice fertile in un ambiente più esteso che vede protagonisti un numero più consistente di legami rispetto alla diade amorosa: essa è la famiglia.
.Miller sostiene (1989, 27-30), nelle teorizzazioni circa la cosiddetta “pedagogia nera” che l’esercizio del potere da parte dell’adulto sul bambino è quell’esercizio che più di ogni altro rimane celato ed impunito; in un bambino che si trovi nella situazione di essere manipolato in modo inconsapevole non si possono presentare sentimenti di collera e di sdegno ma, invece, sentimenti di paura, smarrimento.
Tornando alla violenza psicologica L’Office for the Study of the Psychological Rights of the Child nel 1985 (cit. in Brassard et. al., 1993, 23), in una rivisitazione di una precedente definizione di tale forma di violenza, ha evidenziato alcuni elementi fondamentali che determinano questa dimensione di maltrattamento:
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rifiutare, di riconoscere, di credere e di accogliere;
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umiliare, nel senso di discreditare o disprezzare;
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intimorire, ossia adoperare delle intimidazioni;
• isolare, allontanare il bambino da sé e/o dagli altri;
• corrompere, cioè favorire il disadattamento degli stessi bambini alle esigenze o usanze sociali;
• sfruttare nel senso di strumentalizzare;
• non riconoscere la sensibilità psicologica, ossia privare il bambino di quella cura attenta e responsabile necessaria per la promozione di un sano sviluppo socio-emotivo.
Per quanto nella delineazione di queste forme di abuso e nei profili genitoriali non ci sia un chiaro collegamento alla personalità propriamente perversa narcisistica, vediamo come possano essere riscontrabili numerosi meccanismi e modalità relazionali che sono tipiche di tale configurazione e fanno ricadere le stesse nella morfologia dell’abuso e della violenza psicologica.
Gli ambiti della violenza psicologica sono molteplici e si configurano sotto varie sfumature e denotazioni ed implicano una pluralità di scenari e processi. Essi possono assumere forme indirette e dirette: la violenza indiretta è frutto di un rapporto aggressivo tra i partner e che in modo trasversale si abbatte anche sui figli i quali prendono parte a tale scenario di ostilità, rabbia, disagio e condividono con il genitore la sofferenza legata a tale dinamica.
Ciascun bambino, poi, porta una parte di sofferenza con sé che riprodurrà altrove se non cerca un appianamento in se stesso (Hirigoyen, 2000, 35). A tal proposito, infatti, de Zulueta sostiene (2009, 253-254) che i bambini che sono stati sottoposti a maltrattamenti e abusi (nonché traumi psichici), tendono poi, loro stessi, a diventare promotori della violenza, tramite quel processo di identificazione con l’aggressore, ruolo che permette di conservare un certo controllo di fronte alle minacce e di esercitare una certa vendetta.
La violenza psicologica diretta, invece, prende forma tramite la trascuratezza ed il distacco emotivo ed affettivo che si fanno portavoce del diniego del bambino. Il genitore si giustifica spiegando che tale rifiuto altro non è che un’azione orientata al benessere del bambino, ha, quindi, una connotazione prettamente educativa, ma la verità è che quella presenza gli dà fastidio e costituisce una minaccia alla preservazione di se stesso (Hirigoyen, 2000, 41).
Ci rendiamo conto come tali maltrattamenti psicologici riversano le loro gravose conseguenze sui bambini, in via di crescita e di sviluppo, le quali possono assumere molteplici espressioni. Sicuramente si riconosce la gravità accentuata delle situazioni di trascuratezza emotiva che può non solo arrecare gravi danni medici, ma anche psicologici come l’annullamento delle potenzialità affettive oltre che il rischio di condotte violente ed autodistruttive (come per es. l’uso di droghe) (Brassard et al. 1993, 180).
…al lavoro
La violenza psicologica supera quelle che sono le cosiddette “mura domestiche” per estendere la sua ombra a contesti più generalizzati ma non per questo meno significativi per l’individuo, quali, per esempio quello lavorativo; condotte, comportamenti, gesti e parole che mirano alla degradazione psicofisica, spogliano l’impiego professionale del suo valore umano.
Tale fenomeno prende il nome di mobbing. Il fenomeno complesso del mobbing riguarda le relazioni nel mondo del lavoro e si esprime in un clima di violenza psichica e morale esercitata da una o più persone verso un singolo individuo; le vessazioni sono abituali o sistematiche e derivano da un’alterazione delle relazioni interpersonali e/o da una strategia dell’azienda o dell’organizzazione e tendono ad offendere la dignità personale e/o professionale della vittima, tendendo ad escluderla dal processo produttivo (Pastore, 2006, 15).
In merito a tale fenomeno, sono state individuate 5 categorie di condotta degli aggressori (Dominici, Montesarchio, 2003, 128):
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impedire alla vittima di esprimersi;
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isolare la vittima;
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provocare la disistima presso i colleghi e distruggere la sua reputazione;
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discreditare la vittima nel suo lavoro;
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compromettere la salute della vittima affidandogli incarichi gravosi o stressanti o pericolosi.
Tutte queste differenti espressioni della molestia e violenza psicologica hanno degli effetti devastanti su chi ne è assoggettato i quali, a lungo andare, si manifestano sotto forma di veri e propri danni psichici nonché quadri psicopatologici. Essi sono essenzialmente (Favretto, 2005, 68):
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problemi di ansia;
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disturbo da stress post-traumatico ;
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il disturbo dell’adattamento;
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alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico
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disturbi del comportamento;
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alterazioni dell’equilibrio sociale.
Risulta chiaro come gli aspetti rilevati dal mobbing indicano la presenza di un conflitto anche se non necessariamente esso comporta uno sfacelo grave e profondo delle relazioni umane. C’è da precisare che la molestia deriva sempre da un conflitto anche se non significa che ogni tipo di conflitto sfoci poi nell’abuso; ciò che determina il passaggio da un’ostilità alla molestia sono, in primis, la disumanizzazione dei rapporti di lavoro, l’onnipotenza dell’impresa, la tolleranza e la complicità che il perverso riesce ad innescare nel contesto lavorativo nella perpetrazione di un individuo (Hirigoyen, 2000, 92).
IL CINISMO
In uno studio condotto da Antes, Brown e colleghi si è analizzata (2007, 17) la correlazione tra il narcisismo, il cinismo e le scelte e decisioni etiche nelle professioni; nello specifico, mentre il narcisismo rappresenta un costrutto che rivela quella che è la percezione della propria immagine, il cinismo, invece, è di natura prettamente interpersonale, nel senso che rappresenta la percezione distorta che si matura nei confronti degli altri. Tale sensazione negativa tende a costruire, dunque, una visione inconsistente circa gli aspetti e le caratteristiche degli altri, la quale cela una sorta di scetticismo circa i comportamenti, le intenzioni e le motivazioni altrui.
Eiguer sostiene (1999, 672) che il cinismo rappresenta un aspetto che ricade nella perversione e che evidenzia la convinzione radicata del perverso che non vi sia bontà alcuna negli altri. Questo aspetto si ricollega al meccanismo, in termini psicodinamici, della proiezione dei propri aspetti maligni, e delle proprie parti cattive nell’oggetto, nell’altro. Il perverso narcisista, riconoscendo le proprie lacune e le proprie aree di vulnerabilità non può far altro che difendersi da esse tramite l’attribuzione del proprio stato interiore sull’altro, utilizza la propria esperienza come misura per costruire le immagini di quel mondo esterno, percepito, dunque, come minaccioso.
Rispetto a ciò quindi il fine, ossia quello di difendersi dall’altrui malevola intenzionalità, giustifica il mezzo, cioè le tendenze distruttive ed alienanti nei confronti dell’identità e degli aspetti positivi dell’altro. Tramite l’onnipotenza e la grandiosità che proviene dalla personalità narcisistica, il cinico riesce a persuadere e ad influenzare gli altri, inculcando in loro sentimenti o comportamenti che essi non vogliono provare come, per esempio, suscitando in loro sensi di colpa (Filippini, 2005, 35). Ed è proprio per questa sfumatura così sovversiva e manipolativa che le vittime di perversi narcisisti, nella convinzione di essere loro la causa di qualunque problema o conflitto relazionale, cominciano a nutrirsi di colpevolizzazioni.
IL GASLIGHTING
Un’altra forma di violenza psicologica che attualmente la criminologia sta approfondendo è quella del Gaslighting. Tale termine viene preso a prestito da un film chiamato Gaslight (la cui rivisitazione italiana si chiama Angoscia) in cui un marito tenta continuamente di manipolare sua moglie e per fare ciò tende a spegnere e a riaccendere le luci a gas della casa, facendole credere di essere pazza (Gass, Nichols, 1988, 5). Dunque dall’excursus di tale film emerge il fatto che tale fenomeno altro non è quel meccanismo sovversivo, da parte del partner, di indurre l’altro a credersi folle, a non affidarsi più alle proprie percezioni e al proprio sguardo sulla realtà, a sentirsi confuso. Questo comportamento mirato e sistematico si configura come un attacco alle certezze della persona, scalfisce, oltre che la reale percezione delle cose e delle situazioni, la sua identità, la fiducia che ripone nello sguardo tangibile al susseguirsi degli eventi di coppia. Tale meccanismo manipolatorio può assumere diverse connotazioni. Principalmente si individuano 3 tipi di gaslighter:
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Il manipolatore bravo ragazzo: si presenta premuroso e attento nei confronti della sua vittima ma, in modo più o meno inconsapevole, lo fa solo per arrivare al perseguimento dei propri bisogni;
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il manipolatore affascinante che utilizza tutti i suoi strumenti seduttivi per condizionare ed imporre la sua figura sulla vittima;
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l’intimidatore che presenta comportamenti apertamente ostili e aggressivi (Stern, 2009, 27-36).
Gass e Nichols, nell’approccio al gaslighting in quanto sindrome coniugale legata al tradimento e alle menzogne derivate da esso da parte di un marito nei confronti della moglie evidenziano (1988, 7-9) alcune reazioni che le donne possono avere nei confronti del sovvertimento e dello stato di confusione provocato dai loro partner e dai loro tentativi di mascherare le loro relazioni extraconiugali; esse sono fondamentalmente:
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il rifiuto; esso rappresenta la prima reazione al sospetto di una relazione extraconiugale del marito. Il rifiuto si tramuta nella tendenza, da parte della vittima, di negare quelli che sono i meccanismi manipolatori del partner, di precludere un cambiamento ed un declino nel proprio rapporto affettivo.
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La sensazione di star perdendo la propria testa: i molteplici e reiterati dubbi innescati dal gaslighter conducono la moglie a pensare “se lui non è pazzo, forse lo sono io” e a condurla ad un duplice bivio tra la sensazione di essere paranoici e l’idea di star perdendo il rapporto con il proprio marito (ibidem).
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Il dolore: quando comincia ad insinuarsi sempre di più l’idea di un presunto tradimento da parte del marito, la donna cade in uno stato di dolore, rabbia disperazione, senso di colpa; ma il lutto non può essere elaborato se il partner continua a negare e ad innescare insicurezza circa la presunta pazzia (Gass, Nichols, 1998, 8).
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Le razionalizzazioni maschili: oltre alla dissimulazione della realtà e ai tentativi di sovvertire ed inculcare la convinzione della pazzia, i gaslighter tendono a dare delle spiegazioni ai propri comportamenti tramite meccanismi colpevolizzanti nei confronti della vittima o spiegazioni come per esempio “Ti stai immaginando le cose solo per coprire te stessa” o, ancor peggio “Sei così fredda a letto che qualunque uomo vorrebbe un’altra” (ibidem). Ora, questi esempi si rifanno sempre alla sfera del tradimento ma indicano comunque la tendenza da parte del narcisista perverso a riversare le colpe sull’altro, deresponsabilizzandosi completamente delle proprie azioni e condotte sovversive e manipolative in quanto è l’altro che, con i suoi comportamenti, lo ha portato a tutto ciò.
Facendoci aiutare dalla metafora del film a cui si è ispirato l’analisi di tale fenomeno coniugale, l’accensione e lo spegnimento continuo delle luci a gas altro non sono che il perpetuo e persistente vacillamento delle certezze e delle sicurezze che l’individuo perpetrato erige rispetto alla propria relazione affettiva, alle proprie facoltà mentali e, soprattutto, rispetto alla propria integrità e stima di sé. D’altronde, eticamente parlando, nessuno ha il diritto di credersi migliore sminuendo l’altro e facendolo sentire inadatto (ibidem).
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