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“V” per Volontariato: un processo di formazione attraverso la prosocialità Marco Diella

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Il volontariato in Europa, come negli USA, è un’attività sempre più rilevante sia dal punto di vista sociale, che politico. Capire le ragioni di questo significativo fenomeno sta acquistando sempre più importanza nell’ambito delle scienze sociali, il che spiega il nascere di importanti studi in merito negli ultimi 60 anni. Per questo si ritiene importante fornire una panoramica generale del fenomeno, letto nell’ottica della relazione d’aiuto, senza tralasciare le caratteristiche salienti. Degno di nota anche sottolineare l’importanza del processo formativo soggiacente al volontariato, affinché questo possa trasformarsi, per chi lo mette in atto, in una esperienza di crescita personale. Durante l’elaborazione di questo scritto mi sono chiesto dove il volontariato potesse essere collocato all’interno delle scienze sociali. Dopo adeguate ricerche, ho provato ad unire la letteratura sull’argomento con un intuizione confermata attraverso gli studi fatti e l’esperienza personale in questo campo. Prima di giungere alla risposta sembra utile approfondire come la psicologia sociale consideri e collochi i vari comportamenti di aiuto: la relazione di aiuto, il comportamento prosociale e l’altruismo.
Sebbene la relazione di aiuto, prosocialità e altruismo sembrino termini psico – sociali differenti usati per spiegare uno stesso costrutto, è utile soffermarsi su come queste complesse dimensioni siano connesse pur essendo differenti tra loro.
La relazione di aiuto è il termine più generale, invece l’altruismo è molto più ristretto. La prosocialità si inserisce all’interno della relazione di aiuto e ingloba a sua volta l’altruismo (Schwartz, Howard, 1981). All’interno di questo articolo, affinché possa risultare chiara la trattazione sull’argomento, verrà attribuito e approfondito ciascun termine con la sua accezione scientifica per poi passare al fenomeno del volontariato.

La relazione di aiuto
Robert R. Carkhuff (noto per essere stato il primo a tentare l’elaborazione di un modello operativo sull’intervento di aiuto orientato a promuovere e facilitare la consapevolezza del cliente), definisce la relazione di aiuto come «un processo mediante il quale la persona che viene aiutata acquisirà dei nuovi comportamenti […] chi offre aiuto (helper) ha la responsabilità di favorire nell’altro questo sviluppo» (Carkhuff, 1988). Per relazione di aiuto, anche detta helping relationship si intende, quindi, un legame che si instaura tra una persona disponibile e capace di dare aiuto (helper) e un’altra che ha bisogno di riceverlo (helpee). L’aiuto può essere considerato una vera e propria forza motrice dell’evoluzione umana. Aiutare è una capacità che ci è stata donata nel corso di diversi millenni di evoluzione e che ha portato l’uomo, nel tempo, a creare vere e proprie industrie societarie in cui l’aiuto stesso fosse un mezzo silenzioso di leva e di coesione. «Chi riesce ad aiutare non sa generalmente perché è efficace, che cosa succede in lui che lo fa tale […] Si riceverebbero solo risposte vaghe, risposte molto meno efficaci del loro agire» (Carkhuff, 1988). Aiutare non è solo una predisposizione innata che le persone possiedono, in maniera più o meno appropriata; l’aiuto può essere considerato come una vera e propria arte, la cui pratica può accrescere qualora vengano rafforzate capacità come il saper ascoltare, fare uso di empatia e rispondere in maniera adeguata secondo le richieste e i bisogni.

Il comportamento prosociale
Il termine prosociale viene coniato da Wispè nel 1972, nasce dalla contrapposizione al comportamento antisociale. E’ un comportamento volontario volto a produrre benefici in un’altra persona o in un gruppo. Tale atteggiamento è caratterizzato da motivazioni non sempre note o specificate che possono essere di natura altruistica, egoistica o entrambe (Marta – Scabini, 2003, 19). In altre parole, il comportamento prosociale è la «tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri» (Caprara, Bonino, 2006, 10).
Prima di continuare con l’argomento ci tengo ad approfondire una tematica molto particolare quanto interessante: grazie alla psicologia sociale, e anche al senso comune, sappiamo del perché le persone scelgano di aiutare. Le teorie di orientamento comportamentista, affermano che i comportamenti vengono appresi osservando e imitando le condotte altrui oppure, sempre nello stesso ambito, Bandura afferma che l’azione prosociale, se ripetuta nel tempo, diventa auto – ricompensante in quanto il soggetto, ogni volta che aiuta, si sente ricompensato per averla compiuta, indipendentemente dalla presenza di ricompense dirette o dall’approvazione sociale; Altre teorie spiegano come le persone che hanno ricevuto più di quanto si fossero aspettate, aggirerebbero in maniera prosociale donando (Mikula, 1980). Altre ancora spiegano come le persone trovino insopportabile l’idea che altre persone possano soffrire e preferiscono agire per alleviare le sofferenze altrui piuttosto che rimanere turbati (Batson, 1998) o come le persone agiscano in maniera prosociale per incrementare o recuperare la propria autostima (Brown, Smart, 1991).
Ma qual è la ragione che spinge le persone a diventare spettatori e decidere di non intervenire in situazioni di emergenza nonostante la necessità di un intervento?
Il 13 marzo del 1964, in un sobborgo di New York, nel mezzo della notte, una ragazza di circa 29 anni viene massacrata e uccisa per strada da un malintenzionato sotto gli occhi di 38 cittadini, testimoni inermi di tale atto di violenza, durato circa 30 minuti tra le grida e le richieste di aiuto della vittima. Del “caso Genovese”, mediaticamente se ne parlò a lungo, cercando di capire quale fosse il motivo per cui nessuno avesse deciso di intervenire o chiamare per tempo i soccorsi (Rosenthal, 2015). Se da una parte l’uomo decide di mettere in atto dei comportamenti prosociali che lo portano ad aiutare chi è in difficoltà, da un’altra può assumere atteggiamenti antisociali trasformandosi in un inerte spettatore. Latané e Darley affermano che colui che aiuta oggi, domani potrebbe essere lo spettatore passivo, indipendentemente dalla situazione sociale (Lis, Stella, Zavattini, 1999). Ma qual è la motivazione che spinge le persone a diventare degli spettatori e chi è lo spettatore?
Lo spettatore in psicologia sociale è colui che, anche se può intervenire in una determinata situazione di emergenza, non si lascia coinvolgere attivamente. Contrario allo spettatore passivo è quello attivo che assume il ruolo di soccorritore (Zamperini, 2000, 21). Secondo gli studiosi lo spettatore decide di non intervenire perché può andare incontro a tre tipi di inibizione (Lis, Stella, Zavattini, 1999):
Diffusione della responsabilità: un individuo in un momento di emergenza si trova in presenza di altre persone per cui percepisce la responsabilità come diminuita. Questo riduce la motivazione ad agire in maniera prosociale.
Il modello implicito del “non è successo niente”: nel momento di emergenza la persona non sa come rispondere ed esita nell’agire banalizzando la situazione, tutte le persone presenti diventano modelli di passività per gli altri.
La paura dell’imbarazzo: la presenza di altri spettatori in situazioni di emergenza incute a volte imbarazzo e disagio. L’imbarazzo sta nell’interpretare in maniera scorretta la situazione più grave di quanto possa sembrare o di non avere le capacità di far fronte alla situazione.

Altruismo
Il termine altruismo risale al 1851, nasce in contrapposizione all’egoismo grazie al filosofo francese Auguste Comte. Tale comportamento viene studiato molto al giorno d’oggi in maniera particolare nell’ambito della sociobiologia e della psicologia sociale. L’altruismo viene associato a un comportamento volontario messo in atto per beneficiare o migliorare la situazione di un’altra persona senza prevedere ricompense esterne. Un comportamento altruistico, per essere definito tale, deve: 1) innanzi tutto beneficiare un’altra persona; 2) essere svolto volontariamente; 3) essere svolto intenzionalmente; 4) essere privo di aspettative riguardo a delle ricompense esterne (Cattarinussi, 1994).

Il volontariato nelle scienze sociali
Ma cos’è il volontariato? Come è nato questo fenomeno? Chi sono coloro che operano e che scelgono ogni giorno di mettersi in gioco? In tutti i paesi del mondo si registra un aumento, o una tenuta, della percentuale di persone impegnate nella comunità di appartenenza che, attraverso azioni libere e solidali di volontariato, contribuiscono non solo ad offrire servizi sociali utili, ma anche a ridare forza ai legami sociali, a consolidare le basi per la costruzione di una cultura, della solidarietà, della responsabilità e dalla giustizia e cittadinanza (Marta, Pozzi, 2007).
Il volontariato è un fenomeno studiato dalle scienze sociali che, negli ultimi cinquant’anni, sta acquisendo sempre più importanza; per questo motivo molti studiosi si vedono coinvolti nello studio di un fenomeno tanto importante, quanto recente. Nonostante l’interesse coltivato, è difficile trovare una definizione chiara ed univoca di questa attività (Tavazza, 1990; Amerio 2000; Snyder e Omoto, 2000 cit. in Marta – Scabini, 2003). In uno studio condotto da Cnaan, Handy e Wadsworth è stato possibile rilevare come, in quasi tutti gli studi sul volontariato, mancasse un’esplicita definizione del concetto stesso. Con ciò sembrerebbe che un fenomeno, solo perché socialmente consolidato, non debba essere descritto compiutamente. Partendo da una rilevazione di circa 300 articoli scritti sull’argomento, all’interno dell’analisi del contenuto di undici delle definizioni più comuni in lingua inglese, i suddetti autori hanno identificato quattro fattori che caratterizzano questo fenomeno: il grado di libertà nella scelta dell’atto; la natura della sua ricompensa per il beneficio conseguito; il contesto in cui esso avviene; il suo beneficiario. Il volontariato, comunemente inteso, quindi, sarebbe caratterizzato dalla spontaneità, dalla gratuità, dal contesto organizzativo formale entro il quale si colloca e dall’orientamento solidaristico verso un beneficiario estraneo. (Cnaan et al; 1966).
Il termine volontariato, oggi, in Italia, particolarmente dopo l’emanazione della “Legge quadro” dell’11/08/1991 n°266 (GU n. 196/1991), indica le varie organizzazioni di volontariato che operano in una molteplicità di campi di intervento. Tale legge recita: «per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo, gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà» (art. 2.1). Rispetto ai comportamenti di aiuto spontanei ed occasionali, il volontariato non si pone come un comportamento reattivo ma proattivo e, la maggior parte delle volte, implica una relazione face to face con le altre persone. Il volontariato, se da un lato può essere considerato come un vero e proprio lavoro, in quanto richiedente lo svolgimento di compiti finalizzati a fornire aiuto a terzi, dall’altro è un’attività che va svolta nel proprio tempo libero, che si sceglie di svolgere liberamente e dalla quale non è esclusa una certa, personale gratificazione (Colozzi – Bassi, 1995). Secondo Tavazza, il volontariato è un «libero impegno di solidarietà sociale, azione totalmente gratuita, è l’agire del cittadino che ispira la sua vita ai fini della solidarietà che si pone a disposizione della comunità promuovendo una risposta ai bisogni emergenti del territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati e in generale per tutti i soggetti deboli» (cit. in Caritas italiana, 2000).
Nel contesto italiano, il volontariato è strettamente collegato al concetto di solidarietà: entrambi i termini, presentano un’interfaccia tra il sociale e l’individuale (Marta, Scabini, 2003).
Il termine solidarietà, sebbene di recente introduzione, esprime un concetto risalente alle prime riflessioni teoriche sulla società. La sociologia individua e distingue due tipi di solidarietà: «la prima è originata da una profonda omogeneità fra i soggetti e porta ciascuno ad agire primariamente in funzione delle esigenze altrui; la seconda, invece, trova la propria ragione nella differenziazione e complementarietà esistente tra le persone e spinge il singolo a realizzare il proprio obiettivo contribuendo al raggiungimento dell’obiettivo comune» (Sarpellon, 1993). Il significato che identifica il termine ‘solidale’, permette di assicurare a ciascun individuo la possibilità di attuare le proprie opportunità in stretta collaborazione con gli altri. Bisogna prestare attenzione ad usare questo termine, esso non va confuso con l’assistenzialismo, ma richiede che ogni persona, anche l’emarginato, diventi protagonista dell’avvenire proprio e collettivo (Prellezo et al; 2008).

Cenni storici sul volontariato
Approfondire le radici del disagio è un processo che ha caratterizzato lo sviluppo storico del volontariato in Italia. Dal dopoguerra ad oggi, il volontariato è stato caratterizzato da diversi cambiamenti: se negli anni della ricostruzione post-bellica si parlava di un volontariato di necessità e di primo intervento, in cui venivano distribuiti beni per le strade dagli alleati e dai volontari italiani, nel tempo, il volontariato si è trasformato in un fenomeno progettuale, organizzato e riconosciuto dalle istituzioni (Fondazione Italiana per il Volontariato, 1995).
Nel primo dopoguerra si assiste alla nascita della Pontificia Opera di Assistenza e alla formazione delle istituzioni diocesane per l’assistenza. Nel frattempo, un fondamentale contributo alla ricostruzione del paese viene offerto dall’imponente ‘così detto’ piano Marshall. Nel 1950 le associazioni di volontariato iniziano ad essere riorganizzate in direzione della beneficenza, assistenza e soccorso. Il volontariato per la prima volta inizia ad essere concepito come un dono per chi non ha. Negli anni ‘60 viene annunciata la dichiarazione dei diritti del bambino e, nell’anno seguente, si assiste al così detto Boom economico italiano che dà l’inizio a una ripresa economica e sociale autonoma. Tra gli eventi di maggiore rilevanza, dobbiamo ricordare il Concilio Vaticano II, indetto da Giovanni XXIII nel 1964, e il movimento di contestazione del Sessantotto. I cambiamenti che seguono questi eventi daranno vita a nuove forme di fare volontariato che assumeranno configurazioni e fisionomie proprie.
Il 1970 vedrà un significativo sviluppo del volontariato in Italia che si diffonderà in maniera capillare nel paese mantenendo una dinamica positiva per tutto il decennio (Fondazione italiana per il Volontariato, 1997). In questo periodo nasce l’impegno per la rimozione delle cause che creano disagio con una serie di interventi a livello istituzionale, mediante nuove leggi sociali; l’inizio di una cultura dell’aiuto – aiuto; l’impegno per la promozione sociale per ovviare a carenze locali e territoriali. Il volontario viene definito sulla base della costituzione di organizzazioni nuove e autonome, dalle istituzioni politiche e religiose e dal documento pubblicato dalla Caritas nel 1975. Il sostegno all’azione solidale, per essere efficace, deve essere associato e accompagnato da azioni politiche: non basta l’agire generoso e la dimensione caritatevole ma occorre una motivazione politica e un agire legato alla giustizia collettiva che porti a rimuovere o a ridurre le situazioni di disagio e di emarginazione (Tavazza cit. in Berti, 2004). Nel 1980 si assiste ad un incremento della partecipazione dei cittadini. Viene organizzato il primo convengo nazionale sul volontariato a Viareggio; l’Università di Bologna e l’Università Cattolica di Milano conducono una ricerca sul volontariato in Italia e nasce la collana Volontari perché. Negli anni successivi assistiamo ad un ulteriore consolidamento del volontariato e allo sviluppo di atteggiamenti critico – costruttivi verso le istituzioni pubbliche. Di notevole importanza era la crescita della consapevolezza del ruolo politico del volontariato, per un cambiamento decisivo delle politiche sociali e la scoperta del fattore specificità culturale e locale dell’impegno del volontario.
Nel 1991 viene emanata la legge quadro del volontariato, che sancisce l’avvenuta trasformazione del volontariato italiano in soggetto organizzato a cui è possibile affidare rilevanti responsabilità pubbliche (Fondazione italiana per il Volontariato, 1997); la nascita della conferenza dei presidenti dei principali organismi nazionali del volontariato e viene indetto il primo censimento delle organizzazioni di volontariato. In questa nuova fase, i destinatari dell’azione di volontariato diventano soggetti, oltre che oggetti dell’azione solidale, in quanto coinvolti in prima persona. Nel 2000 viene consolidata l’integrazione operativa e programmatica fra il volontariato ed altre realtà del terzo settore come enti, servizi pubblici e privati del territorio. La povertà viene riletta insieme all’emarginazione alla luce della categoria dell’esclusione sociale (Caritas italiana, 2000).

Dati sul volontariato
Secondo i risultati relativi ai numeri del volontariato, rilevati nel 2013 dalla convenzione tra Istat, CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, circa un italiano su otto svolge attività gratuite a beneficio del prossimo o della comunità. In tutto, in Italia, il numero dei volontari stimato è all’incirca di 6,63 milioni di persone. Circa 4,14 milioni di cittadini svolgono attività in un gruppo o in un’organizzazione e 3 milioni circa si impegnano in maniera non organizzata. L’attività del volontariato è più diffusa al nord, specialmente nord – est del Paese, con un tasso che arriva al 16%; nel Mezzogiorno, invece, la partecipazione è molto più bassa e totalizza 8,6% (Cappadozzi – Michelini, 2014). Le organizzazioni di volontariato sociale, che operano nel nostro Paese, sono più di 10.000. Circa la metà ha avuto origine grazie all’azione del mondo cattolico o religioso non cattolico; la restante parte su iniziativa del mondo laico.
All’interno della realtà del volontariato italiano sono presenti organizzazioni diversificate, dalle piccole associazioni presso comuni, ospedali e altri enti, fino alle grandi istituzioni con strutture organizzative complesse. Le organizzazioni composte da soli volontari sono in diminuzione, mentre aumentano quelle dotate di personale stipendiato. Spesso le piccole associazioni sono composte da familiari di persone che hanno subìto un incidente o affetti da particolari patologie, e assumono il profilo di gruppo di mutuo – aiuto (Barbara Dardi cit. in Vitale, 2004).
Il volontariato, dagli anni ’90, si è sviluppato all’interno di un movimento più vasto di partecipazione e di solidarietà sociale che è stato definito privato sociale. Il privato sociale comprende quattro grandi filoni con caratteristiche sostanzialmente diverse ma che si integrano tra loro, a partire da una base comune di valori (Tavazza, 1990):
associazioni di volontariato propriamente dette. Sono caratterizzate dalla gratuità e dalla finalità di esercitare servizio all’estero e prevalentemente il focus è posto ai vari settori dell’emarginazione;
istituzioni private non a scopo di lucro che gestiscono dei servizi e che vengono sempre collocate sotto un articolo diverso da quello del volontariato;
nuove associazioni costituite come soggetto giuridico per gestire dei servizi o sotto forma di associazioni di fatto o sotto forma di cooperative;
associazionismo che ha la finalità prevalentemente rivolta ai propri membri o per una loro specifica tutela o per la loro crescita culturale, ricreativa e fisica.

Volotariato e modelli interpretativi
I modelli interpretativi sul volontariato sono dei sistemi teorici interessati a individuare la motivazione sottesa all’agire dei volontari ed hanno cominciato ad avere una certa rilevanza sociale negli ultimi anni. All’interno della letteratura del volontariato troviamo due importanti modelli di partenza, risalenti alla cosiddetta prima generazione: il Volunteer Process Model di Omoto e Snyder (1995), che spiega l’agire del volontario sulla base di variabili disposizionali e il Role Identity Model of Volunteerism di Piliavin e Callero (1987), che spiega il volontariato partendo da alcune variabili situazionali.
I modelli appartenenti alla seconda generazione sono il modello Penner (2002), che cerca di integrare le variabili disposizionali e situazionali dei precedenti modelli, il volontariato proposto da Davis (2005), quello secondo Marta e Pozzi (2007) e il modello a tre stadi di Chacòn, Vecina e Dàvila (2006).
Ogni modello ha contribuito, grazie alle proprie teorizzazioni, a spiegare il fenomeno del volontariato all’interno di un contesto culturale in riferimento ad uno specifico volontariato. Al di là del proprio campo di interesse, queste teorizzazioni pongono le basi per una riflessione guidata su quattro macrocategorie come la personalità prosociale, motivazioni, identità, cultura e contesto organizzativo, che sono cruciali per la comprensione del fenomeno del volontariato (Marta, Pozzi, 2007).

L’apporto delle neuroscienze al volontariato
Secondo un articolo pubblicato da BMC Public Health (Jekinson, 2013), praticare attività di volontariato migliorerebbe la salute mentale e allungherebbe la vita. Gli studi hanno dimostrato che i volontari che aiutano le persone e che donano il proprio tempo si sentirebbero socialmente connessi, allontanando così il rischio della solitudine e della depressione.
Ciò che sorprende, analizzando gli studi sopra riportati, è che le persone, oltre a ricavare questi benefici, potrebbero anche essere ricompensate con una migliore salute fisica, beneficiando di una pressione sanguigna più bassa e con una conseguente potenziale aspettativa di vita più lunga.
La prova sugli effetti benefici del volontariato, può essere fatta risalire ad un recente studio, condotto dalla Carnegie Mellon University, pubblicato sulla rivista Psicologia e invecchiamento nel giugno del 2013. Lo studio delinea che gli adulti sopra i 50 anni con un impegno regolare solidale hanno meno probabilità di sviluppare alta pressione sanguigna rispetto ai non-volontari (l’ipertensione arteriosa è un importante indicatore della salute, essa infatti causa malattie cardiache, ictus, e morte prematura).
Come con qualsiasi attività pensata per migliorare la salute, i ricercatori stanno cercando di individuare le caratteristiche specifiche di volontariato che forniscono il massimo beneficio. Ad esempio, quanto tempo deve donarsi una persona prima di abbassare la pressione sanguigna o ricevere benefici per vivere più a lungo? Sempre secondo lo studio della Carnegie Mellon University diretto da Rodlescia S. Sneed, i soggetti coinvolti erano circa 1.164 adulti di età compresa tra 51 e 91 anni, sono stati intervistati due volte, nel 2006 e nel 2010, con livelli normali di pressione arteriosa al primo colloquio. I risultati hanno mostrato che il 40% di coloro che hanno fatto almeno 200 ore di volontariato all’anno dopo il 2006 non presentavano fenomeni di ipertensione rispetto a coloro che non avevano fatto volontariato. Il tipo specifico di attività di volontariato non è stato un fattore rilevante, solo la quantità di tempo trascorso ha portato a una maggiore protezione da ipertensione. Secondo la studiosa, dato che soprattutto le persone anziane subiscono transizioni sociali come il pensionamento, il lutto e la partenza dei figli da casa, spesso sono lasciate con minori opportunità di partecipazione alle attività sociali. Il volontariato può offrire connessioni collettive che non potrebbero avere altrimenti. C’è una forte evidenza che avere buone connessioni sociali promuove un sano invecchiamento e riduce il rischio per una serie di esiti negativi per la salute (Carnegie Mellon University, 2013, 425).
L’ipertensione colpisce circa 65 milioni di americani ed è uno dei principali responsabili delle malattie cardiovascolari e la prima causa di morte negli Stati Uniti. Secondo gli studi di Sneed non si può capire con certezza quali tipi di attività di volontariato abbiano un’importanza maggiore rispetto ad altri ma si può ipotizzare che le attività che impegnano mentalmente, come l’insegnamento o la lettura, potrebbero essere utili per il mantenimento della memoria e della capacità di pensiero, mentre altre attività che promuovono l’attività fisica sarebbero importanti per la prevenzione e la cura della salute cardiovascolare (Stephanie Watson, 2013).
Alla luce di quanto fin qui detto sulla relazione tra i comportamenti di aiuto, ora sappiamo dove inserire il volontariato.
Nell’insieme più grande rappresentato dalla relazione di aiuto troviamo la prosocialità che a sua volta contiene l’altruismo. Secondo delle riflessioni personali, alla luce degli studi affrontati, il volontariato ho pensato di poterlo inserire all’interno dell’ultimo “cerchio”. Ha la forma di un triangolo, in quanto possono essere presi in considerazione tre fattori: 1) disposizionali, 2) relazioni familiari primarie e 3) fattori ambientali. E’ un triangolo equilatero, tutti e tre i lati sono uguali e tutti e tre sono di rilevante importanza. Il triangolo deve girare in quanto non ci deve essere un fattore che sia preponderante rispetto agli altri. Il volontario ha la possibilità di alimentarlo, attraverso un processo di consapevolezza ottenuta grazie alla formazione, e farlo girare; è un motore che si alimenta tramite le sue tre dimensioni. Il triangolo/volontariato è garantito dal funzionamento dei cerchi/funzione che lo attorniano. Qualora il triangolo si fermasse su un punto, il volontariato assumerebbe un carattere estrinseco e poco autentico.

Voltariato come processo di crescita
Per le persone, impegnate all’interno del volontariato, è fondamentale acquisire consapevolezza su quanto sia importante coltivare la propria formazione e quanto quest’ultima potrà essere messa a servizio del prossimo.

I bisogni formativi del volontario
Il termine formazione ha avuto molti usi ed ancora oggi la si può intendere in molti sensi. Nel linguaggio pedagogico la parola formazione è sinonimo di educazione, apprendimento. Secondo il Dizionario di Scienze dell’Educazione, la formazione, intesa come processo integrativo dello sviluppo personale, «è un processo in cui la persona umana porta a maturazione le proprie potenzialità soggettive, apprende ciò di cui è carente, consolida le proprie capacità, si abilita a vivere la vita personale e relazionale» (Prellezzo et al, 2008). La formazione al volontariato è un processo fondamentale che traccia il profilo del volontario e che lo accompagna nel cammino segnato dalla consapevolezza e dal libero agire solidale. La persona quando si impegna nelle varie attività di volontariato, al di là dello specifico settore in cui l’intervento viene rivolto, deve avere una buona conoscenza della realtà in cui opera e delle competenze utili per far sì che si possano acquisire le abilità utili per relazionarsi e operare in maniera efficace sia all’interno del gruppo di volontari di cui si fa parte sia in contatto con i destinatari dell’intervento. Soprattutto tra i giovani volontari la formazione e l’educazione all’agire solidale non deve semplicemente essere un sistema di nozioni al fine di “istruire” il volontario. Baden Powell, creatore del movimento dello scoutismo, agli inizi del ‘900 già propone una visione innovativa ancor oggi condivisibile: «il segreto di ogni sana educazione è di far sì che ogni allievo impari da sé, invece di istruirlo convogliando dentro di lui una serie di nozioni base ad un sistema stereotipato. Il metodo è quello di condurre il ragazzo ad affrontare l’obiettivo di fondo della sua formazione, senza annoiarlo con troppi particolari» (Powell, Headquartes Gazette, 1914).
La consapevolezza dell’importanza della formazione è uno dei nodi fondamentali che dovrebbe essere acquisita da chi pratica attività di volontariato, questa ha importanti ripercussioni non solo su se stessi ma anche sugli altri. Proprio per questo motivo i gruppi di volontariato, una volta strutturati, si pongono immediatamente il problema di come darsi una completa e necessaria preparazione (Longobardi, 1996).
La formazione funge da supporto in-formativo e offre la possibilità di comprendere il proprio ruolo e le proprie competenze. Formarsi diventa un modo per potenziare il proprio intervento e permette di riflettere sulle proprie motivazioni e inclinazioni e su ciò che si vuole per il proprio futuro. Più il servizio sarà accompagnato dalla formazione e più risulterà efficace (Arcidiacono, 2004).
Essere ed agire come volontari non significa solo avere buona volontà, tempo, senso dell’altro e della giustizia; significa soprattutto essere consapevoli della risonanza della propria azione che può assumere nel rapporto con l’altro, all’interno della società e delle sue scelte (Rocchi, 1993).
Bramante nel 1996 afferma che la necessità della formazione è duplice, se da un lato è sostenuta ed orientata dal lavoro specifico che si deve svolgere, dall’altro la formazione è un’occasione di crescita per il volontario specialmente per quanto riguarda le motivazioni all’azione, il rinforzo dell’orientamento solidaristico, il senso di responsabilità e la conoscenza di sé (Bramante, 1996).
Sempre più spesso nei gruppo di volontariato c’è un momento nel quale si ha bisogno di attivare dei processi formativi. Questo bisogno, talvolta, non ha un inizio chiaro, viene deciso e basta, in molti altri casi, invece, questa necessità nasce da un’esigenza del gruppo o dalla richiesta di singole persone (Busnelli, 1995). Il processo di formazione alla pratica del volontariato comincia dalla definizione degli obiettivi: il risultato atteso, il cambiamento controllabile che la formazione si impegna a produrre. L’obiettivo per essere efficace è fondamentale che sia espresso in comportamenti e in fatti osservabili. La definizione degli obiettivi è perciò fondamentale e condizionante, obbliga ad esprimere in modo concreto il cammino da fare (Facchinetti, Natella, 2007). La formazione al volontariato, soprattutto quella del giovane, è dettata da una duplice necessità che mira a raggiungere la completezza del giovane.
La formazione dei volontari non si limita ad un momento unico, ma si scioglie articolandosi in maniera tale da permettere il raggiungimento di tre importanti livelli conoscitivi che sono: il “sapere” (ad esempio la teoria), il “saper fare” (le tecniche e le abilità) il “saper essere” (come le motivazioni, gli atteggiamenti e i valori) (Mastromarino, 2013).
La formazione così intesa, attraverso i tre livelli conoscitivi, è una trasmissione di un sapere che, nella prima fase, privilegia la presa di coscienza e una riflessione su eventuali problemi che possono sorgere sulla realtà su cui si andrà ad operare. Nella seconda fase si passa dalla teoria alla pratica e quindi la fase viene rappresentata da una sorta di “tirocinio” nel quale i volontari si mettono alla prova con il saper fare. Il momento della supervisione, che rappresenta un processo di formazione continua e valutazione del saper essere, permette ai volontari, soprattutto quelli più giovani, di entrare in contatto con i vissuti, le emozioni e i sentimenti che vengono suscitati e scaturiti dalla relazione di aiuto.
Il saper essere è la chiave di volta che risiede nel passaggio tra l’apprendimento e il cambiamento all’interno del processo formativo che rappresenta la cultura del cambiamento profondo. Dall’apprendimento al cambiamento avviene questo passaggio nella formazione del volontario: lo coinvolge in prima persona in un processo di crescita che comprende tutti e tre i livelli conoscitivi (Rocchi, 1993). Il processo formativo può essere sintetizzato in questo modo (Ibidem):
conoscenza della realtà specifica in cui si deve operare e capacità di collocare il proprio intervento in una politica sociale più ampia;
conoscenza e sistematizzazione delle acquisizioni ed elaborazioni concettuali e culturali di una formazione base;
acquisizione di competenze e tecniche specifiche e polivalenti;
individuazione e analisi delle proprie motivazioni, potenzialità e risorse.
Agire come volontari permette di innescare un potenziale formativo ed autoformativo forte, in quanto richiede e consente lo sviluppo di un approccio attivo, responsabile e propositivo alla comunità e alla società. Può proporsi come arena formativa il non imporsi: questo permette di sollecitare una presa di coscienza della priorità da dare a questo ruolo, in affiancamento alle proprie attività e un processo di trasformazione interna che lo metta in condizioni di svolgerlo efficacemente (Ajello, 2012).

Un metodo di formazione
Un metodo formativo che può essere sperimentato all’interno del volontariato è il cooperative learning che nasce dal raccordo di un insieme di considerazioni quali: l’individuazione di questo modello come metodo innovativo e più adeguato alla gestione dei gruppi; le caratteristiche tipologiche delle associazioni di volontariato; l’analisi critica dei metodi di gestione dei gruppi di lavoro utilizzati nell’ambito di volontariato (Atzei a cura di, 2003).
Il cooperative learning si riferisce, ancora prima che a uno specifico metodo di insegnamento/apprendimento, a un vasto movimento educativo che pur avendo delle prospettive teoriche diverse, applica delle particolari tecniche di cooperazione nell’apprendimento in classe. Ciò che accomuna la ricerca e l’applicazione del cooperative learning è l’accentuazione del rapporto interpersonale nell’apprendimento: essa è così forte da rappresentare il perno attorno al quale ruotano tutte le altre variabili come la motivazione e i processi cognitivi. Il cooperative learning può essere visto e descritto sia come un movimento educativo che come un metodo didattico – educativo (Comoglio, Cardoso, 1996).
Questo metodo può essere spiegato come apprendimento o metodo cooperativo. Di fatto il cooperative learning viene definito anche come un metodo di lavoro che facilita lo scambio reciproco, tende a eliminare la competizione fine a se stessa promuovendo le capacità di apprendimento e di integrazione in modo maggiore rispetto ai metodi tradizionali e porta ad acquisire una modalità di lavoro di reciproca responsabilità.
Affinché possano essere formati gruppi di cooperative learning, per esempio nel caso della scuola, bisogna esortare gli studenti ad aiutarsi reciprocamente o assegnare un lavoro da fare in comune. Affinché il gruppo si possa formare, è necessario che siano presenti alcune caratteristiche fondamentali: innanzi tutto l’interdipendenza positiva; l’interazione face to face; l’insegnamento e l’uso delle competenze sociali nell’agire in piccoli gruppi eterogenei; la revisione di controllo costante dell’attività svolta e la valutazione individuale e di gruppo (Busnelli cit. in Atzei a cura di, 2003).
Il prof. Mario Comoglio, dell’Università Pontificia Salesiana, nel 1994 con circa venti presidenti di organizzazioni di volontariato romane organizza il primo campo scuola sul cooperative learning aperto a livello nazionale. A questo evento nel ’95 parteciparono circa centoventi persone provenienti da molte parti d’Italia e impegnate in diverse esperienze e organizzazioni come gruppi di volontariato, parrocchie, associazioni giovanili, sindacati, cooperative sociali. Quello che sembrava rilevante era l’importanza di saper far gruppo e lavorare con gli altri all’interno delle organizzazioni sociali. Grazie a questa idea innovativa, nel tempo, è stato possibile riproporre questa esperienza strutturandola mediante altri livelli (Atzei, 2003).
La Fondazione Italiana per il Volontariato ha deciso di investire su questo metodo, il cooperative learning che non va considerato solo come metodo di lavoro ma anche come ‘filosofia’: una modalità di essere in relazione con gli altri.

I mezzi di comunicazione per coinvolgere al volontariato
Una volta appresi quali possano essere i tipi e i gruppi di formazione proposti per i volontari si tratta ora di capire con quali idee e mezzi si possano coinvolgere le persone a partecipare all’interno del volontariato.
Un mezzo molto efficace risulta essere il “passaparola” e l’utilizzo di testimonianze dirette. Secondo alcune ricerche italiane (Boccacin, 1997) il volontario inizia la propria attività solidale soprattutto su invito di parenti, amici e volontari. Il passaggio di parola, il raccontare la propria esperienza al prossimo (positiva) serve allo scopo di incuriosire coloro che a malapena conoscono il mondo del volontariato (Ambrosini, 2004).
Un altro modo possibile è quello della divulgazione all’interno delle scuole, nei luoghi di aggregazione soprattutto giovanile (come concerti, manifestazioni…) e sul territorio locale. Per quanto riguarda l’invito proposto ad interagire nelle organizzazioni di volontariato, non si tratta solo di promuovere un messaggio da parte delle associazioni ma anche di educare da parte della stessa istituzione.
La televisione, Internet, la pubblicità sui manifesti con l’utilizzo di slogan accattivanti possono essere un’altra tipologia di persuasione per conoscere le realtà del volontariato. I mass media sembrano avere, però, un ruolo minore rispetto i mezzi di comunicazione più diretti, quelli vissuti in prima persona. Anche all’interno del cinema atteggiamenti solidali quali il comportamento prosociale e vari tratti altruistici, legati alla pratica dell’agire volontario, possedevano e possiedono tutt’ora una grande rilevanza: la forza evocativa del cinema che permette di fondere foto, musica e movimento permette anche di unire esperienze raccontate e vissute in prima persona, unite al processo emotivo che viene attivato dalle diverse immagini. Un film che fa molto riflettere riguardo a ciò è “Un sogno per domani”. Siamo all’interno di una scuola media americana al primo giorno di scuola. L’insegnante protagonista, interpretato da Kevin Spacey, assegna un compito per casa ai suoi ragazzi: “Che cosa puoi fare per cambiare il mondo? Mettilo in pratica”. Varie saranno le risposte dei ragazzi, ma in particolare risulta sorprendente e intuitiva quella di Trevor, concretizzata nello slogan: “Passa il favore!” Trevor è un bambino generoso che prende le cose sul serio. E seriamente decide di cambiare il mondo, nel suo piccolo, prendendo spunto da quel compito. Decide di fare tre buone azioni destinandole ad altrettante persone che, a loro volta dovranno ricambiare ad altre tre persone, e così via (Leder, 2000, USA). Oltre alla comunicazione proposta dai mass media è opportuno parlare dei diversi Servizi di Volontariato che oltre ad un ruolo di promozione pubblicitaria del volontariato, possono esercitare una grande funzione di orientamento per far incontrare domanda e offerta al volontariato, fornire formazioni e aggiornamento ai volontari e il lavoro in rete tra le varie organizzazioni (Ambrosini, 1999).

Conclusioni
Con questo articolo abbiamo analizzato e trattato il volontariato inteso come una forma di aiuto programmato e come un fenomeno complesso e in continua dinamicità. Abbiamo osservato come questo fenomeno possa essere inserito all’interno della prosocialità e della formazione personale nella quale ogni persona può decidere di operare il proprio agire solidale. Abbiamo sottolineato l’importanza della formazione nell’ambito del volontariato e del cooperative learning come modello privilegiato di formazione.
Per concludere, il volontariato a livello di partecipazione sociale sviluppa nei volontari:
una consapevolezza morale e politica;
un senso di appartenenza, che riduce il livello di isolamento e alienazione nei giovani;
una condivisione di azioni ed emozioni attraverso i momenti di condivisione e di formazione del saper essere, per cui i giovani entrano in relazione con il proprio vissuto e quello degli altri.
Il volontariato permette dunque di emergere e di riconoscersi come persona. L’augurio che sento di fare al termine di questo scritto a chi approccia per la prima volta, ma anche a chi opera da tempo nel mondo del volontariato, è di scoprire ogni giorno la bellezza del servizio, di maturare la consapevolezza che ogni giorno ci si può donare e scoprire la gioia di spendersi in sacrificio. Mi piace pensare che, come nel film “Un sogno per domani”, una persona possa donare tutta se stessa ad altre persone che, a loro volta, sentano l’urgenza di ricambiare il favore ad altre persone e così via in maniera esponenziale. In un primo momento sembrerà di essere come tanti piccoli sassolini che vengono buttati “silenziosamente” nell’oceano. Ma con impegno, dedizione e consapevolezza quei ciottoli potranno diventare vere e proprie montagne. Il volontariato non è solo un fenomeno che si manifesta in tante organizzazioni benefiche ma è un’opportunità di crescita che può cambiare il mondo e renderlo migliore di come lo si è trovato.

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